diritto dell'Unione europea

L’Unione europea e la “questione ungherese”: taking rights seriously?

L’11 marzo 2013 il Presidente della Commissione europea e il Segretario generale del Consiglio d’Europa hanno adottato uno statement congiunto, relativo al IV emendamento alla costituzione ungherese, nel quale si esprime forte preoccupazione circa la compatibilità della novella costituzionale col principio dello Stato di diritto. In base a tale emendamento, tra le altre cose, la Corte costituzionale ungherese si troverebbe infatti a non potersi più pronunciare sul merito delle future revisioni costituzionali, la sua cognizione venendo limitata ai soli profili procedurali. Analoghe preoccupazioni sono state manifestate dal presidente del Parlamento europeo. Solo pochi giorni prima, poi, in un’intervista concessa al Frankfurter Allgemeine Zeitung, la vice-Presidente della Commissione, Viviane Reding, aveva affermato di comprendere la decisione dell’Irlanda di non concedere l’estradizione verso l’Ungheria di un proprio cittadino accusato di aver provocato la morte di due bambini in un incidente stradale.

Tutte queste prese di posizione rappresentano solo l’ultima di una lunga serie di segnali d’allarme trasmessi all’indirizzo delle autorità ungheresi, ed in particolare del Primo ministro Viktor Orbán, rispetto alle riforme costituzionali introdotte nel paese dall’inizio del 2012. In precedenza, i rilievi si erano principalmente concentrati sulle potenziali violazioni dell’indipendenza della Banca centrale ungherese, dell’autorità responsabile della protezione dei dati e dell’autorità giudiziaria.

In effetti, sino a questo momento la scelta delle istituzioni UE – in primis, della Commissione – è stata quella di affrontare la “questione ungherese” su di un piano prevalentemente tecnico: si è cioè proceduto evidenziando gli elementi d’incompatibilità tra le riforme adottate a livello nazionale e il diritto dell’Unione, decidendo poi in quali casi avviare una procedura d’infrazione contro lo Stato. Delle procedure aperte dalla Commissione, solo una, riguardante la nuova disciplina della Banca centrale, è stata definita in via precontenziosa. La procedura volta a contestare le misure contro l’indipendenza della magistratura, ed in particolare l’abbassamento per legge dell’età pensionabile minima dei magistrati, è stata chiusa dalla Corte di giustizia con sentenza il 6.11.2012 (C-286/12). La Corte ha stabilito che la misura in questione dava vita ad una discriminazione in base all’età in contrasto con la direttiva 2000/78 sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Tuttora pendente è invece il ricorso riguardante la decisione di creare una nuova agenzia nazionale per la protezione dei dati e di porre conseguentemente fine, anzitempo, al mandato del commissario ad hoc (C-288/12).

Iniziative più propriamente politiche non sono mancate. Oltre alle dichiarazioni adottate dai vertici istituzionali UE e ai bilaterali coi rappresentanti magiari, va menzionata la decisione del 13 marzo 2012 sulla sospensione degli impegni del Fondo di coesione a favore dell’Ungheria. Benché motivata alla luce del mancato risanamento del disavanzo interno – dunque, ancora una volta, in base ad elementi di natura squisitamente tecnica -, la decisione, che ha portato alla sospensione di impegni per un importo complessivo di 495.184.000 EUR (poi revocata con ulteriore decisione del 22.6.2012) è stata giustamente considerata come un tentativo di condizionamento economico nei confronti del governo magiaro.

Nel complesso, l’approccio dell’Unione, pur avendo consentito di registrare alcuni passi avanti positivi (talvolta “ridimensionati”, va detto, da successivi ripensamenti del governo magiaro), è apparso eccessivamente debole e scarsamente efficace. È sembrato di assistere anche in questo caso allo stesso tipo di reazione manifestata di fronte alla crisi economico-finanziaria: la ricerca, cioè, di soluzioni settoriali di tipo tecnico inidonee a fornire una risposta di sistema alla crisi. Nel caso dell’emergenza economico-finanziaria, ciò è dipeso in larga parte dai noti limiti strutturali dei Trattati, che non permettono l’adozione di strumenti di governance economica aventi portata sistemica. La stessa cosa non può però dirsi rispetto alla necessità di tutelare i valori sui quali si regge l’Unione.

