diritto internazionale pubblico

Il quarto test nucleare della Corea del Nord

Marco Roscini, University of Westminster

Lo scorso 6 gennaio, la televisione di Stato della Corea del Nord ha enfaticamente annunciato che il Paese asiatico ha compiuto il suo quarto test nucleare sotterraneo. Si tratterebbe, secondo la versione nordcoreana ancora tutta da confermare, di una bomba all’idrogeno ‘miniaturizzata’ – capace dunque di essere trasportata da un missile a lungo raggio – sviluppata e testata come atto in legittima difesa «against the US having numerous and humongous nuclear weapons». Russia, Stati Uniti e India, tra gli altri, hanno denunciato il test come una violazione flagrante del diritto internazionale. È davvero così? Facciamo il punto della situazione.

La Corte internazionale di giustizia, pur investita della questione da Australia e Nuova Zelanda, ha evitato, sia nel 1974 che nel 1996, di pronunciarsi sulla legalità degli esperimenti nucleari atmosferici e sotterranei condotti dalla Francia. Il Trattato sulla non-proliferazione nucleare (TNP, 1968) non proibisce espressamente gli esperimenti nucleari. In quanto essi siano funzionali all’acquisizione o all’ammodernamento di un arsenale nucleare, essi potrebbero essere considerati incompatibili con l’art. II (per gli Stati non nucleari) e con l’art. VI (per quelli nucleari) di tale trattato. La Corea del Nord ha però esercitato il diritto di recesso dal TNP nel 2003 e occorrerebbe dimostrare che l’art. VI, che obbliga gli Stati «to pursue negotiations in good faith on effective measures relating to cessation of the nuclear arms race at an early date and to nuclear disarmament, and on a treaty on general and complete disarmament under strict and effective international control», si sia trasformato in una norma di diritto internazionale generale, cosa tutt’altro che facile (si vedano i miei commenti in un precedente post sul ricorso, tuttora pendente, presentato dalle Isole Marshall alla Corte internazionale di giustizia contro gli Stati detentori di armi nucleari, inclusa la Corea del Nord, per violazione dell’art. VI del TNP). Non c’è inoltre consenso sulle misure di disarmo che in concreto l’art. VI richiede di adottare.

Da ricordare anche che i cinque trattati sulle zone denuclearizzate finora conclusi proibiscono i test nucleari sia atmosferici che sotterranei nelle rispettive zone da parte non soltanto degli Stati regionali denuclearizzati ma anche di quelli nucleari: le due Coree, però, non sono parte di nessuno di tali trattati. La natura giuridica della Dichiarazione congiunta sulla denuclearizzazione della penisola coreana (firmata il 20 gennaio 1992), che vieta il possesso, la sperimentazione, la produzione, il dispiegamento e l’acquisto di armi nucleari e ogni attività di riprocessamento e di arricchimento di uranio è controversa e, in ogni caso, la Corea del Nord l’ha dichiarata «a dead document» nel 2003.

Il Trattato sulla messa al bando parziale degli esperimenti nucleari (Partial Test Ban Treaty, PTBT) è entrato in vigore nel 1963 e proibisce gli esperimenti nucleari nell’atmosfera, nello spazio extra-atmosferico e negli spazi sottomarini. La Corea del Nord non ne è parte, ma si può ritenere che la disciplina contenuta in tale trattato sia ora anche prevista da una norma consuetudinaria di identico contenuto: la lunga moratoria di test atmosferici (l’ultimo è stato condotto dalla Cina nel 1980), l’assenza di violazioni verificate del trattato e il fatto che anche gli Stati non parte (Cina, Corea del Nord, Francia) si siano astenuti dal condurre esperimenti atmosferici suggeriscono tale conclusione. L’esperimento nordcoreano condotto all’inizio del 2016, tuttavia, è stato sotterraneo e dunque esula dal campo di applicazione del PTBT, almeno finché non causi radioattività al di là del territorio della Corea del Nord (art. I, par. 1, lett. b).

