diritto dell'Unione europea

Un nuovo soft instrument per garantire il rispetto della Rule of Law nell’Unione europea

Lucia Serena Rossi, Università di Bologna

Le recenti ed inquietanti dichiarazioni pubbliche del premier ungherese Victor Orban ripropongono in maniera urgente all’Unione europea di vigilare sul rispetto della Rule of Law.
Orban ha dichiarato di ispirarsi ad un modello di “democrazia non liberale”, focalizzata non sui diritti individuali ma su quelli della “comunità”, e addirittura ha evocato necessità di un dibattito sull’introduzione della pena di morte. Tali dichiarazioni hanno provocato sdegnate reazioni dei Presidenti della Commissione e del PE e di alcuni leader come Angela Merkel.
Il tema della Rule of Law è centrale per la sicurezza dei diritti, per l’identità europea ed in ultima analisi anche per la credibilità dell’Unione.

Un dibattito sul pericolo che alcuni Stati dell’Unione europea non rispettino la Rule of Law si è instaurato ormai da tempo, prima di tutto a causa della situazione ungherese (sulla quale vedi il post di F. Casolari), ma anche in vista di possibili degenerazioni del tessuto democratico in altri Stati membri, in un periodo in cui la crisi economica incoraggia populismo e razzismo. Il controllo “interno” all’UE sul rispetto della Rule of Law diviene sempre più necessario ora che la prospettiva del controllo “esterno” della Consiglio d’Europa e della Corte europea dei Diritti dell’Uomo sembra indebolirsi a livello dell’UE, a seguito del parere 2/13 della CGUE (su cui v. i post di S. Vezzani e della sottoscritta). Segni di insofferenza verso la CEDU affiorano peraltro anche all’interno di alcuni Stati membri: se da un lato il Regno Unito ad esempio parla addirittura di uscire dalla CEDU, l’ordinamento italiano, dall’altro, tende a ridimensionare il valore di quest’ultima (v. la sentenza 49/2015 della Corte Costituzionale italiana, su cui il post di P. Mori).
In tale contesto assumono deciso rilievo le Conclusioni sul rispetto della Rule of Law adottate dal Consiglio Affari Generali del 16 dicembre 2014, a seguito di una nota della Presidenza italiana. Il documento mira appunto ad ampliare il quadro degli strumenti che possono essere utilizzati nell’ipotesi che uno Stato membro violi la Rule of Law.
Si tratta della conclusione di un percorso che era iniziato nel 2013 (sul suo sviluppo v. qui), sotto presidenza irlandese, con una lettera di Danimarca, Finlandia, Germania e Paesi Bassi che chiedevano di riflettere su un nuovo e più efficace meccanismo per garantire i valori fondamentali negli Stati membri, ed aveva interessato le principali istituzioni europee. Fra i molti documenti adottati da queste ultime merita soprattutto ricordare la nota del Consiglio del 29 maggio 2013, le risoluzioni del PE del 3 luglio 2013 sul “caso Ungheria” e del 12 marzo 2014 sulla valutazione della giustizia in relazione alla giustizia penale e allo stato di diritto, la comunicazione della Commissione del 19 marzo 2014 (sulla quale v. qui e qui).

Nel diritto internazionale non esiste un’univoca definizione di Rule of Law, ma essa viene usualmente a coincidere con lo Stato di Diritto, che comprende l’ordinamento politico e giuridico, la separazione dei poteri, l’indipendenza della magistratura e più in generale l’assetto costituzionale degli Stati. Nell’ambito del Consiglio d’Europa, la c.d. Commissione di Venezia, nel suo Report on the Rule of Law, elenca fra i principi dello Stato di diritto quelli di legalità, certezza del diritto, divieto di arbitrarietà del potere esecutivo, indipendenza e imparzialità del giudice, controllo giurisdizionale effettivo, uguaglianza davanti alla legge.