A partire dal Trattato di Amsterdam, infatti, il diritto primario prevede un meccanismo di controllo sulla condotta degli Stati che consente di reagire alle violazioni gravi e persistenti dei valori dell’Unione. Il procedimento, avente natura essenzialmente politica, può portare all’accertamento delle violazioni da parte del Consiglio europeo (art. 7.2 TUE). È pure prevista la possibilità che, a seguito di tale constatazione, il Consiglio decida di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato dalla sua partecipazione all’Unione (art. 7.3 TUE). Il meccanismo contempla, infine, la possibilità di emettere un early warning che constati l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave dei valori dell’Unione (art. 7.1).

Ora, è indubbio che il ricorso all’art. 7 costituisca una sorta di opzione “nucleare” a disposizione dell’Unione. È dunque comprensibile che l’eventualità di un suo utilizzo venga considerata con particolare cautela. Occorre tuttavia chiedersi quale sia la soglia minima superata la quale l’attivazione del meccanismo (spettante agli Stati membri, al Parlamento e alla Commissione europea) possa ritenersi non solo auspicabile ma addirittura necessaria. In una comunicazione del 2003 sull’art. 7, la Commissione ha precisato che il rischio e la violazione cui si riferisce il Trattato devono “travalicare … singole situazioni e assumere le dimensioni di un problema sistematico”. Più recentemente, proprio riferendosi al caso ungherese, il direttore dell’Agenzia per i diritti fondamentali (FRA), ha rammentato che la valutazione deve essere continua, comparativa e complessiva.

Resta il fatto che, ad oggi, l’unico elemento di prassi “ispirato” dall’art. 7 è dato dall’affaire Haider. In quel caso, tuttavia, gli Stati, preoccupati per la partecipazione nel governo austriaco di un partito ultranazionalista e xenofobo, decisero di non ricorrere alla norma del Trattato e tutto si concluse dopo che un Comitato di saggi aveva fugato ogni timore sul rispetto dei valori comuni europei. Bisogna però anche ricordare che allora il procedimento disciplinato dal TUE non prevedeva la possibilità di adottare un early warning, possibilità, quest’ultima, introdotta in un momento successivo proprio alla luce del precedente austriaco.

Perché, allora, non considerare questa opzione per il caso ungherese? In fondo, l’esistenza di una forte preoccupazione, a livello istituzionale, rispetto alla tutela dei valori dell’Unione è innegabile. Si tratta, peraltro, di preoccupazione condivisa, come visto, da altre organizzazioni internazionali, oltre che da Stati terzi (ad esempio, dagli Stati Uniti). Altrettanto evidente appare poi la natura sistemica del problema, non fosse altro perché esso ha origine in una serie di modifiche costituzionali in grado di condizionare il funzionamento dei pubblici poteri nel loro complesso. Né va sottovalutato il fatto che il ricorso ad un early warning sarebbe per gli Stati membri politicamente meno impegnativo dell’accertamento di una violazione effettiva, rappresentando comunque una presa di posizione difficilmente ignorabile da parte delle autorità magiare.

In effetti, dopo aver adottato, nel 2012, una risoluzione sulla situazione complessiva in Ungheria, il Parlamento europeo ha iniziato a studiare la possibilità di un ricorso all’art. 7.1 TUE. Sulla questione esso dovrebbe tornare ad esprimersi nella plenaria in corso. Più prudente appare la Commissione, che ha dichiarato l’11.4.2012 di stare valutando i passi da compiere sulla base di una “in-depth legal analysis”.

È stato detto che l’intervento dell’Unione costituirebbe un’intollerabile limitazione del potere del Costituente, oltre che una violazione del rispetto delle identità nazionali imposto dall’art. 4.2 TUE. Si dimentica, tuttavia, che l’ordinamento costituzionale degli Stati membri non è esente dall’influenza esercitata dal diritto dell’Unione e che le identità nazionali non dovrebbero, in ogni caso, contraddire i valori fondanti dell’Unione (sul punto si è espressa, seppur incidentalmente, la Corte di giustizia nel caso Sayn-Wittgenstein, C-208/09).

