diritto internazionale pubblico

Alcuni pensieri su «Charlie Hebdo», la libertà d’espressione e le leggi liberticide

Luca Pasquet è dottorando in diritto internazionale presso il Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra

Come cambia il vento. Qualche mese fa, paesi come il Regno Unito e l’Italia discutevano se criminalizzare l’istigazione all’omofobia e alla transfobia. Oggi, dopo l’attentato al settimanale umoristico Charlie Hebdo, la parola d’ordine, nei media e nel discorso politico, sembra essere: la libertà d’espressione è assoluta; bisogna tollerare di tutto nel nome della democrazia e della libertà. Infine, pochi giorni dopo il bagno collettivo di retorica sulla libertà d’espressione, il discusso comico francese Dieudonné è stato arrestato per aver postato su twitter la frase: “je suis Charlie Coulibaly”. Se è innegabile che nessuna espressione d’opinione, in nessuna forma, può giustificare un plurimo omicidio (ma non dovrebbe giustificarlo neanche il crimine più efferato) è al tempo stesso legittimo porsi alcune domande sui limiti della libertà d’espressione, anche con riguardo alla forma della caricatura umoristica: questa libertà è davvero assoluta, è bene che lo sia, e, infine, l’applicazione degli eventuali limiti è selettiva o uguale per tutti? I due livelli (la condanna di un omicidio arbitrario e i limiti della libertà d’espressione) sono distinti, e confonderli non aiuta a comprendere.

In primo luogo bisogna sfatare un mito, rinforzato dalla retorica post-attentato degli ultimi giorni: la parola, e persino l’immagine in forma di caricatura, non sono sempre innocenti ed innocue. La comunicazione può umiliare ed uccidere. Un giurista e sociologo dello spessore di Gunther Teubner ci ricorda che, per quanto il diritto possa solo attribuire ad una “persona” l’attentato al corpo e alla mente di un individuo, ciò che davvero tortura, umilia ed offende l’essere umano è l’anonymous matrix della comunicazione. Afferma Teubner: “communication becomes autonomous from people, creating its own world of meaning separate from the individual mind. This communication can be used by people productively for their survival, but it can also (…) turn against them and threaten their integrity, or even terminate their existence. Extreme examples are: killing through a chain of command, sweatshops as a consequence of anonymous market forces, martyrs as a result of religious communication, political or military torture as destruction of identity” (G. Teubner, “The Anonymous Matrix: Human Rights Violations by ‘Private’ Transnational Actors”, Modern Law Review, 2006, p. 335).

La comunicazione crea la realtà in cui viviamo. Per parafrasare Niklas Luhmann il ruolo della società, ridotta a comunicazione, è di attribuire un senso al mondo. Sono gli slogan, le idee, le convinzioni che circolano nella nostra società a fare di un omosessuale un lussurioso ammalato, di una donna una creatura debole e stupida, di una persona di colore un selvaggio ed uno schiavo, di un ebreo un venale senza cuore, di un musulmano un terrorista. Inoltre la comunicazione verbale o scritta dà spesso vita ad altre forme di comunicazione, aventi una ricaduta fisica diretta sull’essere umano. Il fatto di presentare l’elettroshock o la lobotomia come cure mediche ha portato milioni di esseri umani ed essere torturati. Il fatto di considerare l’omosessualità un crimine ha portato ad imprigionare o castrare chimicamente degli esseri umani.

Presentando il suo libro Les âmes blessées, nel corso di una trasmissione televisiva francese, il neuropsichiatra Cyrulnik ha commentato gli attentati di Parigi sottolineando come ogni tipo di integrismo, dal nazismo all’islamismo radicale, si diffonda grazie alla comunicazione di slogan semplici che il ricevente ripete meccanicamente, illudendosi di aver compreso un concetto, in uno splendido esempio di “pensiero pigro”. Si tratta di un meccanismo che conosciamo bene nell’era della politica populista: gli immigrati portano malattie, i gay contagiano i giovani, e gli zingari rubano. E, a meno che non vengano istituzionalizzati dei meccanismi sociali capaci di limitare questa diffusione, gli slogan continueranno ad essere riprodotti, perché non costano né denaro né sforzo intellettuale, e permettono di conquistare consenso e potere.