Nel diritto dell’UE, la definizione di Rule of Law che emerge dal Trattato di Lisbona è più ampia; essa si evince dall’art. 2 TUE, che elenca i valori fondativi dell’Unione: rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Pertanto lo Stato di diritto è solo una parte dei valori che devono essere comuni all’UE e ai suoi Stati membri. La promozione di tali valori rientra fra gli obbiettivi dell’UE (art. 3 TUE), e ne guida la sua azione sul piano internazionale (artt. 21, 32, 42 TUE) e la politica di vicinato (art. 8 TUE).
Il rispetto di tali valori è dovuto non solo dalle istituzioni dell’UE ma anche dagli Stati membri. Infatti, secondo il citato art. 2 TUE, «questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini». Il rispetto di tali valori è inoltre imposto come precondizione per divenire membri dell’UE (art. 49 TUE), che riprende e si aggiunge ai c.d. criteri di Copenaghen. La nota del 14 novembre indirizzata dalla Presidenza italiana al Consiglio ha definito la Rule of Law come un «elemento essenziale dell’identità europea».
A tali valori si aggiunge, con il Trattato di Lisbona, la Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Anch’essa vincola tanto le istituzioni, quanto gli Stati membri, ma per questi ultimi solo quando essi attuano il diritto dell’UE (o, come ha detto la Corte di Giustizia nel caso Åklaglaren, anche quando, più in generale, le norme o prassi di questi ultimi ricadano “nel campo di applicazione” del diritto dell’UE).
Nell’ordinamento dell’UE il concetto di Rule of Law attinge dunque da più fonti, cui si aggiungono le costituzioni nazionali. Nel 2013 il Consiglio GAI, a seguito di una conferenza tenutasi a Dublino e di una lettera congiunta di alcuni Stati membri, aveva però rilevato che non vi era ancora fra i membri dell’Unione un “common understanding” del concetto di Rule of Law. Quest’ultimo infatti si presta a due diverse interpretazioni thin (meramente formale o procedurale) o thick (che guarda al contenuto sostanziale e agli effetti concreti delle norme). La Presidenza irlandese riteneva che questa seconda concezione è inerente all’art. 2 TUE e all’intesa che ha guidato la missione storica dell’UE. Il documento concludeva sottolineando l’importanza di promuovere un concetto condiviso di Rule of Law fra gli Stati membri, pur nel rispetto delle tradizioni costituzionali di questi ultimi.
Allo stato attuale, i Trattati dell’UE prevedono due diversi tipi di strumenti, uno giurisdizionale e l’altro politico, che possono essere utilizzati per sanzionare lo stato che viola i diritti fondamentali o i principi della Rule of Law. Entrambi gli strumenti trovano però limiti alla loro applicazione.

a) Strumenti giurisdizionali. Il ricorso di infrazione (artt. 258-260 TFUE) può essere promosso dalla Commissione, o (ipotesi assai rara) da un altro Stato membro, contro uno Stato che viola gli obblighi imposti dal diritto UE. Ciò significa che le violazioni dei diritti fondamentali e delle regole democratiche possono essere colpite solo se non vi è una connessione con il diritto materiale dell’UE. Lo stesso vale anche per quanto riguarda il rinvio pregiudiziale di interpretazione, che talvolta viene usato dalla Corte di giustizia per dichiarare che la normativa o la prassi di uno Stato contravviene a specifiche norme dell’UE (è successo, ad esempio, con riferimento a talune norme dell’ordinamento ungherese). Questi strumenti possono talvolta avere una funzione indiretta per colpire Stati che violano la Rule of Law, come è accaduto in talune pronunce contro l’Ungheria, ma ovviamente esso deve rimanere nei confini stabiliti dai Trattati e dunque all’interno delle competenze dell’Unione. La Commissione può anche promuovere ricorsi di infrazione per violazione dell’art 6 TUE e della Carta dei diritti fondamentali, ad esso collegata, ma dovrà pur sempre limitarsi a violazioni che ricadano nel campo di applicazione del diritto dell’UE (il che è ribadito dall’art. 51 della Carta).

