diritto internazionale pubblico

Droni a Sigonella: quale valore ha (e quale impatto produrrà) l’accordo italo-americano?

Diego Mauri, Università di Palermo – Università Cattolica di Milano

Lo scorso 22 febbraio, il Wall Street Journal rivelava che, dopo mesi di negoziato con la Casa Bianca e il Pentagono, finalmente il Governo italiano aveva dato il ‘via libera’ alla presenza di droni armati statunitensi nella base militare di Sigonella (tra le province di Siracusa e Catania), da impiegarsi in missioni militari in Libia e, più in generale, nel Nord Africa contro le milizie dello Stato Islamico.
L’utilizzo dei droni nel quadro di conflitti armati internazionali solleva innumerevoli problematiche nei campi più disparati, dalla scienza politica alla strategia militare, dalla filosofia (Chamayou) alla sociologia, fino, ovviamente, al diritto internazionale. In questa sede vorrei concentrarmi su due questioni: da un lato, quella del valore giuridico di un accordo sulla concessione di una base militare situata in territorio nazionale per lo stoccaggio e l’impiego di droni armati in operazioni militari verso Stati terzi; dall’altro lato, quella delle modalità con cui concretamente tale accordo opererà.

In via preliminare, occorre delimitare il quadro normativo entro cui si colloca tale ultimo accordo, ad oggi non ancora pubblicato. La base giuridica fondamentale è rappresentata dall’art. 3 del Trattato dell’Organizzazione dell’Atlantico del Nord (NATO) del 1949, in forza del quale gli Stati parte si obbligano a mantenere e a sviluppare la loro capacità, individuale e collettiva, di resistere ad attacchi armati; in vista dell’impegno all’assistenza reciproca gli Stati membri dell’Alleanza hanno concluso, nel 1951, un’apposita Convenzione, a Londra, disciplinante lo status delle proprie Forze Armate nell’ambito delle operazioni NATO (cd. NATO-SOFA). Parallelamente a questo corpus normativo generale, gli Stati parte dell’Alleanza hanno concluso una serie di accordi bilaterali per la disciplina dei rapporti reciproci, al fine di raggiungere gli scopi indicati nel Trattato di Washington. È il caso del Bilateral Infrastructure Agreement (BIA) tra Italia e Stati Uniti, concluso nel 1954 e anch’esso mai reso pubblico. Il BIA regola, a livello generale, le modalità per l’utilizzo delle basi concesse in uso alle Forze USA sul territorio nazionale ed è conosciuto come ‘accordo ombrello’, poiché si limita a fornire delle indicazioni di massima circa lo stanziamento di contingenti militari statunitensi nelle basi militari su territorio italiano. A tale accordo segue il Memorandum of Understanding tra il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America e il Ministero della Difesa della Repubblica Italiana relativo all’uso delle installazioni e infrastrutture da parte degli USA in Italia, firmato il 2 febbraio 1995 a Roma (cd. Shell Agreement); esso predispone una sorta di ‘schema generale’ per gli accordi specifici di ogni singola base, ed è nell’ambito di tale schema che è stato concluso, il 6 aprile 2006, l’accordo relativo alla base di Sigonella (cd. Technical Arrangement on Sigonella).

Quest’ultimo accordo disciplina la presenza del contingente statunitense nel complesso militare siciliano, denominato ufficialmente Naval Air Station Sigonella, ma meglio conosciuto, nel gergo, come ‘The Hub of The Med’ per la sua posizione strategica nel Mediterraneo e, soprattutto, per l’elevato numero di militari e civili statunitensi ivi impiegati. Il Technical Arrangement on Sigonella è strutturato in 20 Sections e 13 Annexes, e si occupa di ripartire le competenze tra le autorità italiane (in quanto Stato ospitante e territorialmente sovrano) e quelle statunitensi (in quanto Stato sovrano sulle forze militari ospitate). L’art. 1 della Section VUse and Operation») precisa che «[t]he installations at Sigonella are peace-time military installations … in accordance with the BIA»; la Section VICommand»), invece, si occupa di delimitare i rispettivi ambiti di competenza delle autorità italiana e statunitense sulle operazioni militari.