Ora, seguendo un approccio luhmanniano per cui ogni interazione sociale può essere collocata in un processo comunicativo, autori come Verschraegen e Teubner configurano i diritti umani come uno dei possibili meccanismi sociali volti a limitare le esternalità negative della comunicazione. Essi funzionano come filtri, e rendono possibile una “contro-comunicazione” espressa in termini di divieto giuridico. Non tutto può essere trasmesso: la tortura, la discriminazione, la presunzione di colpevolezza e altri tipi di comunicazione vanno bloccati e sanzionati.

Un paradosso su cui ragionare è che la libertà d’espressione dell’individuo è essa stessa un filtro diretto a bloccare le comunicazioni aventi come scopo la censura. L’idea è che il potere politico non può privare un individuo della possibilità di comunicare. Il problema posto dagli avvenimenti di questi giorni è quindi se ed in quale misura si possa limitare la comunicazione nociva trasmessa in virtù della libertà d’espressione (che è un divieto di censurare).

In molti casi, la risposta è stata formulata in termini di criminalizzazione di alcune condotte, dall’hate speech, all’istigazione all’odio razziale, o fondato sull’orientamento di genere, o sulla preferenza sessuale, o sulla religione, fino al crimine di negazionismo (si veda a tal riguardo il dibattito ospitato dal SIDIBlog sul tema). Tali limiti alla libertà d’espressione sono giustificati in base all’argomento, esposto in precedenza, per cui anche la comunicazione verbale, scritta, o per immagini, può essere violenta e portare a ferire, uccidere, umiliare.

Tale approccio sembra in linea di massima aver superato con successo il vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo. Certo, la libertà d’espressione implica il diritto di esprimere opinioni che turbano una parte della popolazione (Handyside c. Regno Unito, par. 49), ma non può arrivare fino a giustificare la diffusione del razzismo o dell’odio per una certa categoria d’individui (Soulas et al. c. Francia, par. 42; Jersild c. Danimarca, par. 30). Una maggiore tolleranza sembra valere nei confronti di chi intenda informare o sollevare un dibattito su una questione di pubblica rilevanza: in tal caso, l’uso di una forma provocatoria sembra essere accettabile (Prager e Obershlick c. Austria, par. 38; Brunet-Lecomte e Lyon Mag’ c. Francia, par. 41). Qualora l’intenzione sia invece prevalentemente quella di rappresentare una categoria d’individui in modo chiaramente offensivo, la libertà d’espressione incontra un limite (si veda a contrario Jersild, cit., par. 36).

È quindi legittimo sanzionare un «comportamento (…) intollerabile che costituisca una negazione dei principi fondamentali della democrazia pluralista», afferma la Corte nel caso di un articolo che afferma la necessità di una guerra di riconquista etnica in Europa (Soulas, cit., paragrafi 42-44). Al contempo, una caricatura può portare a condanna del suo autore quando «eccede ciò che è tollerabile in un dibattito politico» (Lindon et. al. c. Francia, par. 57), per esempio perché “giudica positivamente la violenza perpetrata su migliaia di vittime e un attentato alla loro dignità” (Leroy c. Francia, par. 43). Quanto al negazionismo, la Corte ritiene che la libertà d’espressione non possa essere invocata per negare l’esistenza della Shoah. Tale condotta è infatti analizzata come un abuso di diritto, ex art. 17 CEDU (Garaudy c. Francia ).

Tutto bene in teoria, ma in pratica i problemi sono molteplici, soprattutto per quanto attiene alla satira. Una cosa è infatti un commento in cui un’opinione viene sviluppata per una o più pagine, con argomenti ed espressioni valutabili da parte del giudice. Ma vogliamo davvero una società in cui il potere legislativo (a monte) e quello giudiziario (a valle) determinino che cos’è satira e cosa non lo è, su cosa si può scherzare e su cosa no, su cosa si può provocare e su cosa no, sulla base di un disegno, una battuta, o un tweet? E poi, non c’è il rischio di tacciare ogni opinione non politicamente corretta come “razzista”, “terrorista”, “antisemita”? In fondo, in una società plurale, esistono diverse sensibilità e quindi svariate possibilità di offendere qualcuno. Anzi, in molti casi, ciò che non offende il gruppo x, offenderà il gruppo y. La problematica è vastissima e non posso addentrarmici, ma sicuramente può apparire ragionevole il punto di vista di chi, nel dubbio, preferisce un eccesso di libertà ad un eccesso di censura.

