diritto internazionale pubblico

Giudizi costituzionali del quinto tipo. Ancora sulla storica sentenza della Corte costituzionale italiana

Lorenzo Gradoni è professore associato di diritto internazionale presso l’Università di Bologna

È a tutti noto che la Corte costituzionale italiana giudica sulla legittimità delle leggi e degli atti aventi forza di legge, sui conflitti di attribuzione, sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica e, infine, sull’ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo: quattro tipi di giudizio. La sentenza n. 238 del 2014 non sembra comportare difficoltà di classificazione: è un sindacato di legittimità costituzionale, un giudizio del primo tipo. Quale sarebbe, però – in tal caso – la norma oggetto del sindacato?

Forse la regola consuetudinaria accertata dalla Corte internazionale di giustizia con sentenza del 3 febbraio 2012? Impossibile: il pensiero di un simile sindacato urta, tra l’altro, contro il dogma della separazione e dell’«impenetrabilità reciproca» degli ordinamenti (così D’Atena, Lezioni di diritto costituzionale3, 2012, p. 177). E infatti non pare che la Corte lo abbia compiuto (sebbene alcuni brani della sentenza possano far pensare il contrario). Forse allora la Corte ha valutato, alla luce dei principi fondamentali della Costituzione, la norma interna con cui l’ordinamento italiano si è adattato alla consuetudine internazionale. Anche questa ipotesi è da escludere, perché altrimenti la Corte avrebbe ritenuto fondati i dubbi di costituzionalità che il Tribunale di Firenze (il giudice a quo) aveva espresso proprio su tale presunta norma di adattamento, norma che la Corte ha però ritenuto “inesistente”, per poi giudicare «infondato» il rilevo del giudice a quo. Mistero nel mistero: persuasa dell’inesistenza della norma denunciata dal Tribunale di Firenze, la Corte costituzionale non avrebbe dovuto dichiarare l’ordinanza inammissibile, per mancanza di oggetto, invece di giudicarla infondata? Paradosso nel mistero: ammesso e non concesso che la Corte abbia commesso una “svista”, come conciliare ciò che in sostanza appare come un giudizio di inammissibilità con la pretesa, chiaramente espressa dalla Corte, di monopolizzare il sindacato sui conflitti tra consuetudine internazionale e principi fondamentali? È difficile pensare che i tribunali italiani debbano d’ora in poi sentirsi costretti a proporre alla Consulta questioni… potenzialmente inammissibili. Il rompicapo è servito.

La soluzione di un rompicapo dipende spesso dalla formulazione di un pensiero “fuori schema”, da un «thinking outside the box» (come nel paradigmatico gioco del quadrato dei nove punti: suggerisco di sperimentarlo per esperire il senso di “liberazione” che la soluzione comunica). Ciò vale anche per il casse-tête proposto dalla sentenza della Corte costituzionale italiana. Se si cerca all’esterno del quadrilatero dei giudizi “tipici”, è possibile vedere la soluzione delinearsi: quello espresso dalla Corte sul conflitto tra consuetudine internazionale e principi costituzionali imprescindibili è un giudizio atipico. Non è un sindacato di legittimità. E poiché, evidentemente, la sentenza n. 238 del 2014 non si occupa di conflitti di attribuzione, di quesiti referendari o di accuse di alto tradimento, è possibile sostenere che la Corte vi abbia espresso un giudizio del quinto tipo. Qualificazione, questa, che – se corretta – non può che suscitare interrogativi sulla competenza della Corte costituzionale e sul riparto di funzioni tra essa e i giudici ordinari. Vediamo anzitutto perché il nostro caso non sembra ricadere nel perimetro del giudizio di legittimità.