Si è pure sostenuto che il meccanismo previsto dall’art. 7, eccessivamente appesantito dal ruolo esercitato dagli Stati membri, andrebbe in realtà “superato” tramite la creazione di un’agenzia indipendente in grado di accertare velocemente le violazioni dei valori dell’Unione, consentendo poi alle istituzioni di adottare le opportune sanzioni. Ancorché suggestiva, questa ipotesi appare di difficile realizzazione. Da un lato, essa porrebbe il problema di ridefinire il ruolo e i rapporti con la FRA, che già oggi può fornire un supporto nel monitoraggio del rispetto di alcuni dei valori fondamentali dell’Unione. D’altro lato, è difficile ritenere che gli Stati accettino di buon grado un ridimensionamento delle loro attuali prerogative. Per questa ragione appare altrettanto difficile che possa trovare accoglimento nel breve periodo l’invito recentemente rivolto al Presidente della Commissione europea dai Ministri degli esteri di Danimarca, Finlandia, Germania e Paesi Bassi a farsi promotore di un’iniziativa che porti a riconoscere alla Commissione un ruolo di primo piano nella verifica del rispetto dei valori fondamentali comuni. O l’ipotesi, avanzata in dottrina, di attribuire ai cittadini UE un rimedio giurisdizionale diretto per violazione dei valori dell’Unione.

Insomma, pur se imperfetto (si pensi al limitato controllo giurisdizionale esercitato dalla Corte di giustizia), il meccanismo previsto dall’art. 7 costituisce il miglior strumento oggi immaginabile per tutelare i valori dell’Unione. La sua natura politica garantisce una risposta sistemica forte ma al contempo, come visto, graduabile. Esso consente poi di eliminare le ambiguità che derivano dal ricorso a strumenti tecnici, che possono esporre le istituzioni dell’Unione a critiche legate all’uso improprio delle rispettive prerogative. D’altra parte, il significativo ruolo attribuito agli Stati in tutte le fasi della procedura, anziché rappresentare un ostacolo, può contribuire a rafforzare la condivisione dei valori comuni e, dunque, l’identità europea, rendendo anche più credibile l’azione a tutela dei diritti umani svolta dall’Unione sul piano internazionale.

Il caso ungherese non costituisce l’unica fonte di preoccupazione per l’integrità dei valori europei. La crisi economico-finanziaria ha contribuito al riaccendersi in tutta Europa di populismi e nazionalismi che mettono in pericolo l’identità valoriale comune. Nasce anche da questa consapevolezza la proposta, lanciata dal Presidente Monti, di tenere a Roma entro il 2014 un vertice straordinario che affronti il tema del populismo. Nel frattempo, è necessario che le istituzioni UE adottino una strategia meno attendista. Prima se ne renderanno conto a Bruxelles e meglio sarà.

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Federico Casolari

Federico Casolari

3 Comments

  1. Luigi Crema
    Aprile 19, 2013 at 9:53 am — Rispondi

    Oltre alla “questione ungherese” che metti in luce, vedo anche una questione Europa: la possibilità di affrontare delle violazioni compiute dagli stati c’è, è ex post, e riguarda la Corte. E ne parli. Invece il tono dello statement evoca un dovere preliminare di negoziato con la UE per le riforme costituzionali. Su quale fondamento?

  2. Francesco Costamagna
    Aprile 19, 2013 at 7:37 pm — Rispondi

    Il tono dello statement è, in effetti, molto perentorio, ma non sono d’accordo che evochi l’esistenza di un obbligo giuridico per gli Stati membri di negoziare in via preliminare con l’UE (e il CoE) le loro riforme costituzionali. Obbligo che, in effetti, non mi pare previsto da alcuna norma di diritto UE, fatta salva la possibilità di volerlo leggere nel sempre più ampio principio di leale cooperazione di cui all’art. 4.3 TUE. D’altro canto, un negoziato di fatto c’è stato, visto che l’Ungheria ha più volte rimandato questo tipo di riforme anche per la pressione esercitata da Bruxelles, e che questo avvenga mi pare nell’ordine delle cose.
    Credo che, al di là dell’esistenza o meno di questo obbligo, la questione ‘ungherese’ sia eminentemente politica e abbia, come suggerisce Luigi, ripercussioni che vanno ben al di là dei rapporti UE-Ungheria. Proprio per questo motivo, sono d’accordo con quanto dice Federico nel suo post, vale a dire che il meccanismo di cui all’art. 7 TUE, proprio per il suo carattere ‘politico’, sia quello potenzialmente più adatto per affrontare questo tipo di situazioni. A patto, ovviamente, che vi sia la volontà di utilizzarlo.

