diritto internazionale pubblico

Mens rea e responsabilità dello Stato per illecito di genocidio (ancora sulla sentenza della Corte internazionale di giustizia)

Giulia Landi, Università di Firenze

Il 3 febbraio 2015 la Corte internazionale di giustizia (CIG) si è pronunciata sulla controversia tra Croazia e Serbia circa l’applicazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (v. la sentenza). Il procedimento era stato riferito alla CIG dalla Croazia, che aveva richiesto alla Corte sulla base dell’art. IX della Convenzione sul genocidio di riconoscere la responsabilità internazionale della Federazione Jugoslava (Serbia e Montenegro) per gli eventi occorsi durante la guerra del 1990-1995 e rientranti nella fattispecie di atti di genocidio. In seguito alla dissoluzione della Federazione prima e alla dichiarazione di indipendenza del Montenegro poi, la Serbia è rimasta la legittima controparte. Nella propria domanda riconvenzionale, la Serbia ha per contro sostenuto il sussistere della responsabilità internazionale della Croazia per atti di genocidio compiuti il 5 agosto 1995 durante l’“Operazione tempesta”, l’offensiva militare croata messa a punto per riconquistare i territori della Krajina.
La CIG ha rigettato sia la domanda croata che la domanda riconvenzionale serba. In particolare, ha ritenuto che in entrambi i casi fosse possibile verificare l’elemento materiale del genocidio ex art. II (a) (b) della Convenzione, ma che non vi fossero elementi sufficienti a comprovare l’esistenza di un intento genocidario, del c.d. dolus specialis che caratterizza la mens rea del crimine di genocidio. La sentenza si inserisce a pieno titolo nel quadro della prassi della CIG sull’interpretazione della Convenzione sul genocidio ai fini dell’accertamento della responsabilità statale, formatasi a partire dal contenzioso Bosnia Erzegovina c. Serbia. Con sentenza resa il 26 febbraio 2007, la CIG aveva, infatti, riconosciuto il sorgere della responsabilità della Serbia per violazione dell’art. I della Convenzione, per non aver agito in modo da evitare i fatti di Srebrenica.
Prendendo spunto dal commento di Bonafè sulle persistenti incertezze della CIG in tema di rapporto tra responsabilità dello Stato e dell’individuo per il crimine di genocidio, ci concentriamo sul regime di responsabilità dello Stato per l’illecito di genocidio. Due sono le questioni di cui ci occuperemo: 1) lo standard della prova usato dalla CIG per l’accertamento dell’elemento psicologico del genocidio e 2) le possibilità aperte da una interpretazione della Convenzione sul genocidio quale classico trattato a tutela dei diritti umani, interpretazione che permetterebbe di seguire la prassi delle corti dei diritti umani nell’accertare la responsabilità dello Stato laddove questi non agisca per evitare azioni dolose dei suoi organi, anche nel caso in cui non sussista la responsabilità penale degli organi stessi.

1) Lo standard della prova per l’accertamento della mens rea del genocidio

Carattere peculiare dell’elemento psicologico del crimine di genocidio è la sussistenza dell’intento specifico – dolus specialis– di distruggere in tutto o in parte un determinato gruppo protetto (nazionale, razziale, etnico o religioso). Come riportato dalla Commissione di diritto internazionale nei commenti al Codice dei crimini contro la pace e la sicurezza del genere umano, il dolus specialis costituisce il carattere distintivo di questo crimine internazionale.
Nella sentenza resa nel caso Bosnia c. Serbia la CIG aveva precisato che per affermare la responsabilità statale per l’illecito di genocidio è necessario verificare tanto l’elemento materiale quanto la presenza del dolo specifico da parte degli organi di Stato. Nella presente sentenza la CIG consolida questo approccio e, seguendo la linea tracciata nel 2007, per provare il dolus specialis fa ampio riferimento alla prassi e agli standard probatori utilizzati dal Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia (TPIJ). La Corte riprende l’approccio seguito nel caso Bosnia c. Serbia e conferma che in assenza di chiare prove sull’esistenza di un piano statale di genocidio il dolus specialis può essere dedotto da una vasta serie di azioni poste in essere dai sospettati. Tuttavia, tale deduzione deve essere ragionevole e l’unica possibile a partire dall’analisi del caso di specie. In altre parole la Corte, pur affermando in via di principio di non adottare standard di stampo penalistico, sviluppa il proprio ragionamento e raggiunge le proprie conclusioni proprio sulla base di questi standard interpretandoli, inoltre, in senso assai rigido (par. 148). La sentenza non fa rinvio esplicito allo standard probatorio del diritto penale “al di là di ogni ragionevole dubbio”, la cui applicazione tuttavia si intravede nell’approccio della Corte (sul punto Bonafè). In apertura la Corte respinge infatti le argomentazioni addotte dalla Croazia rispetto all’approccio al dolus specialis giudicato troppo restrittivo (parr. 146-148). Non solo, i giudici riprendono l’impianto del giudizio del 2007 per confermare che il dolus specialis è determinato da un insieme di elementi probatori solo laddove questi «could only point to the existence of such intent» (par. 148).