b) Strumenti politici. Per le violazioni non connesse all’applicazione di norme dei Trattati o del diritto derivato dell’UE vi è lo strumento di cui all’art. 7.2 TUE, che prevede che in caso di violazione grave e persistente (c.d. “minaccia sistemica”) dei valori di cui all’art.2 TUE da parte di uno Stato membro, il Consiglio europeo possa decidere di sospendere quest’ultimo dai diritti che gli derivano dai Trattati europei, inclusi quelli di voto, restando tuttavia soggetto agli obblighi da essi imposti. Il Consiglio europeo delibera all’unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo, dopo aver invitato tale Stato membro a presentare osservazioni.
Tale norma, inizialmente introdotta dal Trattato di Amsterdam in vista di una possibile adesione della Turchia, non è mai stata usata. Ciò è dovuto sia alla complessa procedura e alle maggioranze richieste, sia alla ritrosia, da parte degli Stati, a utilizzare una sanzione così pesante politicamente. L’art. 7 è una specie di arma atomica, troppo distruttiva per essere utilizzata. L’unico caso in cui si è avuta una reazione, addirittura preventiva, contro possibili violazioni della Rule of Law si colloca al di fuori dell’art. 7. Ci si riferisce a quanto accaduto nel c.d “caso Haider”, nel 2000. Tale misura, di carattere politico-diplomatico, ebbe però il carattere non di una misura dell’UE, ma di una “reazione comune” degli Stati membri di cui si fece portavoce la Presidenza di turno.
Il Trattato di Lisbona ha cercato di rimediare a tale situazione introducendo all’art 7.1 TUE una sorta di early warning: su proposta motivata di un terzo degli Stati membri, del Parlamento europeo o della Commissione, il Consiglio, deliberando alla maggioranza dei quattro quinti previa approvazione del PE, può constatare che esiste “un evidente rischio di violazione grave”, ascoltando lo Stato coinvolto e rivolgendogli delle raccomandazioni. Solo dopo aver espletato questa fase preventiva si passa alla fase sanzionatoria di cui sopra. Le procedure relative all’applicazione dell’art. 7 TUE sono precisate dall’art. 354 TFUE. La Corte di giustizia è competente (art 269 TFUE) a pronunciarsi sulla legittimità di un atto adottato dal Consiglio europeo o dal Consiglio a norma dell’articolo 7 su domanda dello Stato membro oggetto di una constatazione del Consiglio europeo o del Consiglio unicamente per quanto riguarda le prescrizioni di carattere procedurale.
Tuttavia, nemmeno la procedura di early warning è stata mai utilizzata, nonostante le occasioni non mancassero. Sin dal 2013, infatti, il Parlamento europeo ha ventilato l’applicazione dell’art. 7 TUE al caso dell’Ungheria, in cui sono state adottate una serie di norme e prassi che limitano l’autonomia della magistratura e della stampa.
Un’obiezione che potrebbe essere sollevata da un Governo “sotto inchiesta” è quella del rispetto della propria identità costituzionale, previsto dall’art 4.2 TUE. In risposta a tale obiezione si può affermare che all’interno dei Trattati vi sono alcuni valori, indicati dagli stessi come supremi, fra cui rientra il rispetto della Rule of Law, e che di conseguenza prevalgono su tutti gli altri contenuti negli stessi Trattati. In proposito si può poi citare la risoluzione del Parlamento europeo del 3 luglio 2013 sulla situazione dei diritti fondamentali: norme e pratiche in Ungheria, che afferma esplicitamente che «una violazione dei principi e dei valori comuni dell’Unione da parte di uno Stato membro non può essere giustificata in nome di tradizioni nazionali o dell’espressione dell’identità nazionale nel caso in cui tale violazione comporti il deterioramento dei principi e dei valori cardine della costruzione europea, ad esempio i valori democratici, lo Stato di diritto o il principio di mutuo riconoscimento, e che, di conseguenza, uno Stato membro può appellarsi all’articolo 4, paragrafo 2, del TUE, soltanto nella misura in cui esso rispetta i valori sanciti dall’articolo 2 del TUE». Gli Stati membri sono del resto vincolati anche al rispetto del principio di leale cooperazione con l’UE, previsto dallo stesso art. 4 TUE, al paragrafo 3.

La Comunicazione della Commissione del 19 marzo 2014 prevedeva un nuovo quadro in tre fasi: la Commissione avrebbe svolto una valutazione preventiva della situazione e in caso ritenesse vi fosse una situazione di minaccia sistemica della Rule of Law avrebbe instaurato un dialogo con lo Stato interessato inviandogli un parere motivato, per consentire allo Stato di rispondere; se ciò non fosse stato sufficiente, avrebbe indirizzato a detto Stato una raccomandazione di specifiche e concrete misure da prendere entro un certo termine; infine, essa avrebbe verificato il follow up della raccomandazione.
Solo dopo aver esperito questi tre passi la Commissione avrebbe esercitato il suo potere di avviare le procedure di cui all’art. 7 TUE. Essa avrebbe tenuto costantemente informati il Consiglio ed il PE ed avrebbe utilizzato l’expertise e l’assistenza della Agenzia dei Diritti Fondamentali e delle reti giudiziarie europee. Un parere del Servizio giuridico del Consiglio del 27 maggio 2014 aveva tuttavia escluso che nei Trattati vi fosse una base giuridica per la creazione di un nuovo meccanismo di sorveglianza sullo stato di diritto diverso da quelli esistenti.