Interstellar, film di fantascienza prodotto e diretto da Christopher Nolan, cerca di mostrare ciò che un essere umano vedrebbe trovandosi in prossimità di un buco nero. Per spingersi oltre il cliché del vortice che tutto inghiotte, il regista si è avvalso della collaborazione di scienziati, artisti ed esperti di computer graphics, dando vita a un processo creativo a quanto pare articolato e fecondo (raccontato per sommi capi in questo affascinante videoclip). Fatte le dovute distinzioni, l’analogia con il nostro caso tiene: come lo stupefacente cunicolo spazio-temporale del buco nero congiunge regioni del cosmo lontanissime, così l’art. 10, 1° comma, Cost. – il “trasformatore permanente” concepito da Tomaso Perassi – mette misteriosamente in comunicazione l’ordinamento italiano con il diritto internazionale; come il team selezionato da Christopher Nolan si è sforzato di immaginare un’esperienza visiva inenarrabile, così i giuristi italiani hanno profuso non poco ingegno nella costruzione di modelli normativi capaci di “reggere” l’interazione tra Costituzione e consuetudine internazionale, senza rinunciare agli eleganti vincoli dell’architettonica dualista. Poiché in questa sede sarebbe impossibile rendere conto della varietà e della sottigliezza di tali tentativi, è con beneficio d’inventario che provo a proporne una classificazione tripartita. O meglio bipartita, dove tuttavia la seconda opzione si scinde in due varianti da tenere chiaramente distinte.

Il seguente schema può aiutare a orientarsi nel prosieguo dell’analisi (il senso delle denominazioni si chiarirà strada facendo):

(1) Teoria non nomogenetica (selettiva) (2.1) Teoria nomogenetica non selettiva

 

(2.2) Teoria nomogenetica selettiva

Vi è in primo luogo la possibilità (1) di interpretare il richiamo alle «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», di cui all’art. 10, 1° comma, Cost., come rinvio mobile (per un’efficace illustrazione di questo modello v. Salerno, Diritto internazionale. Principi e norme3, Padova, 2013, p. 400; similmente, ma in termini più sintetici, Mezzetti, Diritto costituzionale9, Milano, 2014, p. 166). L’aspetto essenziale di tale modello consiste nel fatto che esso non comporta la produzione di norme di adattamento: la norma internazionale è applicata esclusivamente in virtù del richiamo operato dall’art. 10, 1° comma, Cost., ma è applicata in quanto tale, senza bisogno che il “trasformatore permanente” ne riproduca il contenuto nell’involucro di norme interne. Che cosa accade in caso di conflitto tra consuetudine internazionale e principi fondamentali? Il rinvio, semplicemente, non opera: la norma internazionale incompatibile si ritiene non richiamata dall’art. 10, 1° comma, Cost. In questo senso la tesi non nomogenetica è selettiva, e lo è necessariamente.

In alternativa (2.1 e 2.2) si può concepire tale disposizione – calcando le nitide orme di Gaetano Morelli – come «norma sulla produzione giuridica, la quale contempla come fatti idonei a creare, modificare o estinguere norme giuridiche nell’ordinamento [interno] quegli stessi fatti (p. es., consuetudine internazionale) a cui l’ordinamento internazionale attribuisce l’idoneità a creare, modificare o estinguere norme internazionali di quella data categoria» (Morelli, Nozioni di diritto internazionale7, Padova, 1967, pp. 96-97; in termini analoghi, tra i costituzionalisti, Barbera, Fusaro, Corso di diritto pubblico7, Bologna, 2012, p. 49; D’Atena, op. cit., p. 188). Il dispositivo incardinato nell’art. 10, 1° comma, Cost. svolge qui una doppia funzione: da un lato innesca la cognizione della norma esterna (richiamo); dall’altro produce le norme necessarie ad adeguare il diritto interno alla consuetudine internazionale (produzione). Il connubio richiamo-prodizione costituisce il nucleo della teoria nomogenetica, la quale, per quanto qui ci interessa, offre una diversa rappresentazione del conflitto tra principi costituzionali fondamentali e norme consuetudinarie internazionali. Sono inoltre due gli scenari che essa è in grado di proiettare. È importante precisarlo perché sono essi a dar forma alle due varianti cui ho accennato.