In fondo, i limiti istituzionalizzati cui accenna Teubner non devono essere necessariamente giuridici. Un onesto dibattito culturale può essere un antidoto ancora migliore di una sanzione penale, perché obbliga l’autore di un articolo, un libro o un disegno a prendere in considerazione le critiche e le sensibilità altrui, e a difendere le proprie posizioni. Dove i limiti non sono imposti dalla legge, essi possono essere fissati da una regola sociale, la cui violazione sarebbe sanzionata dallo sdegno generalizzato (come suggerisce David Brooks sul New York Times). Persino nel caso del negazionismo, il dibattito delle idee sembra un rimedio ragionevole. In fondo la Shoah va presa seriamente perché è uno degli avvenimenti più documentati della storia umana, e non perché una legge la dichiara innegabile. Trasformarla in dogma di Stato vorrebbe dire sminuirla ed alimentare le tesi complottistiche. Quanto ai negazionisti, meglio sbugiardarli in pubblico, evidenziando la povertà delle loro tesi, che farne dei martiri della libertà d’espressione (si veda a tal riguardo la posizione espressa da Gabriele Della Morte su questo blog).

Certo, in questo caso, il problema è la capacità di condurre un dibattito culturale alto, serio, non viziato da interessi politici o economici di varia natura, nonché l’esistenza di una popolazione educata al rispetto delle sensibilità minoritarie, all’idea di una responsabilità civica anche nell’assenza di regole giuridiche, e capace di indignarsi se un altro è  umiliato. Si può quindi seriamente dubitare della maturità della società italiana in questo senso, soprattutto dopo aver letto i commenti faziosi, per non dire irresponsabili, di certi “opinionisti” sui drammi di Parigi.

A questo punto, devo ammettere di non avere una ricetta. Entrambi i modelli (vale a dire, la criminalizzazione di certe condotte da un lato ed il dibattito aperto dall’altro) appaiono difendibili e supportati da argomenti convincenti. Va poi riconosciuto che in nessuna democrazia liberale la libertà d’espressione è assoluta ed illimitata. Viviamo in una società in cui esistono diversi ibridi, miscele più o meno libertarie dei due modelli.

È tuttavia importante che, qualsiasi compromesso si trovi tra le due esigenze, gli stessi limiti, e le stesse libertà tutelino ognuno allo stesso modo. L’impressione è infatti che spesso i tabù di una cultura, una tradizione, una società, vengano trasformati in limiti impliciti alla libertà d’espressione, viziando il giudizio di cosa è considerato accettabile e cosa inaccettabile. Ciò è particolarmente grave in una “società democratica” che, come spesso sottolineato dagli organi di Strasburgo, si vuole “plurale”. Se le sensibilità sono molteplici, non è pensabile difendere soltanto quella maggioritaria e prevalente. In queste ore, molti, in Francia e altrove, si chiedono per esempio se antisemitismo e islamofobia abbiano lo stesso peso quando operano da limiti alla libertà d’espressione.

In un articolo del 13 gennaio, l’autore israeliano Shlomo Sand scrive per esempio che, mentre l’immagine di Maometto con una bomba sul turbante (facilmente interpretabile come “islam = terrorismo”) viene innalzata a simbolo della democrazia e della libertà d’espressione, nessuno, «né il giornale danese, né Charlie si sarebbe permesso di pubblicare una caricatura raffigurante il profeta Mosè, con una kippah e delle frange rituali, rappresentato come un usuraio dall’aria furbastra, all’angolo di una strada». L’impressione è rafforzata da un articolo comparso su Le Monde nel 2010 (in queste ore riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica francese), in cui si ricorda la condanna di Charlie Hebdo per il licenziamento illegittimo del disegnatore Siné, colpevole di aver ironizzato sulla conversione di Jean Sarkozy all’ebraismo.