La Presidenza italiana ha però deciso di non lasciare cadere la questione e ha rilanciato la possibilità di introdurre un nuovo strumento di carattere politico, che persegua le stesse finalità dell’art. 7, ma ne renda meno arduo l’impiego, secondo «un metodo sistematico e basato sulla collaborazione». Si tratta di uno strumento “soft”, che non prevede procedure sanzionatorie, ma è basato sul dialogo in seno al Consiglio. Grazie all’approccio dialogico, più “amichevole” rispetto all’esame che era previsto nella Comunicazione della Commissione, la Presidenza è riuscita a trovare il consenso e l’approvazione da parte del Consiglio Affari Generali del 16 dicembre 2015.
Nelle Conclusioni sopra citate, il Consiglio si impegna a stabilire un dialogo, che potremmo definire “strutturato”, fra tutti i membri per promuovere e salvaguardare la Rule of Law nel quadro dei Trattati. Si noti che, in questi termini, il dialogo può assumere la forma di una consultazione reciproca e paritaria fra gli Stati membri, senza necessariamente assumere toni accusatori nei confronti di un particolare Stato membro.
Tale dialogo dovrà essere basato sui principi di obbiettività, non discriminazione e pari trattamento degli Stati membri. Esso dovrà esser condotto con un approccio imparziale e basato su prove, nel rispetto delle competenze dell’Unione e delle identità costituzionali degli Stati membri secondo quanto stabilito dall’art. 4 TUE e basarsi sul principio di leale cooperazione. Il nuovo strumento dovrebbe poi porsi in termini di complementarietà rispetto a quelli delle altre istituzioni europee e internazionali e si cercherà di evitare duplicazioni.
Il dialogo strutturato, basato sulla “peer review” in seno al Consiglio, risulta assai “ammorbidito” e più consensuale rispetto alla procedura che era stata suggerita dalla Commissione.
Il nuovo strumento costituisce uno step procedurale che di fatto può porsi anteriormente anche rispetto all’applicazione dell’early warning di cui all’art. 7.1 TUE. Pur non potendo in alcun modo modificare l’art. 7 del Trattato, il Consiglio può, tuttavia, in pratica anteporre il nuovo strumento al ricorso all’art. 7.1, dato che è lo stesso Consiglio a promuovere il meccanismo di early warning previsto da tale articolo, il quale a sua volta precede il ricorso alla sanzione da parte del Consiglio europeo.
Naturalmente nulla impedisce alla Commissione o al Parlamento europeo (o ad un terzo degli Stati membri) di avviare, con un parere motivato, le procedure di cui all’art. 7 TUE, anche se è verosimile pensare che tali istituzioni attenderanno di capire se il Consiglio voglia muoversi attraverso il nuovo strumento.
È auspicabile che si tragga profitto dal nuovo strumento per superare l’immobilismo e la ritrosia che hanno sempre frenato il ricorso all’art. 7. Il nuovo strumento presenta rispetto alla situazione preesistente il vantaggio di essere più facilmente utilizzabile (essendo “arma leggera” e non “arma atomica”) e di svolgersi con frequenza regolare. Il nuovo dialogo prevede, infatti, salvo eventi particolari che richiedano riunioni più ravvicinate, una verifica annuale, da tenersi nel Consiglio Affari generali e che sarà istruita dal Coreper sotto la guida delle presidenze di turno (la prima verifica è prevista alla fine del 2016). Si tratta di una caratteristica importante, in quanto la regolarità e predeterminazione del dialogo dovrebbe finalmente rendere il rispetto della Rule of Law un “normale” argomento di discussione fra i Governi. Una sorveglianza continua e reciproca fra gli Stati membri, grazie alla peer pressure, potrebbe avere il vantaggio di prevenire le violazioni, senza la necessità di ricorrere al meccanismo sanzionatorio dell’art. 7.

