diritto internazionale pubblico

“Il non-essere non è e non può essere”: brevi note a margine della sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale rispetto all’adattamento dell’ordinamento italiano al diritto internazionale consuetudinario

Marco Longobardo è dottorando di ricerca, curriculum di Diritto internazionale e dell’Unione Europea, presso la Sapienza-Università di Roma

La sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale e i commenti dei Professori Lorenzo Gradoni e Pasquale De Sena in questo blog sono preziose occasioni di riflessione circa i modi con cui l’ordinamento italiano si adatta a quello internazionale e, soprattutto, alle norme consuetudinarie. Queste brevi considerazioni si limiteranno a una prima disamina del ragionamento della Corte costituzionale relativamente alla norma consuetudinaria dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione straniera.

Benché nel dispositivo la Corte dichiari non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma prodotta nel nostro ordinamento mediante il recepimento della consuetudine internazionale sull’immunità degli Stati (dispositivo, par. 3), la motivazione della sentenza appare fortemente innovativa, in quanto per la prima volta la Consulta giudica una norma internazionale consuetudinaria in contrasto con i principi fondamentali della nostra Costituzione. In sostanza, nel dispositivo, “il trucco c’è ma non si vede” e si trova nell’inciso secondo cui la questione è non fondata “nei sensi di cui in motivazione”.

Occorre rilevare che la Corte costituzionale ha ritenuto la norma sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione straniera, come ricostruita dalla sentenza della Corte internazionale di giustizia del 3 febbraio 2012, in insanabile antinomia con il principio personalistico della nostra Costituzione, e in specie con il diritto di accesso alla giustizia. Come ricostruito dal Prof. Gradoni, la Consulta, dal proprio punto di vista di Giudice delle leggi dell’ordinamento italiano, si è però rifiutata di entrare nel merito della ricostruzione che i giudici dell’Aja hanno fatto dell’immunità degli Stati e della sua (mancata) interferenza con il divieto di commissione di crimini internazionali, seguendo in questo l’impostazione delle ordinanze di rimessione del Tribunale di Firenze (le nn. 84, 85 e 113 del 21 gennaio 2014). La Consulta, più semplicemente, ha utilizzato gli strumenti a lei propri, e cioè la tutela dei diritti dell’individuo in un’ottica di giudice interno, dimostrandosi tuttavia non dimentica delle forme di tutela internazionali.

Il primo problema riguarda l’esistenza nel nostro ordinamento dell’oggetto del giudizio di costituzionalità e cioè della norma sull’immunità degli Stati riprodotta dal trasformatore permanente dell’art. 10, primo comma, nel nostro ordinamento. Solo rinvenuto l’oggetto del giudizio di costituzionalità, la Corte avrebbe potuto vagliare la sua legittimità rispetto al parametro di riferimento, consistente per le norme prodotte dall’art. 10, primo comma, nei soli principi fondamentali dell’ordinamento italiano. La Corte costituzionale per fare ciò si è ritenuta competente a vagliare la legittimità costituzionale delle norme di adattamento alla consuetudine, nonostante esse non siano formalmente ricomprese nell’elencazione dell’art. 134 Cost. (considerato in diritto, punto 2.1).

A questo punto, la Corte costituzionale si è preoccupata di qualificare il diritto d’accesso alla giustizia quale principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale, e lo ha fatto ritenendo l’art. 2 Cost. la base giuridica sostanziale del diritto in esame, riservando all’art. 24 i connessi profili processuali (considerato in diritto, punto 3.4).

Di seguito, la Corte ha negato qualsiasi possibilità di bilanciamento fra il diritto d’accesso alla giustizia (di cui, appunto agli artt. 2 e 24 Cost.) e la norma consuetudinaria prodottasi nel nostro ordinamento (considerato in diritto, punto 3.4), che gode pure sempre di un rango paracostituzionale in quanto immessa dall’art. 10, primo comma, a sua volta espressione di un principio fondamentale (sul rango delle norme riprodotte dall’art. 10, I comma vedi T. Treves, Diritto internazionale, Problemi fondamentali, Milano, 2005, p. 662-663; E. Cannizzaro, Corso di diritto internazionale, Milano, 2011, p. 458; B. Conforti, Diritto internazionale10, Napoli, 2014, p. 347-348). Come ha fatto notare il Prof. De Sena, il tentativo di bilanciamento operato dalla Corte costituzionale è stato fatto unicamente sulla base della gravità dei crimini commessi, senza quindi valutare la possibilità di una soddisfazione per equivalente, pur prospettata in dottrina (considerato in diritto, punto 3.4).

Così ragionando, la Corte costituzionale ha preparato il lettore – cioè il suo “auditorio”, per usare una felice espressione altrove adoperata dal Prof. Andrea Bianchi – a una declaratoria di incostituzionalità della norma prodotta dall’art. 10, primo comma, in merito all’immunità degli Stati. Nella motivazione, infatti, la Consulta ha sostenuto che: a) è competente a giudicare sulla stessa in quanto rientrante nel dettato dell’art. 134 Cost.; b) il dubbio di costituzionalità riguarda il diritto di accesso alla giustizia, principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale e quindi parametro idoneo di costituzionalità della norma prodotta nel nostro ordinamento ex art. 10, primo comma; c) il diritto di accesso alla giustizia non può in nessun caso entrare in bilanciamento con la norma dell’immunità degli Stati nella parte in cui essa vale anche allorché siano commessi crimini internazionali.

