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La compatibilità con il diritto dell’Unione europea della mediazione europea prevista dal D.L. “Del Fare”

Con il chiaro intento di garantire un migliore accesso alla giustizia ed agevolare una risoluzione extragiudiziale, conveniente e rapida delle controversie, il legislatore dell’Unione, con la direttiva 2008/52/CE, ha imposto agli Stati membri di introdurre, entro il 21 maggio 2011, procedimenti di mediazione per la risoluzione delle controversie in materia civile e commerciale aventi carattere transfrontaliero lasciando aperta la facoltà di estenderne l’ambito applicativo anche a procedimenti interni  (art. 5 par. 2).

Lo Stato italiano, nel trasporre la direttiva con il d.lgs. 28/2010, si è avvalso di tale possibilità prevedendo il previo esperimento del procedimento di mediazione quale condizione di procedibilità dell’azione giudiziale (art. 5, comma 1, d.lgs 28/2010).

Sebbene la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del predetto decreto (per violazione dell’art. 76 Cost. – eccesso di delega) abbia privato di oggetto i rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia nelle more proposti dal Tribunale di Palermo – Sez. distaccata di Bagheria (C-464/11) e dal Giudice di pace di Mercato S. Severino (C-492/11), avendo il Governo italiano (con il  D.L. 69/13, c.d. “del fare”) reintrodotto una normativa analoga a quella dichiarata incostituzionale, restano attuali numerosi dubbi di compatibilità con il diritto dell’Unione.

1. L’obbligatorietà del previo esperimento del procedimento di mediazione

Certamente non è la previsione del previo esperimento di un tentativo di composizione stragiudiziale della lite quale condizione di procedibilità dell’azione giurisdizionale, per altro ammessa anche dall’art. 5, par. 2, della direttiva (che «lascia impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto ad incentivi o sanzioni»), a destare ex se preoccupazioni.

D’altronde, nel caso Alassini (C-317-320/08), sebbene con riferimento al procedimento obbligatorio di conciliazione elaborato nel settore delle comunicazioni elettroniche, anche la Corte di giustizia, sulla scorta della gratuità della procedura, della competenza (tecnica e territoriale) dell’organismo deputato, e di un termine massimo di durata (30 gg), aveva ritenuto compatibile con il diritto dell’Unione il procedimento obbligatorio introdotto con delibera AGCOM 173/07/CONS.

Tuttavia, con riferimento al procedimento elaborato dal legislatore con il d.lgs 28/2010, stante la contemporanea presenza del requisito dell’obbligatorietà con quello dell’onerosità della procedura e della costrizione (indiretta) a conciliare di cui meglio si dirà, appare difficile ammettere un medesimo giudizio di compatibilità.

2. L’assenza di criteri di competenza territoriale

Una indebita compressione del diritto di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali deriva, infatti, dall’assenza, nella normativa di trasposizione, di qualsivoglia regola di competenza territoriale essendo l’elemento temporale l’unico criterio per determinare l’organismo di mediazione competente (la mediazione si svolge davanti all’organismo presso il quale è stata presentata la prima domanda). La parte, convenuta dinanzi un organismo di mediazione notevolmente distante dalla propria residenza o domicilio abituale, si troverebbe, infatti, esposta o a dover sostenere costi ulteriori per raggiungere l’organismo di mediazione scelto dalla parte istante ovvero a non partecipare al procedimento rischiando, anche nell’ipotesi di esito favorevole del successivo giudizio, di non poter ottenere la ripetizione delle spese.

Pertanto, sebbene la direttiva non preveda alcuna disposizione circa la competenza territoriale la cui determinazione ricade, in via esclusiva, sugli Stati membri, l’estensione dei criteri di competenza contemplati nel codice di rito, come per altro sostenuto nel parere relativo alla conversione del D.L. 69/13 approvato in Commissione giustizia alla Camera, appare un correttivo necessario.

3. I costi del procedimento

Altro profilo di incompatibilità con il diritto dell’Unione e con la direttiva che, pur non imponendo la gratuità, richiede che le procedure alternative siano «convenienti» (considerando 6) può derivare dall’onerosità del procedimento di mediazione nazionale. Ciascuna delle parti, infatti, è tenuta a versare all’organismo di mediazione un’indennità, per altro di gran lunga superiore agli importi dovuti a titolo di contributo unificato per l’instaurazione di un procedimento giudiziale. A ciò si aggiunge la considerazione che se, nel processo, il pagamento del contributo unificato grava sulla parte che introduce il giudizio, salva poi la determinazione delle spese secondo il criterio della soccombenza, nel procedimento di mediazione, la parte convenuta, anche laddove evocata per domande palesemente infondate, è tenuta al pagamento di indennità senza possibilità alcuna di ottenerne la ripetizione. Né la scelta, in tali casi, di non partecipare alla mediazione potrebbe costituire una valida soluzione stanti le conseguenze, tanto in termini processuali che economici cui può essere esposta.