Dopo aver stabilito che la base è posta, in via generale, sotto il comando dell’autorità italiana (salvo alcune infrastrutture a uso congiunto e zone esclusivamente riservate all’autorità statunitense – cfr. art. 1 Section VI e Section. XV), l’art. 3 Section VI attribuisce, per converso, al Comandante statunitense «full military command over US personnel, equipment and operations»: le operazioni militari (tra cui figura, evidentemente, il futuro impiego di droni armati) rientrano dunque a pieno titolo nella sfera di competenza del comando statunitense, fatto salvo un preciso obbligo di notifica all’autorità italiana per quel che concerne «all significant US activities, with specific reference to the operational and training activity». A chiarire la portata del termine «significant» provvede l’Annex No. 5Command relationship»), il quale, nella parte dedicata al Comandante statunitense, precisa che detto termine «is intended to exclude all routine activities». In altri termini, qualsiasi operazione militare che trascenda l’attività ‘di routine’ della base (e si può ben pensare che un attacco armato contro obiettivi situati in Stati terzi, come verosimilmente accadrà impiegando droni armati, rientri in questa categoria) dovrà essere portata all’attenzione del Comandante italiano quale garante della sovranità dello Stato ospitante. Al Comandante italiano spetta, di contro, l’onere di avvisare il suo corrispondente laddove ritenga che le attività statunitensi non rispettino l’«applicable Italian law» (cfr. lett. c, n. 1, della parte dedicata al Comandante italiano nell’Annex No. 5) nonché, se del caso, quello di intervenire «to have the U.S Commander immediately interrupt U S. activities which clearly endanger life or public health and which do not respect Italian law» (cfr. lett. c, n. 7, ibidem).

Accanto a tale limitazione della sovranità statunitense sulle operazioni, ideata per declinarsi di volta in volta a seconda dell’operazione militare concretamente intrapresa, ve n’è una seconda, di non minore importanza, espressamente regolata all’art. 4 Section VI, in virtù del quale «[p]ermanent increases of the operational component and relative support shall be authorized by the Italian National Authorities». L’ipotesi qui prevista concerne una modifica non temporanea delle operazioni belliche da realizzarsi a partire dalla base di Sigonella (quale potrebbe essere il trasferimento, lo stoccaggio e l’impiego di droni armati), modifica che, proprio a motivo del carattere «permanente», richiede un esplicito assenso da parte del Governo italiano.

È proprio in quest’ottica che deve essere letto l’accordo sull’impiego di droni armati tra il Governo italiano e quello statunitense reso noto lo scorso febbraio. Ciò sembra trovare una conferma a fortiori da un precedente accordo, siglato nel settembre 2010 e anch’esso mai pubblicato (se ne accenna qui), con il quale il Governo italiano dell’epoca ha acconsentito all’impiego, sempre a partire dalla base di Sigonella, di alcuni droni ai soli fini di ricognizione (intelligence, surveillance and reconnaisance – ISR). Oggetto di tale accordo, confluito nell’Attachment No. 5 all’Annex No. 12, sono tre unità di UAVs (Unmanned Aerial Vehicles) di tipo RQ-4B Global Hawk dell’Aeronautica Militare Americana, ovvero dispositivi estremamente performanti nelle missioni di osservazione, ma impossibili da armare. Alla luce di tale modus operandi, non è improbabile ipotizzare che l’ultimo accordo sui droni armati rivesta la forma di allegato (a prescindere dalla denominazione che si voglia adottare) al Technical Arrangement di Sigonella.