Visto questo incalzante iter logico-giuridico, appare in qualche maniera sorprendente la decisione della Consulta di giudicare il conflitto inesistente, atteso che l’art. 10, primo comma, non avrebbe permesso l’ingresso nel nostro ordinamento della “parte” (considerato in diritto, punto 3.5, testuale) di norma consuetudinaria riguardante l’immunità degli Stati nel caso di commissione di crimini internazionale. Tale “porzione” di norma consuetudinaria appare inesistente nel nostro ordinamento e pertanto non può porsi in contrasto con il diritto di accesso alla giustizia. Da qui, il titolo di questo commento e il richiamo a Parmenide.

Qualche conclusione può essere comunque tratta. La prima è che in questo caso non si può parlare di incostituzionalità della norma consuetudinaria: sarebbe forse più opportuno parlare di “anticostituzionalità”, al fine di esprimere pienamente il dissidio ontologico che vi sarebbe fra i valori fondativi dell’ordinamento italiano e la regola dell’immunità degli Stati, nel caso in cui questa impedisca alle vittime di crimini internazionali di accedere alla giustizia. Sembra però che la Corte costituzionale non abbia cercato fino in fondo di operare un bilanciamento fra i valori costituzionali in gioco, possibile solo una volta riconosciuto l’ingresso nel nostro ordinamento di una determinata norma: se si esclude questo presupposto, la norma non esiste nel nostro ordinamento e, quindi, non può essere bilanciata con principi di pari grado.

Ci sembra inoltre che la Corte costituzionale non abbia preso in esame un elemento decisivo delle ordinanze di rimessione. Il giudice a quo ha infatti limitato il giudizio di costituzionalità alla sola giurisdizione di cognizione, ritenendo quella di esecuzione non incompatibile col dettato costituzionale, in quanto a protezione di interessi vitali dello Stato straniero, strettamente connessi al concetto di sovranità (Trib. Firenze, ord. n. 84, p. 15). Anche per la Convenzione di New York del 2004 sull’immunità degli Stati i due campi di giurisdizione possono essere esaminati separatamente: in base all’art. 20, infatti, il consenso all’esercizio della giurisdizione di cognizione non importa automaticamente l’accettazione di quella di esecuzione.

La Consulta avrebbe potuto quindi valorizzare questo elemento, nel senso di ritenere che, a seguito di un bilanciamento di interessi fra l’accesso alla giustizia e la tutela della sovranità straniera, solo la giurisdizione di cognizione è permessa al giudice italiano, e non anche quella di esecuzione. Tale statuizione non sarebbe stata in contrasto con alcune forme di tutela proprie del diritto internazionale che, benché in circostanze diverse, ritengono il mero accertamento della responsabilità quale sufficiente riparazione (si pensi solo alle Commissioni di verità e riconciliazione). Così facendo, la Consulta avrebbe evitato al contempo la “corsa” al giudice italiano da parte di tutti gli eredi delle vittime naziste, motivo di preoccupazione concreta per la Germania al tempo della sentenza Ferrini; senza infatti la prospettiva di una soddisfazione pecuniaria, molte azioni di questo tipo non verrebbero proposte.

In realtà, sarà probabilmente la giurisprudenza di merito e di legittimità a stabilire se la pronuncia della Corte costituzionale riguarda solo la giurisdizione di cognizione o anche quella di esecuzione. La Consulta è formalmente vincolata dal principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato (Legge 11 marzo 1953, n. 87, art. 27), e ciò deporrebbe nel senso di ritenere la sua sentenza relativa alla sola giurisdizione di cognizione, secondo il thema decidendum delimitato dal giudice a quo nelle ordinanze. Occorre però osservare che la giurisprudenza costituzionale si è spesso discostata da detto principio (vedi A. Ruggeri e  A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2009, p. 210 ss.) e pertanto spetterà alla giurisprudenza comune definire la portata della sentenza della Consulta. Dai toni usati nella decisione, sembrerebbe però che il contrasto riguardi l’accesso alla giustizia rispetto a qualsiasi tipo di giurisdizione. Per evitare simili incertezze, la Consulta avrebbe potuto approfondire questo passaggio, applicando lo strumento del bilanciamento, magari ritenendo in contrasto con i principi fondamentali l’immunità sello Stato dalla giurisdizione straniera cognitiva, ma affermando la perdurante validità dell’immunità dall’esecuzione: così facendo, vi sarebbe stato un proporzionato e parziale sacrificio reciproco degli interesse costituzionali in gioco (accesso alla giustizia esecutiva da un lato, regola consuetudinaria sull’immunità della giurisdizione di cognizione dall’altro), proprio di un’operazione di bilanciamento. La giurisprudenza comune, inoltre, non sarebbe stata chiamata a risolvere da sola il dubbio in esame, che potrebbe portare anche a una nuova ordinanza di rimessione relativa alla sola giurisdizione di esecuzione.

In conclusione, la sentenza della Corte costituzionale in esame ci sembra avere il pregio di avere messo in dubbio, benché indirettamente, le risultanze del caso Germania c. Italia, facendo leva sulla tutela costituzionale del diritto d’accesso alla giustizia e abbandonando la propria giurisprudenza circa il prevelare delle norme consuetudinarie anteriori alla Costituzione, anche rispetto ai principi fondamentali dell’ordinamento italiano (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 48 del 1979). Le coraggiose argomentazioni della Corte però, soprattutto relativamente al meccanismo di cui all’art. 10, primo comma Cost., e alla mancata distinzione fra giurisdizione di cognizione e di esecuzione, ci sembrano non sempre convincenti. Sarà in futuro interessante studiare il modo in cui reagiranno la Germania e la Comunità internazionale in generale, nonché le ricadute applicative della decisione nelle corti italiane.

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