Dal punto di vista europeo, una particolare sensibilità verso i problemi legati all’antisemitismo è comprensibile su un piano storico e culturale. L’ebreo ha infatti rappresentato per secoli il “diverso” all’interno della società cristiana. La discriminazione antiebraica ha segnato la cultura europea nel modo più ignominioso. Shakespeare rappresenta Shylock in termini altamente caricaturali ed offensivi, e Lutero non ha parole gentili per l’ebreo falso e menzognero (si ne veda Degli ebrei e le loro menzogne ). Per non parlare dell’orrore di ghetti sovraffollati, della secolare inferiorità giuridica in termini di diritti civili e politici, dell’affaire Dreyfus, e dell’incommensurabile dramma della Shoah. Senza dubbio, uno degli aspetti più vergognosi della storia europea: come guardarsi allo specchio e vedere il lato oscuro della propria cultura.

Come scrive Shlomo Sand, è quindi giusto che la società europea rifiuti, sia attraverso l’autolimitazione culturale responsabile, sia attraverso il divieto giuridico, la rappresentazione offensiva della religione ebraica. Quello che lui ed altri si chiedono è perché gli stessi limiti e la stessa attenzione non valgano per i discorsi chiaramente discriminatori rivolti ad altre minoranze religiose. Negli ultimi giorni, molti quotidiani ed esponenti politici europei (anche italiani) hanno gareggiato nel diffondere l’idea che equiparare l’Islam al terrorismo e all’assassinio, e descriverlo come l’espressione di una “civiltà inferiore”, fosse segno di libertà, civiltà e coraggio civico, contro uno «stupido buonismo», scrivono alcuni.

Mentre costoro pontificavano, in Francia, nelle ore immediatamente successive all’attentato a Charlie Hebdo, qualcuno appiccava il fuoco a due moschee e un chiosco-kebab. Seguendo il processo descritto da Teubner e Cyrulnik, gli slogan prendevano vita, bruciando, umiliando e ferendo. Non si può pensare che, in una “società democratica”, a fronte di tali avvenimenti, regni la più totale assenza di responsabilità, tanto a livello culturale, quanto politico e giuridico. In un sistema giuridico che ha scelto il modello della criminalizzazione, il reato di istigazione all’odio razziale e religioso deve valere anche quando l’offesa è diretta verso l’Islam, anche e soprattutto a fronte di una potente e diffusa retorica anti-islamica. E se si preferisce il modello dell’autolimitazione responsabile, un giornale che (legittimamente) non vuole ironizzare sulla conversione di qualcuno all’ebraismo dovrebbe capire che far passare tutti gli islamici per potenziali terroristi è altrettanto grave. Del resto, ricorda la Corte di Strasburgo, in caso di «tensione e di conflitto» bisogna evitare che i media diventino «un supporto alla diffusione di discorsi d’odio» (Sürek e Özdemir c. Turchia, par. 63).

È appena il caso di ricordare l’importanza della presunzione di innocenza, che è un diritto fondamentale. Certo, nel meccanismo di personalizzazione tipica del fenomeno giuridico, tale diritto è tradizionalmente interpretato come ingerenza di un organo dello Stato (anche del governo, secondo la giurisprudenza di Strasburgo) nei diritti di uno o più individui determinati. Se però osserviamo il problema dalla prospettiva teubneriana per cui l’offesa può derivare da una “comunicazione” indistinta, per colpire vaste categorie d’individui, si può almeno dubitare della compatibilità con la “società democratica” di un dibattito pubblico in cui ogni musulmano è presentato come un potenziale criminale in ragione della sua fede, in una macabra riedizione di tristi principi lombrosiani sepolti da tempo (è Ostellino, sulle colonne del Corriere della Sera, a evocare l’immagine di «lombrosiani criminali»).

Inoltre, il senso profondo della libertà d’espressione risiede nella tutela del debole che critica il potere. Tale visione è supportata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Stoll c. Svizzera, par. 110; Lingens c. Austria, par. 42). La libertà d’espressione deve essere rispettata a maggior ragione quando l’opinione comunicata riguarda un uomo politico (Ibid.) o un personaggio pubblico come il proprietario di una grande impresa (Verlagsgruppe News GmbH c. Austria (No. 2), par. 36). Inoltre, la Corte evidenzia come sia fondamentale che in una società democratica tale libertà possa essere esercitata nei confronti del governo (Castells c. Spagna, par, 46; Sürek e Özdemir, cit. par. 60).