Secondo una prima variante (2.1), l’art. 10, 1° comma, Cost., produce norme di adattamento indipendentemente dal contenuto delle norme consuetudinarie prese in considerazione: la funzione di produzione si attiva anche rispetto a norme internazionali incompatibili con i principi fondamentali della Costituzione. Nell’ordinamento italiano potranno perciò riscontrarsi norme che, prodotte dal “trasformatore permanente”, dovranno in qualche modo essere espunte: esistenti, quindi, ma invalide (cfr. Guastini, Le fonti del diritto. Fondamenti teorici, Milano, 2010, pp. 258-259).

Questa è la prospettiva assunta dal Tribunale di Firenze nell’ordinanza del 21 gennaio 2014, dove si ipotizza, come si ricorderà, l’illegittimità costituzionale «della norma prodotta dal nostro ordinamento mediante il recepimento … della consuetudine accertata dalla Corte internazionale di giustizia», un’ipotesi che la Corte costituzionale ha giudicato infondata benché fosse pienamente d’accordo con il giudice a quo sull’esistenza di un contrasto tra principi costituzionali irrinunciabili e consuetudine internazionale.

Evidentemente la Consulta non ha condiviso l’impostazione scelta dal giudice remittente. In questo modo, tuttavia – ed ecco un altro aspetto interessante della sentenza in commento – la Corte costituzione ha mutato indirizzo interpretativo rispetto alla sentenza n. 48 del 1979 relativa al caso Russel (nel mio primo intervento compare una lettura in parte erronea, se non addirittura “apocrifa”, di quel precedente). In quel caso, la Corte affermò che il «vero oggetto del giudizio» non era l’invalidità (ipotizzata dal giudice a quo) della legge con cui il Parlamento aveva ordinato l’esecuzione della Convenzione di Vienna sulle immunità diplomatiche, bensì «la compatibilità con gli invocati principi costituzionali, della norma interna di adeguamento alla consuetudine internazionale generale» (punto 3, corsivo mio). Il Tribunale di Firenze si era dunque mosso nel solco dell’ortodossia. È la Corte costituzionale ad aver imboccato un’altra direzione. Tra poco vedremo quale. Per ora limitiamoci a osservare che, qualunque sia il corso inaugurato dalla sentenza in commento, la Corte ha fatto bene ad abbandonare l’antico, perché la concezione che lo ispirava è logicamente incoerente. Vediamo perché.

La variante, appena illustrata, secondo cui nel nostro ordinamento si producono norme di adattamento alla consuetudine internazionale indipendentemente dal contenuto di quest’ultima, comporta – lo si è già detto – l’esigenza di procedere alla rimozione delle norme interne in conflitto con i principi fondamentali della Costituzione. Tuttavia – ed è questo l’argomento cruciale – espunta una norma, il meccanismo automatico di adattamento ne produrrebbe immediatamente un’altra identica (e così via, all’infinito, in compagnia di Sisifo). Il rimedio non può consistere nella sola espunzione; ci vuole, in più, l’interruzione del meccanismo di adattamento, un “blocco” del rinvio che impedisca il richiamo di norme consuetudinarie incompatibili con i principi fondamentali. Ma l’interruzione del meccanismo di adattamento non è solo un rimedio necessario; è anche sufficiente. Se opera, infatti – ed è necessario che operi – la norma di adattamento nemmeno si produce (e non ci sarà nulla da espellere). Può ritenersi dunque dimostrato il “teorema” secondo cui un meccanismo automatico di adattamento implica l’impossibilità logica di norme di adattamento incompatibili con i principi fondamentali della Costituzione. E con ciò possiamo dire addio (in parte qua) alla sentenza Russel. Non, però, alla teoria nomogenetica, della quale esiste – non dimentichiamolo – una seconda variante.

Ebbene, tale seconda variante (2.2), al pari della tesi del rinvio mobile (1), è compatibile con il teorema appena enunciato. Il perché è presto detto. Essa, a differenza della tesi concorrente, prevede la produzione di norme di adattamento alla consuetudine, solo, però, nel caso in cui le norme internazionali prese in considerazione siano in armonia con i principi fondamentali; in caso contrario – e qui le due tesi rivali invece si rispecchiano – il meccanismo di adattamento selettivamente si arresta.