  3. Federico Casolari
    Aprile 20, 2013 at 10:50 am — Rispondi

    Sono d’accordo con Francesco: nonostante il tono dello Statement trovo difficile possa configurarsi un obbligo giuridico di negoziare le riforme costituzionali. Certo, si potrebbe invocare l’esistenza di un obbligo procedurale di cooperazione ex art. 4.3 TUE. Ciò, tuttavia, non è stato fatto da parte delle istituzioni dell’Unione: esse si sono “limitate” a invitare le autorità ungheresi a posticipare l’approvazione del IV emendamento per consentire l’avvio di un dialogo politico sullo stesso.
    Anche la reazione contenuta nello Statement non fa riferimento a obblighi giuridici disattesi dalle autorità magiare.
    La questione mi pare dunque riconducibile ad un piano più propriamente politico e dovrebbe pertanto trovare una risposta politica. Risposta che l’art. 7 TUE sarebbe in grado di fornire.

    Aggiungo poi una breve postilla sull’esito della discussione della “questione ungherese” nella plenaria del Parlamento europeo di questa settimana.

    Postilla

    La “questione ungherese” è stata discussa dalla plenaria del Parlamento europeo il 17 aprile.
    La maggioranza dei parlamentari ha espresso seri dubbi sulla compatibilità col diritto UE delle modifiche apportate alla Costituzione con il IV emendamento, evocando la possibilità di ricorrere alla procedura prevista dall’art. 7.1 TUE. La questione verrà ridiscussa nel mese di giugno, quando il Parlamento dovrebbe adottare una nuova risoluzione sull’Ungheria.
    Nella stessa sede, il Ministro per gli affari europei della Repubblica Irlandese, Lucinda Creighton, intervenendo in nome e per conto della Presidenza irlandese dell’Unione, ha comunicato che al momento il Consiglio dell’Unione non ha discusso la situazione in Ungheria e non ha pertanto elaborato una posizione comune sulla questione. Ha aggiunto poi che, ad ogni modo, del tema dovrebbe occuparsi in prima battuta la Commissione europea, in qualità di custode dei Trattati.
    Qual è stata, allora, la posizione espressa dalla Commissione europea?
    Anticipata in una lettera inviata venerdì 12 aprile dal Presidente Barroso al Primo Ministro Orbán, la posizione della Commissione è stata comunicata all’aula dalla vice-Presidente Reding. La Commissaria ha chiarito che l’istituzione si sta occupando in particolare di tre dossier collegati al IV emendamento. Il primo riguarda la novella che porterebbe le autorità magiare a poter imporre tasse ad hoc nel caso in cui lo Stato venisse condannato dalla Corte di giustizia, nell’ambito di una procedura d’infrazione, al pagamento di una penalità di mora e/o di una sanzione forfetaria. Il secondo ha ad oggetto la modifica che consentirebbe al Presidente dell’Ufficio nazionale della magistratura di trasferire una causa da un giudice ad un altro. Il terzo, infine, riguarda la previsione di restrizioni alla propaganda politica durante le campagne elettorali, compresa quella per il Parlamento europeo. Viviane Reding ha affermato che, una volta concluse le valutazioni del caso, potrebbero aprirsi delle nuove procedure d’infrazione nei confronti dell’Ungheria. La Commissione ha dunque deciso di perseverare nella gestione “tecnica” dell’affaire ungherese. Un timido spiraglio per l’attivazione del meccanismo ex art. 7 TUE sembrerebbe venire dalle ultime parole pronunciate dalla Reding nel suo discorso davanti al Parlamento ove si fa riferimento al problema del rispetto del principio dello Stato di diritto. In proposito, la Commissaria ha comunicato di voler valutare quale sarà la posizione assunta dall’Ungheria rispetto al parere che la Commissione Venezia del Consiglio d’Europa dovrebbe assumere sul punto e che è atteso per metà giugno.
    La saga, dunque, continua. Prossimo appuntamento a giugno. Non rimane, nel frattempo, che attendere fiduciosi….

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