Per questo, se la stessa libertà è invocata dal giornalista influente o dal personaggio politico per mettere alla gogna una minoranza religiosa, o, in generale, la categoria degli immigrati (cioè degli ultimi arrivati, dei più deboli), non solo tale comportamento non ha nulla di civico, ma bisogna allarmarsi, essere sospettosi. Nella maggior parte dei casi, si tratta infatti di una mera scusa per aggirare i limiti imposti dalla legge e le regole sociali della convivenza civile. Riempirsi la bocca di libertà politica per diffondere una visione razzista e discriminatoria del “prossimo” (per usare una terminologia biblica probabilmente ignorata da chi sventola la cristianità come bandiera identitaria) significa abusare di un diritto.

Allo stesso modo, bisogna sospettare di quei governi che, approfittando dell’onda emotiva prodotta dagli attentati, cercano di far passare riforme che riducono la libertà dell’individuo ed aumentano l’invasività dello Stato (seguendo un modo di procedere molto simile a quello descritto da Naomi Klein nel libro Shock Doctrine). In queste ore si parla per esempio di sospensione o modifica del trattato di Schengen, di vietare l’uso di applicazioni per smartphone come la celebre WhatsApp (perché non permette ai servizi di sicurezza di leggere i messaggi privati dei cittadini), e del potere delle autorità di polizia postale di censurare un sito internet  senza dover chiedere l’autorizzazione del giudice. Inoltre, se fino a ieri si invocava con fierezza il baluardo del diritto all’oblio nei confronti di Google, anni di tensioni tra UE e USA in merito alla comunicazione di dati sensibili riguardanti i passeggeri di voli aerei sembrano essere scomparsi nel nulla.

Che tutto ciò sia oggi giustificato in nome della tutela della libertà individuale e dei diritti umani deve far riflettere. In gioco c’è infatti la tutela di quella sfera privata dell’individuo che dovrebbe distinguere una democrazia dai regimi che democratici non sono. Sono i regimi liberticidi quelli in cui ogni aspetto della vita di un individuo ha rilevanza pubblica: in un regime totalitario, tutto è politica; in una teocrazia, tutto è religione. In una democrazia, invece, non siamo tenuti a diventare completamente trasparenti di fronte alla società e all’autorità pubblica. Non è un caso che l’idea di autonomia dell’individuo sottenda larga parte del sistema europeo di protezione dei diritti umani, e forse anche l’idea stessa di diritti fondamentali. Tali diritti hanno infatti lo scopo di permettere all’individuo sia di partecipare liberamente alla vita sociale, sia di isolarsi da essa quando lo ritenga opportuno (il diritto alla vita personale presuppone per esempio il diritto di stringere dei rapporti, ma anche il diritto alla privacy).

Eppure, oggi, nel nome della lotta al terrorismo, qualcuno vorrebbe fare di noi delle case di vetro che rimandano come un’eco gli slogan razzisti della maggioranza, spacciati per una coraggiosa manifestazione di libertà d’espressione. Riflettiamoci.

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Luca Pasquet

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3 Comments

  1. Gabriele Della Morte
    Gennaio 18, 2015 at 7:36 pm — Rispondi

    Ringrazio Luca Pasquet per i numerosi spunti critici che il suo scritto evoca. Rifletterò più a lungo, e più pacatamente, sulle analogie strutturali eventualmente presenti nelle argomentazioni antisemite e antislamiche; ma mi sia concessa una prima reazione ‘a caldo’.

    Se fosse possibile ravvisare una similitudine nelle strutture di tali discorsi, il significato sarebbe profondo, giacché da uno studio sul tema del negazionismo si evince che i pochi elementi comuni di una disciplina profondamente diversificata (da ordinamento a ordinamento) concernono il solo ‘negazionismo olocaustico’. Ne sia prova il fatto che i giudici, tanto interni quanto internazionali, mutano in larga parte i criteri di bilanciamento quando si allontanano dalla valutazione della Shoah. È così persino per il remoto genocidio armeno (di cui quest’anno corre il centenario). Nel caso Perinçek c. Suisse, oggi in attesa di una pronuncia da parte della Grande Camera, la Corte europea dei diritti umani ha ritenuto che in una società democratica e pluralista, come quella svizzera, non fosse necessario giungere ad una condanna per tutelare la libertà di espressione…

    Tale ultima considerazione rimanda a quella che, ai miei occhi, appare come il ‘vero nodo’ intorno al si è svolto il dibattito culturale dal dopoguerra sino ad oggi, e cioè quello dell’unicità di Auschwitz, dell’irrepetibilità dell’Olocausto.
    È questo un tema straordinariamente delicato, che merita il più alto rispetto, oltre che ben altri approfondimenti. Sulla centralità del quale, però, occorre convenire, giacché è intorno ad esso che ancora gravita, consapevolmente o meno, la spinosa questione del reato del negazionismo.