Tornando dunque al primo interrogativo iniziale, il valore giuridico dell’accordo in esame non può che essere il medesimo dell’accordo sulla concessione della base cui esso verosimilmente ‘accede’. Secondo alcuni (v. Ronzitti) tali accordi di concessione si configurerebbero come veri e propri accordi in forma semplificata, riguardanti materie a elevato tasso di tecnicità (dal punto di vista sostanziale), alla pari degli altri accordi di riferimento (il BIA e lo Shell Agreement); dunque, non rientrando nella fattispecie di accordo di natura politica ai sensi dell’art. 80 Cost., e non essendo perciò necessario ad substantiam il procedimento solenne, il Technical Arrangement on Sigonella sarebbe, a tutti gli effetti, un accordo giuridicamente vincolante per le parti (in tal senso, infatti, sarebbe orientata la prassi seguita dall’Italia in materia di accordi bilaterali, contrariamente a quanto invece accade per gli accordi sui Quartieri Interalleati, ratificati dal Presidente della Repubblica come previsto dall’art. 87, comma 8, Cost.; v. D.P.R. 18 settembre 1962, n. 2083).

Viceversa, altri Autori (v. Conforti, Diritto internazionale, X ed., 2015, il quale cita a titolo d’esempio proprio gli accordi su basi militari), ritengono, in generale, che un accordo relativo a una materia coperta dalla riserva di legge ex art. 80 Cost., non potendosi configurare come accordo meramente tecnico, non potrebbe perciò concludersi validamente in forma semplificata; dunque, in mancanza di un assenso (anche implicito) dell’organo legislativo pretermesso, esso non costituirebbe che un’intesa non giuridicamente vincolante, la quale, in altre parole, ‘vale finché vale’, potendo le parti sempre e liberamente sottrarvisi. Tale conclusione è raggiunta, da parte della dottrina (Conforti, ibidem), a partire da un’analisi della giurisprudenza interna di diversi Stati (tra cui, ex multis, il caso In The Matter Of Surrender Of Elizaphan Ntakirutimana davanti alla Corte distrettuale del Texas) e da una lettura  dell’art. 46 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 ‘orientata’ nel senso di ritenere preponderante il requisito (consuetudinario) della violazione di una norma interna di importanza fondamentale su quello (convenzionale) della sua riconoscibilità «in buona fede e secondo la prassi abituale» (tale cioè da rendere tale violazione «manifesta»).

A mio avviso, la soluzione dipende dalla portata concreta dell’accordo in questione e, logicamente, non può prescindere dal contenuto dello stesso: poiché il Technical Arrangement, nella sua versione originale, non contiene di per sé alcuna indicazione circa le operazioni militari concretamente effettuate, limitandosi a regolare l’uso delle strutture e il riparto delle competenze, l’accordo sui droni armati, nella misura in cui preveda lo stoccaggio e i termini generali di impiego degli stessi, non si limita a ‘dare esecuzione’ all’accordo di concessione, ma, al contrario, lo ‘integra’. Infatti, esso ha l’effetto di autorizzare operazioni militari basate su una tecnologia di indubbia peculiarità e dal potenziale assolutamente innovativo (droni impiegati a fini di sorveglianza e, addirittura, di attacco armato), con evidenti ricadute, come si dirà meglio infra, su norme di primaria importanza dell’ordinamento costituzionale interno (tra cui quelle in tema di ‘guerra’; artt. 11, 78, 87 comma 9). Mi sembra che si possa sostenere, a ragione, che un tale quadro renda la violazione di norme fondamentali (la competenza a stipulare) manifesta in re ipsa, e soprattutto non giustificata, in modo convincente, dall’argomento secondo cui vi sarebbe una prassi, in tema di basi militari, di senso opposto (non potendo una prassi contra legem assurgere a fonte normativa). Dal citato contenuto integrativo del Technical Arrangement, sicuramente sussumibile nella fattispecie costituzionale di «accordo di natura politica» onde la necessità di un controllo parlamentare, e dalle legittime riserve circa l’effetto validante di prassi apertamente in contrasto con il dettato costituzionale, si può trarre un valido argomento a sostegno della qualificazione dell’accordo sui droni come intesa giuridicamente non vincolante.