A questo punto è lecito sospettare che tra le due tesi superstiti – la non nomogenetica (1) e la nomogenetica selettiva (2.2) – vi sia la proverbiale distinction without a difference. Dal punto di vista teorico-concettuale, tra le due tesi la differenza, evidentemente, c’è. Chi scrive non è però ancora pronto a difendere fino in fondo la convinzione (cerco di farlo in un lavoro incompiuto) che la teoria nomogenetica selettiva sia l’unica in grado di rendere adeguatamente conto del funzionamento del meccanismo incardinato nell’art. 10, 1° comma, Cost. (per una critica, invece, sempre interessante sebbene sottenda una curiosa ontologia “corpuscolare” della norma, v. Pau, “Le norme del diritto internazionale e le garanzie costituzionali della loro osservanza”, Rivista di diritto internazionale, 1968, p. 249 ss., spec. pp. 256-257). Come che sia, le due tesi superstiti, benché distinguibili sul piano teorico, sembrano essere equipollenti a tutti gli effetti pratici. L’opzione che la Corte costituzionale ha esercitato emanando la sentenza in commento potrebbe dunque avere, sotto questo aspetto, un rilievo essenzialmente teorico. Ciò detto, che cosa ha scelto la Corte?

Dopo aver abbracciato, nel 1979, la tesi nomogenetica non selettiva (che è fallace ed era quindi da abbandonare: missione compiuta) – e dopo essersi espressa per metafore negli anni successivi (parlando, tipicamente, di «incorporazione» o di «ingresso» e relativi limiti: cfr., ad es., sentenze nn. 15 del 1996 e 73 del 2001) – la Corte ha finalmente scelto la tesi non nomogenetica, o del rinvio mobile.

Nonostante l’impiego, stilisticamente inevitabile, di alcune metafore di gusto monista («immissione» della norma internazionale nell’ordinamento italiano, sua «entrata», ecc.), il linguaggio della sentenza in commento lo mostra chiaramente. La Corte scrive di un’«applicazione da parte dell’amministrazione e/o del giudice», in virtù del rinvio operato dall’art. 10, 1° comma, Cost., di una «una norma di diritto internazionale, dunque esterna all’ordinamento giuridico italiano» (punto 3.1). Il conflitto di tale norma con i principi fondamentali del nostro ordinamento – prosegue la Corte – «esclude l’operatività del rinvio alla norma internazionale» (punto 3.1). Qui, peraltro, la Corte cita una sua precedente pronuncia (n. 311 del 2009), la quale tuttavia riguardava, nell’ambito di un sindacato avente per parametro l’art. 117, 1° comma, Cost., il rinvio alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo operato dalla legge contenente il relativo ordine di esecuzione. La conclusione è altrettanto eloquente: «limitatamente alla parte in cui [la norma internazionale] estende l’immunità alle azioni di danni provocati da atti corrispondenti a [crimini internazionali], non opera il rinvio di cui al primo comma dell’art. 10 Cost. Ne consegue che la parte della norma sull’immunità dalla giurisdizione degli Stati che confligge con i predetti principi fondamentali non è entrata nell’ordinamento italiano e non vi spiega, quindi, alcun effetto» (punto 3.5).

Quello appena citato – occorre ora chiedersi – può considerarsi un giudizio di legittimità costituzionale formulato ai sensi dell’art. 134 Cost.? La Corte costituzionale ritiene di sì, forse per essere certa di non travalicare i limiti della propria giurisdizione. Ciò, tuttavia, la costringe a coniare un’affermazione che non mancherà di stupire i cultori della sua giurisprudenza, ove è costante che il sindacato di costituzionalità non può avere a oggetto una norma internazionale o europea, e infatti, come è noto, nei casi in cui tali norme entrano in gioco, l’esame si appunta invariabilmente sulle corrispondenti norme interne di adattamento. Ora però la Corte dichiara che «n[on] si può escludere dallo scrutinio di legittimità costituzionale la norma oggetto del rinvio operato dall’art. 10, primo comma, Cost.» (punto 2.1).