4. La competenza dei mediatori

La direttiva 2008/52 impone che il procedimento di mediazione sia condotto in modo «efficace» e «competente». Di contro, i decreti ministeriali adottati sulla scorta dell’art. 16, comma 2, del d.lgs. 28/2010 prevedono, quale requisito per l’iscrizione negli elenchi dei mediatori istituiti presso gli organismi accreditati, il possesso di un titolo di studio non inferiore al diploma di laurea universitaria triennale ovvero, in alternativa, l’iscrizione ad un ordine o collegio professionale. Non è richiesta, quindi, alcuna specifica formazione in ambito giuridico che, invece, sembra essere indispensabile affinché il procedimento di mediazione sia effettivamente rispondente ai ricordati parametri di qualità richiesti dalla direttiva. Ciò è confermato dalla previsione della recente direttiva 2013/11/UE sull’ADR per i consumatori. Detta direttiva, che «non dovrebbe pregiudicare la direttiva 2008/52/CE» e che «è destinata ad applicarsi orizzontalmente a tutti i tipi di procedure ADR, comprese le procedure ADR contemplate dalla direttiva 2008/52/CE», richiede espressamente che le persone fisiche incaricate dell’ADR possiedano, oltre alle competenze necessarie ed i requisiti di indipendenza ed imparzialità, anche «conoscenze giuridiche generali sufficienti per comprendere le implicazioni giuridiche della controversia». Pertanto, interpretando la direttiva 2008/52 alla luce della direttiva 2013/11, sembra possibile concludere che il diritto dell’Unione osta ad una normativa quale quella nazionale che non prevede, al fine di garantire lo svolgimento del procedimento di mediazione in modo «competente» una specifica competenza tecnico-giuridica dei mediatori. Né, sulla valutazione di compatibilità, può avere incidenza alcuna la previsione contenuta nel D.L. 69/13 che estende «di diritto» agli avvocati iscritti all’albo l’abilitazione ad essere mediatori.

5. Le sanzioni economiche e processuali

Una peculiarità del d.lgs 28/2010 è la previsione di particolari sanzioni, sia in termini economici che processuali, per il caso della mancata ed ingiustificata partecipazione della parte convenuta al procedimento di mediazione.

Ai sensi dell’art. 8, come novellato, infatti, il giudice investito del successivo procedimento giudiziale può trarre dalla mancata partecipazione argomenti di prova ai sensi dell’art. 116 cpc. Inoltre, ai sensi della medesima disposizione, condanna la parte che, assente nel procedimento di mediazione si sia, invece, costituita in giudizio, al pagamento di un importo pari al contributo unificato versato per l’instaurazione del procedimento.

Una tale previsione, che per la sua formulazione appare perentoria e che non lascia al giudicante alcuna discrezionalità (la norma prevede che il giudice «condanna»), si mostra idonea a determinare una coercizione indiretta alla mediazione.

Ciò determina, tuttavia, il venir meno della rispondenza del procedimento alla direttiva. L’art. 3 lett. a) di quest’ultima, infatti, definisce la mediazione come un procedimento «strutturato … dove due o più parti di una controversia tentano esse stesse, su base volontaria, di raggiungere un accordo sulla risoluzione della medesima con l’assistenza di un mediatore».

Il carattere volontario del procedimento di mediazione rischia di essere pregiudicato anche dal combinato disposto degli articoli 11 e 13. La prima delle menzionate disposizioni, infatti, prevede che il mediatore, in caso di mancato accordo delle parti, possa formulare una proposta che, per quanto non sia vincolante ed obbligatoria per le parti che possono non aderire, può essere causa di gravose conseguenze tanto per la parte vincitrice quanto per quella soccombente. Ai sensi dell’art. 13, infatti, laddove la decisione del successivo giudizio sia conforme alla proposta, la parte vincitrice non solo non potrà ottenere il rimborso delle spese di giustizia (secondo il normale criterio della soccombenza) ma, per di più dovrà rimborsare quest’ultime alla parte soccombente e versare allo Stato un importo pari al contributo unificato. Infine, ai sensi del comma 2 del medesimo articolo, la ripetizione delle spese processuali per la parte vincitrice è esclusa anche laddove, pur non essendo la soluzione che definisce il giudizio conforme alla proposta, sussistano gravi ed eccezionali ragioni.

Tale previsione, oltre ad essere contraria alla finalità della direttiva che, si ripete, configura la mediazione come un procedimento in cui prevale la volontà delle parti nel cercare una soluzione alla controversia, può costituire una indebita compressione del diritto di accesso alla giustizia. La parte, infatti, di fronte ad una proposta del mediatore, resa all’esito di un procedimento, per altro, obbligatorio, si troverebbe esposta alla scelta se accettare la soluzione, anche se ritenuta iniqua, ovvero accedere al giudice naturale con il rischio di incorrere in ulteriori (e gravose) conseguenze pecuniarie.

Infine, nella valutazione complessiva, va tenuto in debita considerazione il rilievo che il meccanismo delle sanzioni previste dall’art. 13 si inserisce nel contesto di un sistema di mediazione che è particolarmente oneroso. Tenuto conto delle indennità dovute all’organismo di mediazione e delle spese ulteriori cui, in caso di giudizio la parte potrebbe essere esposta, non è inverosimile pensare che questa possa essere costretta a conciliare vedendo in tal modo violato il diritto all’accesso alla giustizia.

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Adriano Maffeo

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