Restano però due precisazioni da svolgere. La prima, di carattere formale, concerne la natura giuridica degli accordi che sono il presupposto di quello in questione e che, inevitabilmente, si riflette su di esso. Per quanto concerne quelli iscrivibili nell’alveo della bilateralizzazione dell’Alleanza Atlantica (i.e. il BIA del 1954 e lo Shell Agreement del 1995), essi sono stati tutti conclusi in assenza di ratifica da parte dell’organo legislativo, sulla scorta del rilievo secondo cui si tratterebbe di «accordi strumentali rispetto a trattati di alleanza e di cooperazione militare di cui l’Italia è parte contraente» (v. Marchisio, p. 250, il quale tuttavia confuta detto orientamento), come tali rientranti nelle prerogative dell’Esecutivo. Tale ricostruzione poggerebbe direttamente sugli artt. 3 e 9 del Trattato di Washington, poiché dall’obbligazione generale di mutuo sostegno militare (per la quale è sì intervenuta la ratifica parlamentare, con la L. 1 agosto 1949, n. 465) non può che discendere per l’Esecutivo la prerogativa di darvi attuazione concreta, dunque anche tramite accordi in forma semplificata, non essendo (più) necessario l’intervento parlamentare. A sostegno di tale tesi si invoca la circostanza, «più unica che rara» come definita dal Marchisio (op. cit., p. 244), secondo cui l’articolo unico di tale legge non solo autorizza il Presidente a ratificare il Trattato, ma altresì richiede espressamente al Governo di «dare piena ed intera esecuzione» allo stesso: l’argomento testuale, in altre parole, deporrebbe a favore di chi attribuisce agli accordi relativi alle basi militari una natura puramente tecnica, ritenendoli nulla di più che una semplice ‘specificazione’ di precedenti accordi (politici) in relazione ai quali la ratifica parlamentare è intervenuta.

Tuttavia tale argomento non mi pare decisivo: resta ferma infatti la distinzione tra accordi meramente esecutivi (nel senso che danno esecuzione a un corredo di obblighi già definiti) e accordi integrativi (i quali, al contrario, innovano il contenuto degli obblighi aggiungendovene di ulteriori o approfondendone il contenuto). Tanto gli accordi sulle basi militari quanto, a fortiori, quelli relativi all’impiego di determinate tecnologie belliche in dette basi (quale quella dei droni) non possono che rientrare, a pieno titolo, in quell’ultima categoria e restano pertanto bisognosi (come già detto) dell’autorizzazione parlamentare alla ratifica, pena, in caso contrario, la sostanziale neutralizzazione della garanzia costituzionale.

La seconda precisazione è di carattere strettamente realistico, e prescinde dalla soluzione alla vexata quaestio del valore giuridico dell’accordo. Non si può infatti negare l’opportunità di una seria e pragmatica riflessione sulle modalità con cui tale accordo esplicherà i propri effetti. Stando alle ufficiose dichiarazioni riportate dalla stampa, il Governo italiano avrebbe sì acconsentito all’impiego di droni armati dalla base di Sigonella, seppur esplicitando due caveat di non secondaria importanza: in primo luogo, tale tecnologia dovrà essere utilizzata su autorizzazione ad hoc delle autorità militari competenti dello Stato ospitante. Si è peraltro già visto come tale modus operandi non sia affatto estraneo alla logica del Technical Arrangement, il quale anzi impone un obbligo di notifica al Comandante italiano per attività «non di routine» compiute dal contingente statunitense (cfr. art. 3 Section VI e l’Annex No. 5 sopra citati): l’invio di un drone armato di missili Hell-fire per l’abbattimento di combattenti dello Stato Islamico, come prefigurato dai termini dell’accordo, ben può essere ricompreso in questa ipotesi. In secondo luogo, tali dispositivi potranno essere lecitamente impiegati unicamente a scopo difensivo e non, come invece le autorità statunitensi auspicherebbero, anche in operazioni di carattere offensivo: dunque, dalla base di Sigonella potrà partire l’ordine di aprire il fuoco solo nell’ipotesi in cui i target individuati dal drone stessero attuando un attacco armato nei confronti di contingenti statunitensi dispiegati in the field. Nel caso in cui ciò non si verificasse (e cioè in uno scenario di attacco puramente offensivo), il Comandante italiano, previamente avvisato, potrebbe eccepire la violazione di quell’«applicable Italian law» contemplato dall’art. 3 Section VI e dall’Annex No. 5 quale forma estrema di veto dello Stato ospitante avverso una determinata attività compiuta dallo Stato ospite.