Si potrebbe commentare ricordando (con Cannizzaro, Diritto internazionale, Torino, 2012, p. 466) che l’art. 134 Cost. «limita il giudizio di legittimità alle sole leggi e agli atti aventi valore di legge», per cui «dovrebbe … essere escluso che una norma consuetudinaria, che è invece un fatto-fonte, possa costituire oggetto di un tale giudizio». A parte ciò – e in termini più radicali – il problema consiste nel fatto che la Corte costituzionale aveva sempre dato per scontata l’insindacabilità di norme appartenenti a un altro ordinamento (cfr. Belletti, “Giudizio di legittimità costituzionale sulle leggi e gli atti con forza di legge”, in Mezzetti, Belletti, D’Orlando, Ferioli, La giustizia costituzionale, Padova, 2007, p. 320 ss., p. 360). Questo singolare esito è più facile da spiegare che da accettare.

Se si adotta un’impostazione incentrata sul rinvio mobile, come la Corte ha scelto di fare, il punto di appoggio costituto dalla norma interna di adattamento – che nel caso del diritto dell’Unione europea, del diritto concordatario, e del diritto pattizio in genere, permette di svolgere un “normale” sindacato di costituzionalità – viene a mancare (v. tuttavia qui per la tesi – interessante ma non so fino a che punto difendibile – secondo cui, in analogia con il sindacato sulle leggi di esecuzione, il controllo di costituzionalità avrebbe a oggetto lo stesso art. 10, 1° comma, Cost., nella misura in cui si crede richiami consuetudini internazionali incompatibili con i principi-cardine dell’ordinamento costituzionale). La brutta notizia è che cambiare impostazione teorica sarebbe del tutto inutile, se lo scopo è dissolvere l’aporia.

Da un lato, infatti, la tesi nomogenetica non selettiva (2.1) è da trascurare perché illogica (anch’essa, per la verità, se non si autoescludesse, solleverebbe qualche problema, come segnalò circa mezzo secolo fa Gaja, “Sull’accertamento delle norme internazionali generali da parte della Corte costituzionale”, Rivista di diritto internazionale, 1968, p. 315 ss., nota 1, il quale era tuttavia ottimista sulla possibilità di estendere l’applicazione dell’art. 134, Cost., alle ineffabili norme di adattamento alla consuetudine internazionale; sulla questione v., di recente, lo scritto di Deborah Russo). È chiaro, inoltre, che la seconda variante della medesima tesi, quella selettiva (2.2), è anch’essa incapace di offrire il ricercato punto d’appoggio interno, giacché esclude la produzione di norme di adattamento in conflitto con i principi fondamentali del nostro ordinamento.

L’unica via d’uscita consiste nel considerare il giudizio ultimamente espresso della Corte per quello che è. Un giudizio che, non essendo riconducibile alla categoria del sindacato di costituzionalità delle leggi, degli atti aventi forza di legge o – volendo dare dell’art. 134 Cost. una lettura estensiva – di qualsiasi altra norma di rango almeno legislativo appartenente all’ordinamento italiano, merita la designazione di “giudizio del quinto tipo”. Si tratta, nel linguaggio della teoria non nomogenetica (1) accolta dalla Corte, di un giudizio vertente sull’operatività, rispetto a una determinata consuetudine internazionale, del rinvio mobile previsto dall’art. 10, 1° comma, Cost. Nei termini della teoria nomogenetica selettiva (2.2), che prediligo, ciò equivale – ed è equipollente a fini pratici – a un giudizio sull’esistenza della norma di adattamento corrispondente alla medesima consuetudine internazionale (cfr., in questo senso, il precedente intervento, che evidentemente legge la sentenza n. 238 del 2014 nel prisma delle categorie che preferisco).

Dire che tali giudizi sono estranei alla nota tipologia quadripartita non significa certo affermare che la Corte costituzionale, formulandoli, agirebbe in un ambito estraneo alla sua giurisdizione. Altrettanto evidente è che il problema della competenza a questo punto non può essere eluso. La Corte, a mio parere, è senz’altro abilitata a esprimere tali giudizi atipici, e ciò in base a due titoli di competenza, entrambi impliciti. Questo aspetto può essere messo in luce distinguendo due casi.