2) Critiche all’interpretazione consolidata dell’intento genocidiario individuale e possibili ripercussioni sul regime di responsabilità statale

Tuttavia, nel decidere di seguire nuovamente questa linea la Corte avrebbe forse potuto tenere conto che nel panorama internazional-penalistico vanno consolidandosi sempre più forti critiche proprio verso l’utilizzo di standard probatori così alti rispetto alla mens rea del crimine di genocidio. L’approccio interpretativo tradizionale sviluppato dai Tribunali penali internazionali, che intende il dolo specifico come precisa volontà di distruggere in tutto o in parte un dato gruppo protetto (c.d. purpose-based approach) è sovente criticato a favore di un knowledge-based approach. Seguendo il knowledge-based approach, è sufficiente a dimostrare l’elemento psicologico il fatto che il perpetratore sia a conoscenza dell’obiettivo generale di distruggere un dato gruppo (sulle caratteristiche e implicazioni di ciascun approccio v. Kress, pp. 304-306). Il ricorso ad un approccio meno restrittivo viene giustificato dal fatto che la Convenzione non contiene riferimenti all’uno o all’altro approccio (così Goldsmith, pp. 238-257) e l’interpretazione dell’intento specifico resta controversa anche facendo riferimento ai sistemi giuridici di civil e common law. In questi ultimi infatti, nonostante siano riconosciuti degli specific intent crimes per i quali è necessario un obiettivo specifico -quali l’attentato, il furto o la rapina- il requisito dell’intenzione è stato interpretato in senso sia volitivo che cognitivo. Nel sistema penale britannico, ad esempio, la definizione di intention include “the foresight of virtual certainty”. In R. v. Wollin (1998, 1 Cr App. R 8, HL, pp. 20-21) la House of Lords ritenne che l’intento potesse essere provato facendo leva anche sulla virtuale certezza del perpetratore riguardo alle conseguenze della propria azione. Infine, l’International Criminal Court Act del 2001, nel definire l’intento genocidiario ai fini dell’esercizio della giurisdizione britannica, include anche la consapevolezza che le conseguenze di una data azione si inseriscano nel quadro di una serie di eventi di portata generale. Parte della dottrina ha poi messo in luce come la definizione di intento non sia del tutto cristallina neanche negli ordinamenti di civil law: anche quando il requisito della mens rea è dettagliatamente definito e incentrato sulla chiara volontà del’agente, come nel caso dei sistemi penali spagnolo e tedesco, l’intento è derivato anche dall’essere a conoscenza di un piano criminale generale e non solo dalla manifesta volontarietà della violazione (sul punto Ambos, pp. 833-858).
Merita inoltre notare che alcuni sostenitori del purpose-based approach, negli ultimi anni, hanno riconsiderato la propria posizione. In particolare, alcuni ritengono che il knowledge-based approach possa essere una valida soluzione in relazione all’accertamento della recklessness individuale, vale a dire della persistenza in una determinata condotta nonostante la consapevolezza del rischio che possa determinarsi un evento lesivo. In altre parole, verificare la mens rea attraverso la conoscenza dell’esistenza di un piano genocidario a cui l’individuo partecipa essendo consapevole dell’obiettivo del piano generale permetterebbe di superare le difficoltà insite nell’accertamento della responsabilità penale individuale per genocidio dimostrando il dolo specifico al di là di ogni ragionevole dubbio (a questa conclusione a favore del knowledge-based approach è giunto Schabas, pp. 254 e 264, modificando la propria precedente posizione ).
Nonostante il vasto dibattito in materia, la giurisprudenza dei tribunali penali internazionali e quella della Corte penale internazionale restano per ora incentrate sulla manifesta volontarietà dell’azione. È però necessario sottolineare che il knowledge-based approach, pur non essendo stato ancora adottato, è stato più volte preso in considerazione. Nella prassi del TPIJ, possibili aperture interpretative rispetto al dolus specialis del genocidio sono state fornite dalla Camera di appello nelle sentenze rese sui casi Krstić e Jelisić. In Krstić si ritenne che l’intento del genocidio potesse essere anche dedotto da «other culpable acts systematically directed against the same group. (…) Where direct evidence of genocidal intent is absent, the intent may still be inferred from the factual circumstances of the crime. The inference that a particular atrocity was motivated by genocidal intent may be drawn, moreover, even where the individuals to whom the intent is attributable are not precisely identified» (Prosecutor v. Krstić, 19 aprile 2004, parr. 33 e 34). In precedenza, in Jelisić, la Camera di appello aveva considerato che in assenza di prove inequivocabili, l’intento specifico del crimine di genocidio potesse essere dedotto da «a number of facts and circumstances, such as the general context , the perpetration of other culpable acts systematically directed against the same group, the scale of atrocities committed, the systematic targeting of victims on account of their membership of a particular group, or the repetition of destructive and discriminatory acts» (Prosecutor v. Jelisić, 5 luglio 2001, parr. 47-48).