Infatti, l’espressione «applicable Italian law» non abbraccia unicamente norme di carattere tecnico (ad es. quelle norme sub-legislative regolanti il traffico aereo a bassa quota, pure richiamate nel Technical Arrangement, cfr. Annex No. 12) ma anche norme fondamentali per l’ordinamento giuridico nazionale. Tra queste sono da annoverare, innanzitutto, quelle costituzionali e ordinarie disciplinanti la guerra, laddove si volesse ritenere, come il Governo di Washington fa, che la ‘war on terror’ sia inquadrabile come conflitto armato di carattere non-internazionale (v. qui; su tale argomento, tuttavia, è lecito esprimere dubbi; v. Lubell, The War (?) against Al-Qaeda, in Wilmhurst): ma una tale soluzione dovrebbe portare, di fatto, a un serio ripensamento dei termini dell’accordo con gli Stati Uniti, poiché l’Italia entrerebbe a tutti gli effetti in uno stato di co-belligeranza. Laddove invece le operazioni militari con impiego di droni armati fossero da ascrivere alla categoria delle attività di semplice law enforcement, il quadro non risulterebbe semplificato, poiché: stante il dettato degli artt. 10 e 117 Cost., della legge di autorizzazione alla ratifica della CEDU (L. 4 agosto 1955, n. 848) e quindi degli obblighi convenzionali così come interpretati dalla Corte di Strasburgo (secondo il dettato delle sentenze gemelle della Corte Costituzionale, n. 348 e 349 del 2007), è sicuramente parte dell’ l’art. 2 CEDU in materia di protezione del diritto alla vita: tale norma di protezione dei diritti umani fondamentali, nel caso di specie, assume rilievo in quanto vieta qualsiasi forma di uccisione arbitraria o extra-giudiziale, come potrebbe essere qualificata l’uccisione di target sensibili (quali affiliati ad un organizzazione terroristica o supporters dello Stato Islamico) tramite droni armati, in assenza di legittima difesa (v. il Report dello Special Rapporteur on Extrajudicial, Summary or Arbitrary Executions: Study on Targeted Killings, nonché gli utili contributi disponibili Heyns et al. e Bodnar/Pacho).

Si potrà eccepire che, trattandosi di operazioni compiute su territori di Stati terzi tramite dispositivi pilotati in remoto da ‘agenti’ non sottoposti all’autorità dello Stato italiano (ma statunitense, la quale mantiene full military command over US personnel, equipment and operations; cfr. il citato art. 3 Section VI), non potrebbe prospettarsi l’esistenza della giurisdizione italiana ai sensi dell’art. 1 CEDU (stante il pur controverso precedente del caso Banković). Nel caso di specie, alla luce degli obblighi di notifica al Comandante italiano e le prerogative di questi in caso di possibile violazione dell’applicable Italian law, è tuttavia lecito domandarsi: non è forse l’Italia inserita, in forza del Technical Arrangement, nel «decision-making system» (l’espressione è presa da Markovic and Others v. Italy) statunitense, circa la scelta degli obiettivi da colpire e le modalità con cui le operazioni di targeting saranno portate a termine? E laddove, a esito di tale processo, si scegliesse di ingaggiare un obiettivo non legittimo, non sarebbe l’Italia tenuta ad attivarsi per interrompere le operazioni e, così, prevenire una extrajudicial, summary or arbitrary execution? Potrebbe la stessa ‘disinteressarsi’ delle conseguenze, in termini di diritti umani, di un attacco armato che la stessa ha il potere di arrestare?

In conclusione, l’accordo da ultimo concluso tra il Governo italiano e quello statunitense, al netto di fondate perplessità circa il suo valore giuridico, testimonia la crescente (e drammatica) preoccupazione nei confronti dell’impiego di una tecnologia bellica che, se da un lato garantisce elevati standard di precisione nel targeting, dall’altro alimenta legittimi sospetti in termini di conformità con l’ordinamento giuridico italiano complessivamente considerato, contribuendo a rendere ancora più grigi i contorni della strategia globale anti-Isis.

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Diego Mauri

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