Nel primo caso, il giudice remittente manifesta dubbi sulla conformità di una legge (o di un altro atto sindacabile) alla consuetudine internazionale e, di conseguenza, all’art. 10, 1° comma, Cost. In questo caso, la competenza a esprimere un giudizio del quinto tipo sussiste poiché la questione dell’esistenza di un conflitto tra consuetudine internazionale e principi fondamentali dell’ordinamento è, rispetto al sindacato di legittimità costituzionale propriamente detto, una semplice questione preliminare, che la Corte deve risolvere comunque, anche d’ufficio (in questo senso v., per stretta analogia, la sentenza n. 348 del 2007, dove si legge, al punto 4.7, che «[l]’esigenza che le norme che integrano il parametro di costituzionalità siano esse stesse conformi alla Costituzione è assoluta e inderogabile»). In casi del genere, dunque, un giudizio del quinto tipo può essere espresso dalla Corte perché ancillare rispetto a un sindacato di costituzionalità ex art. 134 Cost., pur rimanendo da quest’ultimo distinguibile, dato il suo peculiare oggetto (una norma che può e deve essere messa a confronto con i principi fondamentali del nostro ordinamento ma non per questo può sensatamente dirsi sindacabile sulla stessa base).

Il secondo caso è esemplificato dalla vicenda che ha condotto alla sentenza in commento. Il giudice a quo non nutriva alcun dubbio sulla compatibilità delle norme di legge applicabili con l’art. 10, 1° comma, Cost.; temeva tuttavia che la consuetudine internazionale che era chiamato ad applicare contrastasse con i principi fondamentali della Costituzione. Questo caso fuoriesce chiaramente dal perimetro del sindacato di legittimità definito dall’art. 134 Cost. La questione che il giudice remittente deve proporre alla Corte costituzionale – “il rinvio ex art. 10, 1° comma, Cost. opera o non opera?” (1), “il trasformatore permanente ha prodotto o no una norma di adattamento?” (2.2) – ha pur sempre carattere preliminare, non, però, rispetto a un sindacato di legittimità costituzionale, bensì, direttamente, rispetto al giudizio di merito. Se, dunque, la Corte è competente ad accogliere e a risolvere una simile questione, può esserlo solo in virtù di un autonomo titolo giurisdizionale.

Nella sentenza in commento, la Corte ha non solo ritenuto di potersi occupare di tali questioni; essa ha anche dichiarato di volerle sottoporre a un regime di controllo rigidamente monopolistico: «In un sistema accentrato di controllo di costituzionalità, è pacifico che questa verifica di compatibilità spetta alla sola Corte costituzionale, con esclusione di qualsiasi altro giudice» (punto 3.2). Se solo si considera l’altezza “siderale” alla quale si svolge, in casi come questo, l’antagonismo tra norme – da un lato vi sono i principi-cardine del nostro ordinamento, in particolare quelli che tutelano i diritti fondamentali dell’individuo, dall’altro l’importantissimo principio di apertura al diritto internazionale generale, iscritto nell’art. 10, 1° Cost., nonché le norme da esso richiamate, le quali in linea teorica rispecchiano valori largamente condivisi nell’ambito della comunità internazionale – diventa francamente difficile contestare la conclusione della Corte. Il giudice delle leggi non può non essere anche giudice – il solo giudice – di conflitti normativi più rari e drammatici di quelli che la Costituzione affida espressamente alle sue cure. Se, dunque, nel caso da ultimo contemplato (a differenza del precedente), la Corte non è competente a esprimersi mercé l’art. 134 Cost., essa lo è però in virtù di una norma costituzionale inespressa (cfr. ancora Guastini, op. cit., pp. 418-419) che la felice “invenzione” dei controlimiti ha finito per portare in superficie.