    In un testo che, sebbene difenda tesi del tutto antagoniste a quelle da me maturate, ho trovato interessante (Se Auschwitz è nulla – Contro il negazionismo, Genova, 2012), la filosofa Di Cesare ricorda quali reazioni scatenò la nota osservazione di Theodor Adorno per cui: “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. «[F]urono in molti a sentirsi chiamare in causa. Hans Magnus Enzensberger affermò nel 1959: “se vogliamo continuare a vivere questa sentenza deve essere confutata”. E più tardi Peter Szondi capovolse l’argomento: “se non è più possibile una poesia dopo Auschwitz, allora sarà possibile a causa di Auschwitz”».

    P.S.
    Giacché è stato menzionato, mi permetto di segnalare il seguito del discorso abbozzato in Sidiblog (in rispettoso, ma dissenziente, dialogo con Giorgio Sacerdoti). Le riflessioni sono contenute in un articolo intitolato “L’introduzione del reato di negazionismo in Italia. Una prospettiva critica alla luce dell’ordinamento internazionale”, edito in Diritto pubblico comparato ed europeo, n. 3, 2014, p. 143 ss. (il fascicolo dovrebbe uscire proprio questi giorni).

  2. Gabriele Della Morte
    Gennaio 18, 2015 at 7:45 pm — Rispondi

    Ringrazio Luca Pasquet per i numerosi spunti critici che il suo scritto evoca. Rifletterò più a lungo, e più pacatamente, sulle analogie strutturali eventualmente presenti nelle argomentazioni antisemite e antislamiche; ma mi sia concessa una prima reazione ‘a caldo’.

    Se fosse possibile ravvisare una similitudine nelle strutture di tali discorsi, il significato sarebbe profondo, giacché da uno studio sul tema del negazionismo si evince che i pochi elementi comuni di una disciplina profondamente diversificata (da ordinamento a ordinamento) concernono il solo ‘negazionismo olocaustico’. Ne sia prova il fatto che i giudici, tanto interni quanto internazionali, mutano in larga parte i criteri di bilanciamento quando si allontanano dalla valutazione della Shoah. È così persino per il remoto genocidio armeno (di cui quest’anno corre il centenario). Nel caso Perinçek c. Suisse, oggi in attesa di una pronuncia da parte della Grande Camera, la Corte europea dei diritti umani ha ritenuto che in una società democratica e pluralista, come quella svizzera, non fosse necessario giungere ad una condanna per tutelare la libertà di espressione…

    Tale ultima considerazione rimanda a quella che, ai miei occhi, appare come il ‘vero nodo’ intorno al quale si è svolto il dibattito culturale dal dopoguerra sino ad oggi, e cioè quello dell’unicità di Auschwitz, dell’irrepetibilità dell’Olocausto.
    È questo un tema straordinariamente delicato, che merita il più alto rispetto, oltre che ben altri approfondimenti. Sulla centralità del quale, però, occorre convenire, giacché è intorno ad esso che ancora gravita, consapevolmente o meno, la spinosa questione del reato del negazionismo.

    In un testo che, sebbene difenda tesi del tutto antagoniste a quelle da me maturate, ho trovato molto istruttivo (Se Auschwitz è nulla – Contro il negazionismo, Genova, 2012), la filosofa Di Cesare ricorda quali reazioni scatenò la nota osservazione di Theodor Adorno per cui: “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”: «furono in molti a sentirsi chiamare in causa. Hans Magnus Enzensberger affermò nel 1959: “se vogliamo continuare a vivere questa sentenza deve essere confutata”. E più tardi Peter Szondi capovolse l’argomento: “se non è più possibile una poesia dopo Auschwitz, allora sarà possibile a causa di Auschwitz”».