I test nucleari, anche sotterranei, sono proibiti dal Trattato sulla cessazione completa degli esperimenti nucleari (Comprehensive Test Ban Treaty, CTBT) del 1996. L’art. 1 di tale trattato obbliga gli Stati contraenti a «not to carry out any nuclear weapon test explosion or any other nuclear explosion, and to prohibit and prevent any such nuclear explosion at any place under its jurisdiction or control» e «to refrain from causing, encouraging, or in any way participating in the carrying out of any nuclear weapon test explosion or any other nuclear explosion». Com’è noto, però, il trattato non è ancora entrato in vigore per la mancata ratifica da parte di alcuni dei 44 Stati elencati nell’Allegato 2 del trattato, cioè quei Paesi che parteciparono formalmente nel 1996 alla Conferenza sul Disarmo e che possedevano a quella data reattori nucleari. La Corea del Nord, inoltre, non ha né firmato né ratificato il trattato. A differenza del PTBT, non pare sia rintracciabile una norma consuetudinaria, fondata sul CTBT, che proibisca anche i test sotterranei al pari di quelli atmosferici. È vero che nessuno degli Stati nucleari ai sensi del TNP ha condotto esperimenti nucleari, anche sotterranei, dall’apertura alla firma del CTBT nel 1996 e che gli esperimenti condotti dai tre Stati non parti del TNP (India, Pakistan e Corea del Nord) sono stati oggetto di ampie critiche da parte della comunità internazionale (India e Pakistan hanno da allora dichiarato una moratoria sui test), ma non sembra che tale prassi sia accompagnata dall’opinio juris necessaria al formarsi di una consuetudine internazionale: non è possibile dimostrare, cioè, che gli Stati si siano astenuti dal condurre esperimenti sotterranei perché ritenessero di esservi giuridicamente obbligati. Ulteriore prova di questa conclusione è il fatto che, nel condannare i test pakistani e indiani del 1998, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite li ha qualificati come minacce alla pace e alla sicurezza internazionale, e non come violazioni del diritto internazionale.

Il test sotterraneo nordcoreano è dunque ‘soltanto’ una violazione delle precedenti risoluzioni adottate dal Consiglio di sicurezza ONU in materia. La risoluzione 1718 (2006), qualificando la situazione come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, ha condannato il primo test nucleare condotto dalla Corea del Nord e ha imposto «that the DPRK not conduct any further nuclear test or launch of a ballistic missile». I test successivi sono stati condannati dalle risoluzioni 1874 (2009) e 2094 (2013), tutte corredate da un apparato sanzionatorio e dalla reiterazione del divieto di condurre nuovi test. Tali risoluzioni, pertanto, proibiscono alla Corea del Nord di condurre qualsiasi esperimento nucleare, sia esso atmosferico o sotterraneo. Conducendo un ulteriore test, la Corea del Nord ha commesso una violazione dell’art. 25 della Carta ONU, secondo cui gli Stati membri dell’Organizzazione si impegnano ad accettare ed eseguire le decisioni del Consiglio di Sicurezza adottate in conformità alle disposizioni della Carta stessa. Ciò apre la strada all’adozione di ulteriori sanzioni contro il regime nordcoreano da parte del Consiglio di sicurezza ex Capitolo VII della Carta.

Rimane da dire della pretesa della Corea del Nord di giustificare il test, e più in generale il possesso dell’arma nucleare, come strumento di legittima difesa preventiva contro il possesso e il possibile uso delle stesse armi da parte degli Stati Uniti. Tale pretesa è priva di fondamento: basta qui ricordare che l’art. 51 della Carta di San Francisco e il diritto consuetudinario ammettono la legittima difesa soltanto contro un attacco armato in atto. Ci si può spingere fino ad ammetterla contro un attacco imminente, ma non certamente contro un attacco ipotetico che potrebbe materializzarsi in un futuro non meglio specificato. Il possesso di un determinato tipo di armi, incluse quelle nucleari, da parte di un Paese può ben costituire una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale e, in certi casi, anche un illecito internazionale, ma non è di per sé un ‘attacco armato’ che giustifichi la legittima difesa, almeno fin quando tali armi non vengano effettivamente usate, o il loro uso sia imminente.

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