Un’ultima osservazione. Sin qui in dottrina è prevalsa la tesi secondo cui – anche a causa dei limiti che l’art. 134 Cost. sembra porre alla competenza della Corte – l’esame della compatibilità della consuetudine internazionale con i principi-cardine del nostro ordinamento e l’eventuale “disapplicazione” della prima spettassero in linea di principio, secondo un modello di sindacato diffuso, ai giudici ordinari (cfr., ex multis, Conforti, Diritto internazionale5, 1999, p. 308; Guastini, op. cit., p. 460; Focarelli, Diritto internazionale, I. Il sistema degli Stati e i valori comuni dell’umanità2, Padova, 2012, p. 287). Questa tesi, nella misura in cui era dettata da comprensibili dubbi sulla competenza della Corte costituzionale a svolgere un simile esame, può essere abbandonata. È appena il caso di notare che, come in ogni procedimento che contempla la possibilità di un giudizio incidentale, i giudici ordinari restano comunque liberi di… non avere dubbi sulla congruenza tra singole norme consuetudinarie internazionali e principi fondamentali (salvo che un conflitto non sia già stato accertato dalla Consulta). La Corte costituzionale, a sua volta, potrebbe rinunciare alla finzione del sindacato di legittimità costituzionale, essendo essa senz’altro abilitata a emettere giudizi del quinto tipo.

Concludo riassumendo per punti le tesi difese in questo intervento:

I. La teoria nomogenetica non selettiva (2.1), che la Corte costituzionale utilizzò nella sentenza Russel (n. 48 del 1979) per inquadrare il conflitto tra norme consuetudinarie internazionali e principi fondamentali della Costituzione, è inficiata da un vizio logico. Vale infatti il seguente teorema: un meccanismo automatico di adattamento implica l’impossibilità logica di norme di adattamento incompatibili con i principi fondamentali della Costituzione.

II. Con la sentenza in commento la Corte costituzionale ha opportunamente abbandonato la vecchia teoria per aderire alla teoria non nomogenetica (1), la quale, in termini pratici, sembra essere equipollente alla teoria nomogenetica selettiva (2.2).

III. Nella sentenza in commento, la Corte costituzionale, pur non ammettendolo, ha espresso un giudizio non riconducibile ai quattro tipi canonici di giudizio costituzionale. In particolare, non si può dire che abbia compiuto un sindacato di costituzionalità ex art. 134 Cost.

IV. Tale giudizio, qui denominato «giudizio del quinto tipo», verte sull’operatività, rispetto a una norma consuetudinaria internazionale n, del rinvio mobile previsto dall’art. 10, 1° comma, Cost., oppure, nel linguaggio della teoria nomogenetica selettiva, sull’esistenza della norma di adattamento relativa a n. Il rinvio è operativo (o la norma di adattamento si produce ed esiste) se e solo se n è compatibile con i principi fondamentali della Costituzione.

V. La Corte costituzionale è competente a esprimere giudizi del quinto tipo. Il fondamento di tale competenza varia a seconda della questione che il giudice remittente le sottopone.

VI. Quando la Corte costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità di una legge o di un atto avente forza di legge con l’art. 10, 1° comma, Cost., la sua competenza a esprimere un giudizio del quinto tipo trova fondamento nell’art. 134 Cost. La Corte, mediante tale giudizio, altro non fa che risolvere una questione preliminare all’esercizio del sindacato di legittimità costituzionale.

VII. Quando, come nel caso di specie, il giudice a quo ipotizza esclusivamente l’esistenza di un conflitto tra consuetudine internazionale e principi fondamentali della Costituzione – e si fuoriesce pertanto dal perimetro dell’art. 134 Cost. – la competenza della Corte costituzionale a esprimere un giudizio del quinto tipo trova fondamento in una norma costituzionale inespressa.

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Questa riflessione, che prosegue e in parte corregge le considerazioni sulla microfisica dei rapporti tra ordinamenti contenute in un mio primo intervento a commento della sentenza n. 238 del 2014, prende spunto da una conversazione con Elisa Cavasino e Pasquale De Sena, i quali spero abbiano trovato in queste righe una risposta più completa e soddisfacente ai dubbi che hanno voluto condividere con me. Li ringrazio entrambi.

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