Per dare concretezza al nuovo strumento il Governo italiano dovrebbe tenere viva l’attenzione sulla scadenza del 2016, sollecitando tutti i passi preparatori che possano rendere tale dialogo effettivo e fruttuoso. Sarebbe ad esempio importante utilizzare il dialogo strutturato per dare seguito alle Relazioni annuali della Commissione sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali. In un leale rapporto di collaborazione interistituzionale, i due strumenti potrebbero rafforzarsi reciprocamente in utile sinergia.
La verifica annuale in seno al Consiglio dovrebbe inoltre tenere conto delle pronunce della Corte europea dei Diritti dell’Uomo e dei rapporti della Commissione di Venezia. Gli Stati membri dell’UE, in quanto anche membri della CEDU, potranno naturalmente essere colpiti nei ricorsi di fronte alla Corte di Strasburgo. La Rule of Law rientra fra le aree di cooperazione prioritaria fra l’UE ed il Consiglio d’Europa, come stabilito nel Memorandum of Understanding fra le due organizzazioni.
Occorre tuttavia risolvere questi problemi a livello politico e non solo giurisdizionale e preferibilmente nel quadro dell’Unione, anche perché al momento, dopo il parere 2/13, i due sistemi non sembrano poter convergere, pur rimanendo l’adesione dell’UE alla Cedu una strada prescritta dai Trattati. Per tale ragione sembrerebbe opportuno che i risultati del dialogo strutturato fossero sistematicamente portati a conoscenza dei Parlamenti nazionali, in modo da coinvolgere e corresponsabilizzare questi ultimi.

È evidente che, se neppure il nuovo meccanismo dialogico fosse in grado di produrre risultati soddisfacenti, occorrerebbe riflettere nuovamente, in vista di una prossima riforma dei Trattati, su soluzioni che affidino indagini così delicate ad un organo politicamente indipendente, quale la Commissione, sicuramente più attento ai fatti e meno influenzabile politicamente rispetto al Consiglio.
Non sembra invece condivisibile l’idea di delegare il controllo su questo tipo di violazioni, che spesso coinvolgono questioni politico-costituzionali assai delicate, ad un organo tecnico quale l’Agenzia dei diritti fondamentali, anche perché, essendo in essa rappresentati tutti i Governi, difficilmente potrebbe evitare i blocchi che si verificano nel Consiglio. Quest’ultima, naturalmente, potrà assistere la Commissione nel suo lavoro di indagine istruttoria, ma non sembra avere un’autorità sufficiente per spingersi oltre tali funzioni collaterali.
Alcuni studiosi hanno indicato diverse strade, che presuppongono la revisione dei Trattati: riformulare l’art. 2 in modo da garantirgli effetto diretto o rimuovere l’art. 51 dalla Carta dei diritti fondamentali, estendendone il campo di applicazione a tutte le attività degli Stati membri, quand’anche non connesse con il diritto dell’Unione, o istituire un’apposita “Commissione di Copenaghen”. Si tratta di indicazioni interessanti, ma che forse faticherebbero a trovare un consenso politico.
Si potrebbe suggerire una soluzione più semplice: inserire, in una prossima riforma dei Trattati, una nuova base giuridica, all’interno dell’art. 7 TUE, che consenta l’adozione, da parte del Consiglio europeo a maggioranza qualificata e su proposta della Commissione o di un terzo degli Stati membri, di decisioni vincolanti, che indichino agli Stati misure concrete da adottare per migliorare l’applicazione della Rule of Law. Proprio quella base giuridica la cui mancanza non ha consentito di percorrere la strada indicata dalla comunicazione della Commissione. Se vi fosse la competenza dell’Unione ad adottare atti che mirino ad imporre agli Stati membri il rispetto sostanziale dei valori dell’art. 2 TUE (o, in altre parole, della Rule of Law in versione thick), a quel punto anche il “normale” ricorso di infrazione sarebbe applicabile: la Commissione potrebbe esercitare il suo ruolo di “guardiano dei Trattati” e la Corte di Giustizia potrebbe condannare gli Stati che non li rispettano. L’attribuzione di tale nuova competenza alle istituzioni dell’UE d’altro canto non sembra così peregrina: essa sarebbe speculare a quella che compete loro nella valutazione dell’adesione di nuovi Stati.
Si potrebbe anche arrivare, in una futura revisione, a prevedere, oltre al recesso volontario, anche l’espulsione di uno Stato membro che violi sistematicamente la Rule of Law. Se il rispetto dei valori dell’art. 2 TUE è condizione necessaria per l’adesione di un nuovo Stato membro, non si vede perché tale rispetto non possa essere configurato come requisito necessario per la perdurante membership. Naturalmente situazioni di conflitto così estreme non potrebbero essere gestite solo dalle istituzioni dell’UE, ma dovrebbero anche vedere il coinvolgimento dei Parlamenti nazionali.

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