La seconda Camera del Tribunale penale internazionale per il Ruanda in Kayishema e Ruzindana ha adottato il purpose-based approach, ma nel definire la mens rea ha precisato che può essere sufficiente che il comportamento dell’accusato sia tenuto in «furtherance of the genocidal intent» (par. 91). In altre parole, se l’individuo è a conoscenza dell’esistenza di un intento generale, si rende conto che le sue azioni possono contribuire al raggiungimento di quello scopo e persiste nell’azione criminale, il dolo può essere verificato. Anche la prima Camera preliminare della Corte penale internazionale nella decisione relativa al mandato di arresto per Al-Bashir si è pronunciata sull’approccio da adottare per verificare la mens rea del crimine di genocidio (Prosecutor v. Omar Al-Bashir, 4 marzo 2009, parr. 139-142). Il dispositivo finale non conferma l’accusa di genocidio verso Al-Bashir perché l’intento genocidario non sarebbe verificato al di là di ogni ragionevole dubbio. È interessante però notare l’opinione dissenziente sul punto del giudice Usačka, la quale ritiene che almeno in fase preliminare non sia necessario applicare uno standard probatorio così alto, ma sarà la Camera in fase di dibattimento a verificare la presenza del dolo specifico al di là di ogni ragionevole dubbio (parr. 84-86). Questa impostazione è stata confermata il 3 febbraio 2010 nella sentenza della Camera di appello che ha rilevato l’esistenza di un errore in diritto da parte della I Camera preliminare laddove questa non aveva applicato lo standard probatorio «whether there are reasonable grounds to believe» previsto per emanare un mandato di arresto, ma aveva erroneamente fatto riferimento allo standard più alto «beyond any reasonable doubt» previsto dall’Art. 61(7) dello Statuto di Roma per la condanna dell’accusato (parr. 30-39). La prima Camera preliminare nel luglio 2010 ha quindi reso una seconda decisione sul mandato di arresto nella quale ha stabilito che vi fossero elementi necessari per ritenere Al-Bashir responsabile del crimine di genocidio di cui all’Art. 6 (a) (b) (c) dello Statuto di Roma, in quanto indirect perpetrator o indirect co-perpetrator ex Art. 25(3) (a) dello Statuto.
In conclusione, la messa in discussione del purpose-based approach in diritto internazionale penale può far riflettere su quale sia lo standard più adatto nel quadro della responsabilità dello Stato, che ricordiamo non ha natura penale.
Nell’accertare la responsabilità statale la CIG ha deciso nel 2007 di appoggiarsi alle pronunce dei tribunali penali internazionali. Tale impostazione dal punto di vista pratico è perfettamente condivisibile, ma necessita di alcuni accorgimenti. Se da un lato infatti la Corte ha beneficiato del materiale probatorio e degli atti dei procedimenti penali internazionali, di fatto ha assegnato un ruolo centrale a prassi di tipo penale per la valutazione della responsabilità statale per fatto illecito. In questo senso, non si vede perché non si possa estendere l’analisi al di là della prassi internazional-penalistica andando a considerare anche gli elementi critici messi in luce dai giudici internazionali o le perplessità espresse da molte autorevoli voci in dottrina. In altre parole, sarebbe stato interessante avere un approccio a 360 gradi sulla disciplina penalistica, visto che su quella la CIG fa perno. Quale poteva essere l’utilità? Il dibattito in dottrina e nella giurisprudenza poteva servire alla Corte come spunto per abbassare lo standard della prova nel regime di responsabilità statale: se gran parte delle autorità statali è quantomeno a conoscenza della messa in pratica di atti configurabili come elemento materiale di genocidio, allora forse l’elemento psicologico di un’entità astratta qual è lo Stato può essere accertato.
In assenza di prassi sul tema, la CIG si presenta(va) come l’unica Corte in grado di poter cogliere l’opportunità di chiarire i contorni della responsabilità statale per illecito di genocidio, definendo parametri idonei all’accertamento della responsabilità dello Stato. Uno standard probatorio elevato come quello adottato sin qui potrebbe, in ultima analisi, far cadere il genocidio nel paradosso giuridico di illecito tanto atroce quanto non sanzionabile; la CIG con la sentenza in esame aveva l’opportunità di scongiurare questa possibilità.