    P.S.
    Giacché è stato menzionato, mi permetto di segnalare il seguito del discorso abbozzato in Sidiblog (in rispettoso, ma dissenziente, dialogo con Giorgio Sacerdoti). Le riflessioni sono contenute in un articolo intitolato “L’introduzione del reato di negazionismo in Italia. Una prospettiva critica alla luce dell’ordinamento internazionale”, edito in Diritto pubblico comparato ed europeo, n. 3, 2014, p. 143 ss. (il fascicolo dovrebbe uscire proprio questi giorni).

  3. Luca Pasquet
    Gennaio 19, 2015 at 11:00 am — Rispondi

    Ringrazio Gabriele Della Morte per il suo commento. Si tratta in effetti di questioni a cui ho pensato scrivendo il post, ma che non ho potuto approfondire per limiti di spazio. Non metto in dubbio l’unicità dell’Olocausto, che non a caso ho definito “incommensurabile”. Ma posto che niente è paragonabile ai crimini compiuti in Europa sulla spinta dell’odio antisemita, penso che dovremmo chiederci se ciò possa e debba giustificare una maggiore “permissività” nei confronti di altri tipi di razzismo e discriminazione. Insomma, se dobbiamo scrivere qualcosa dopo Auschwitz, forse si tratta di pagine sulla dignità di tutti gli esseri umani, di tolleranza, di rifiuto di ogni tipo di razzismo.
    Se ho scritto quello che ho scritto è perché, tramite i social network, ho visto la preoccupazione dei miei amici francesi musulmani. Si chiedono perché uno sketch in cui Dieudonné recita la parte di un “terrorista israeliano” possa giustificare un processo per antisemitismo, mentre le vignette in cui si ridicolizza Maometto vengono indicate unanimemente come una coraggiosa dimostrazione di libertà. Si chiedono perché i mezzi di comunicazione parlano delle misure di sicurezza per le scuole ebraiche e non delle moschee bruciate e dei primi possibili assassini compiuti per motivi di razzismo anti-islamico.
    Mi sembra che la risposta della Francia dovrebbe essere l’égalité (e forse anche légalité), cioè il rifiuto di ogni razzismo, non importa chi sia il destinatario, la vittima. E questo anche per scongiurare una guerra tra minoranze, tra vittime. E’ giusto maturare anticorpi contro l’antisemitismo; penso non farebbe male a nessuno maturarli anche contro l’islamofobia. E questo a prescindere dalle similitudini o differenze tra il discorso antisemita e quello anti-musulmano. Il razzismo è da condannare in sè, perché umilia, ferisce, e genera mostri, dai più piccoli ai più grandi, ma sempre mostri.
    Ciò detto, per quello che può valere, l’evocare le similitudini profonde tra i due discorsi mi ha fatto venire in mente la mia esperienza di studente alle prese con una tesina di laurea triennale in storia del diritto sulla “condizione giuridica degli acattolici in Piemonte dopo il 1848”. Acattolici in quel contesto significa essenzialmente ebrei e valdesi. Ebbene, ciò che mi colpì fu constatare come il dibattito intorno alla concessione a queste minoranze dei diritti civili e politici si concentrasse su temi del tutto simili a quelli che oggi vengono evocati con riferimento “all’integrazione” della popolazione islamica in Europa. Ci si chiedeva se quelle minoranze potessero “integrarsi”, se le loro dottrine religiose non fossero oggettivamente incompatibili con la società piemontese. Poi erano vissuti isolati per secoli, i valdesi in un ghetto alpino, gli ebrei nei ghetti cittadini: sicuri che potessero coesistere con la gente “normale”? Tantopiù che erano gente strana: i valdesi facevano i loro culti in francese, e passi, ma gli ebrei parlavano quella lingua incomprensibile e avevano usi bizzarri. I “liberali” come i fratelli D’Azeglio, assicuravano in tono paternalistico che con un po’ di sforzo e la giusta educazione, si sarebbero potuti abituare agli usi della gente civile. Altri erano più pessimisti… Non sembra il riassunto di un talk show del 2015? Salvini può anche dire che “il nostro problema non sono i valdesi”. Ma lo sono stati, 160 anni prima.

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