diritto internazionale pubblico

Siria: “Responsibility to Protect” o “Right to Punish?”

L’aggravarsi della crisi in Siria e le recenti dichiarazioni dell’amministrazione americana fanno temere che possa presto aver luogo un intervento armato statunitense nel Paese.

Lungi dal trovare un fondamento nella responsabilità di proteggere (RtoP, secondo l’acronimo inglese), un intervento unilaterale di questo tipo contro il regime di Bashar al-Assad rappresenterebbe piuttosto un’ulteriore – l’ennesima – sfida ad una corretta applicazione della dottrina. Com’è noto, la RtoP si fonda sul principio secondo cui la sovranità non comporta una ‘license to kill’ (Gareth Evans, intervista con SEF News, 22 maggio 2008), ma consiste piuttosto nel dovere di protezione della popolazione civile.  La comunità internazionale, inoltre, detiene una responsabilità di protezione complementare nei casi in cui il singolo Stato non sia in grado o, peggio, non sia intenzionato a dar seguito ai propri doveri.

Quella che, in linea puramente teorica, è una costruzione dottrinale difficilmente contestabile, sempre di più è sottoposta a sollecitazioni che ne minano un’applicazione genuina e, dunque, un’accettazione senza riserve.

Questo è in effetti quanto avvenuto con l’intervento in Libia, che pure sembrava poter rappresentare un’attuazione corretta della dottrina. L’operazione NATO, infatti, era stata autorizzata con la Risoluzione 1973, risolvendo ab origine ogni dubbio sulla sua liceità ai sensi della Carta, e faceva seguito – sebbene a strettissimo giro – alle sanzioni adottate con la Risoluzione 1970, attestando così la scelta operata dal Consiglio di sicurezza di applicare misure non implicanti l’uso della forza, prima di consentire il ricorso alle armi.

Cionondimeno, nei fatti, le modalità con cui l’intervento veniva condotto palesavano l’intenzione dell’Alleanza Atlantica di imporre un cambio di regime nel Paese, perseguendo un fine diverso da quello della protezione dei civili, individuato nel mandato ONU. Molte voci hanno tentato di ricondurre il cambio di regime alla costruzione della RtoP e, forse, non si può escludere del tutto che, almeno in casi estremi, la protezione dei civili possa essere realizzata solo attraverso il capovolgimento di un regime dittatoriale e sanguinario. Tuttavia, l’operazione NATO in Libia non ha giovato alla diffusione e all’accettazione della RtoP, oltre ad aver sicuramente alimentato l’ostruzionismo manifestato in seno al Consiglio di sicurezza da Russia e Cina con riferimento alla stessa crisi in Siria (http://www.huffingtonpost.com/rajan-menon/whats-russia-doing-in-syr_b_3375715.html; http://www.mei.edu/content/chinas-evolving-stance-syria).

È da riconoscere, tuttavia, che almeno per il momento, la retorica che caratterizza le dichiarazioni d’intenti dell’amministrazione Obama (http://abcnews.go.com/International/syria-punished-warning-kerry/story?id=20115852), ma anche di quella di Hollande (http://www.france24.com/en/20130827-france-punish-syrian-chemical-attack-hollande) sembra essere lontana dall’argomentazione umanitaria. L’intenzione manifestata è piuttosto quella di punire Damasco per avere ‘oltrepassato il limite’, facendo ricorso alle armi chimiche. Ovviamente la dimensione della punizione è del tutto estranea alla logica della RtoP; dunque un eventuale intervento unilaterale non potrebbe in alcun modo essere associato alla dottrina della responsabilità di proteggere. Né, a parere di chi scrive, troverebbe fondamento di liceità altrimenti, non sussistendo una norma che consenta di ‘sanzionare’ la violazione di regole internazionali attraverso l’uso della forza armata al di fuori delle ipotesi consentite dalla Carta delle Nazioni Unite.

Certamente, le notizie che sono giunte dalla Siria sul finire di agosto, secondo cui 1300 persone avrebbero perso la vita nel più disastroso attacco chimico realizzato dal 1989, non possono lasciare indifferenti.  Né consentono sonni tranquilli i numeri delle vittime e dei rifugiati e sfollati resi noti ancora prima di questo episodio: circa 100.000 persone sono state uccise dall’inizio degli scontri; quasi 2 milioni di rifugiati siriani hanno trovato riparo nei paesi confinanti e più di 5 milioni sono gli sfollati che ancora si trovano nel Paese (http://www.globalr2p.org/regions/syria).

È innegabile dunque che la RtoP possa e, anzi, debba essere chiamata in causa in questo caso. Tuttavia l’auspicio è che essa non sia usata per millantare lo scopo umanitario di un intervento che persegua in realtà altri fini strategici, ma piuttosto induca gli Stati e le istituzioni internazionali a trovare con urgenza una soluzione ad una crisi che rischia di diventare l’ennesimo Ruanda sulla coscienza della comunità internazionale.

A questo proposito è allarmante che il Consiglio di sicurezza non sia riuscito, a due anni dall’inizio della crisi, ad adottare una sola risoluzione sulla Siria, limitandosi di tanto in tanto ad esprimere la propria preoccupazione per singoli episodi attraverso comunicati stampa.

Un intervento unilaterale sarebbe un colpo basso non solo per la dottrina della RtoP, ma anche per l’intero sistema di sicurezza delle Nazioni Unite che, anche a fronte della solerzia dimostrata da realtà regionali come l’Unione Europea e la stessa Lega Araba, ha più che mai bisogno di dimostrare una rinnovata capacità di funzionamento per confermare la propria centralità in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.

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Ludovica Poli

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