3) La Convenzione sul genocidio quale trattato a tutela dei diritti umani. Una interpretazione possibile

Venendo al secondo punto, nell’ottica di fornire un’interpretazione che consenta di accertare la responsabilità dello Stato per illecito di genocidio e nel caso in cui non vi siano problemi di attribuzione di determinate condotte dolose allo Stato, un ulteriore spunto di riflessione potrebbe venire dal considerare la Convenzione un tipico trattato a tutela dei diritti umani nel quadro della responsabilità statale. In materia di attribuzione, peraltro, merita notare che nella Sentenza la CIG utilizza i termini “forze serbe” o “Serbi” senza pregiudizio rispetto all’attribuzione della condotta dolosa allo Stato (par. 204). La Corte però precisa che, non avendo potuto verificare la sussistenza degli elementi costitutivi del genocidio, non ritiene di doversi pronunciare sulle questioni relative all’attribuzione della condotta (parr. 441-442).
In primo luogo appare necessario ricordare che nonostante la Convenzione sul genocidio abbia una chiara impostazione penale, tale impostazione non porta a configurare alcuna forma di responsabilità penale per gli Stati parte. La Convenzione si occupa principalmente di imporre obblighi di criminalizzazione, ma ciò non sottintende l’affermazione di un crimine statale. Tale ipotesi, peraltro, è stata rigettata sia durante i lavori preparatori che in linea più generale nel Progetto di Articoli sulla responsabilità degli Stati per fatto illecito del 12 dicembre 2001. La Convenzione sul genocidio può essere considerata un trattato a tutela dei diritti umani, tant’è che la Convenzione contro la tortura, ad esempio, condivide la medesima struttura. Nell’ottica di favorire un approccio più ampio al regime di responsabilità statale per illecito di genocidio, è perciò utile vedere come questo viene trattato nell’ambito delle convenzioni a tutela dei diritti umani ed in particolare nella CEDU.
Il sistema CEDU pone in capo agli Stati parte obblighi positivi e negativi. Concentrandoci sull’obbligo di prevenire violazioni dei diritti umani, esso nella prassi comprende 1) il divieto per le autorità statali di porre in essere violazioni dei diritti garantiti; 2) l’obbligo per ciascuna parte contraente di astenersi da qualsiasi attività che possa contribuire ad una violazione. Gran parte della dottrina ritiene che una interpretazione della Convenzione sul genocidio in questo senso sia possibile, tanto più che la CIG stessa ha affermato in Bosnia c. Serbia (par. 166) che l’obbligo di prevenire atti di genocidio previsto dall’Art. I implica necessariamente il divieto per lo Stato di commettere genocidio (cfr. sul punto e per i riferimenti Seibert-Forth, in Gaeta, pp. 349-371). La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) avrebbe potuto fornire buoni spunti di riflessione in merito agli standard probatori da utilizzare, in special modo quando non sia provata la responsabilità penale individuale. Nel caso McCann c. Regno Unito la Corte ha ritenuto che il Regno Unito avesse agito in violazione dell’art. 2 della CEDU (diritto alla vita) per non aver fornito in tempi ragionevoli le informazioni necessarie ad evitare che i suoi agenti uccidessero erroneamente tre sospetti terroristi (parr. 173 e 200-201). Ciò indipendentemente dal fatto che gli agenti britannici non fossero penalmente responsabili, in quanto potevano ragionevolmente aspettarsi sulla base delle informazioni dell’intelligence che fosse necessario uccidere i tre individui per sventare un attacco a Gibilterra. Secondo la Corte EDU, quindi, l’insieme delle attività condotte dall’intelligence e dal Governo britannico permetteva di accertare la responsabilità dello Stato, anche quando i suoi agenti non erano ritenuti penalmente responsabili perché avevano agito in buona fede. Lo standard “beyond any reasonable doubt” è perciò interpretato nel senso di valutare gli elementi probatori nella loro generalità e forte peso è attribuito all’obbligo di astenersi da qualsiasi tipo di coinvolgimento nell’azione dolosa. Anche se la prassi consolidata della Corte prevede l’applicazione dello standard penalistico nella verifica della responsabilità statale, la rigidità dello standard può essere messa in discussione quando, ad esempio, lo Stato non abbia ottemperato al suo obbligo di condurre efficaci ed effettive indagini, portando poi alla Corte il materiale necessario (Varnava and Others v. Turkey; Tanli v. Turkey). Nell’opinione dissenziente al caso Labita c. Italia è stata criticata la scelta della maggioranza di fare riferimento a requisiti tipici di alcuni sistemi penali. Tali standard sono stati giudicati non adatti e fuorvianti per l’accertamento della responsabilità statale, ancor più nel caso in cui gli autori delle gravi violazioni ai danni degli individui non siano individuati con certezza (cfr. l’opinione parzialmente dissenziente dei giudici Pastor Ridruejo, Bonello, Makarczyk, Tulkens, Strážnická, Butkevych, Casadevall e Zupančič, par. 1). Una critica di questo tipo, unita all’affermazione più generale sulla necessità di guardare maggiormente alla prassi della Corte EDU e della Corte interamericana dei diritti dell’uomo per l’attribuzione della responsabilità dello Stato è stata sollevata nella Sentenza nell’opinione dissenziente del giudice Cançado Trinidade (sebbene il pilastro dell’analisi in questo caso sia il principio di umanità, parr. 96-124).

4) L’importanza di interpretare il regime di responsabilità dello Stato per evitare che il genocidio diventi un illecito non sanzionabile

Le argomentazioni sviluppate fin qui non devono far dedurre che la CIG possa essere intesa come una Corte dei diritti umani. Le giurisdizioni contenziosa e interpretativa della Corte sono ben diverse dall’operato della Corte EDU o della Corte interamericana. Tuttavia, nel caso di specie la CIG era chiamata a pronunciarsi sull’applicazione di una Convenzione adottata, nelle sue stesse parole, «for a purely humanitarian and civilizing purpose» (sentenza, par. 87, riprendendo il Parere sulle riserve alla Convenzione sul genocidio del 1951, p. 23). Riteniamo perciò che se si mette in luce l’intento umanitario della Convenzione, allo stesso tempo si possa prendere atto della tendenza delle corti dei diritti umani ad utilizzare lo standard penalistico adattandone però la rigidità alla peculiarità del regime di responsabilità statale, con particolare enfasi verso gli obblighi negativi in capo agli Stati. Tra l’altro, in termini pratici, la metodologia adoperata per accertare la responsabilità statale per illecito di genocidio non si differenzierà poi tanto da quella individuale per lo stesso crimine. Laddove non siano presenti documenti scritti che consentano di verificare l’esistenza di una politica statale – ipotesi assai diffusa – si tratta di ricostruire l’operato dei singoli organi statali. Tuttavia, il punto di riferimento per l’accertamento della responsabilità statale per fatto illecito deve restare l’interpretazione consolidata nella prassi quanto in dottrina: un illecito statale non comporta sanzioni penali, ma determina il sorgere di un obbligo di riparazione in capo allo Stato che ne è autore. È quindi auspicabile che la natura non penale della responsabilità statale e l’estrema difficoltà di verificare un crimine atroce come il genocidio possano in futuro agire da deterrenti verso l’adozione di standard probatori troppo alti.

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Giulia Landi

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