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Tax Credit Certificates: uno strumento di contrasto agli squilibri macroeconomici nell’Eurozona?

Salvatore D’Acunto, Seconda Università degli Studi di Napoli

In un saggio di qualche anno fa, Paul Krugman dipinse la crisi dell’Eurozona come l’inevitabile “vendetta” che la teoria delle aree valutarie ottimali si stava prendendo nei confronti dei costituenti di Maastricht, colpevoli di averne voluto cocciutamente ignorare gli avvertimenti (Krugman). Infatti, a dispetto dell’enfasi posta da Mundell, nel suo pionieristico contributo sulle unioni monetarie, sull’importanza di progettare un sistema di coordinamento fiscale in grado di attutire gli effetti degli shock asimmetrici, gli estensori del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (d’ora in avanti TFUE) avevano finito per adottare un meccanismo di regolazione delle politiche fiscali dei governi dei paesi membri che, pur di scongiurare non meglio fondati “timori inflazionistici”, ne indirizzava uniformemente l’intonazione in senso restrittivo, indipendentemente dalla natura e dalla direzione delle perturbazioni in corso (D’Acunto, Peculiarità e criticità del modello europeo di sovranità monetaria, in Tarantino, p. 165-190). Con il risultato che, con l’entrata in vigore del TFUE, le politiche fiscali in Europa hanno agito nel senso di rafforzare sistematicamente, piuttosto che contrastare, gli episodi congiunturali negativi nei paesi colpiti da shock avversi, diffondendone inoltre gli effetti recessivi anche ai paesi in cui gli shock si erano mostrati originariamente con segno favorevole.

La crisi dell’Eurozona appare quindi, a molti commentatori, il frutto delle “irrazionali” regole fiscali che essa stessa si è data (Fitoussi). È quindi comprensibile che, nelle discussioni sul futuro dell’Eurozona, l’attenzione converga spesso sul problema del coordinamento fiscale. Tuttavia, sebbene recenti prese di posizione da parte di attori istituzionali storicamente assai ostili a forme di solidarietà fiscale sembrano indicare l’imminenza di una svolta politica in tal senso (Ayrault et al.), i tempi necessari per la progettazione e l’adozione di un qualche meccanismo di stabilizzazione fiscale di dimensione “federale” sembrano al momento incompatibili con le urgenze dettate dalla gravità della recessione in Europa e dai connessi squilibri macroeconomici. Di conseguenza, gran parte del dibattito si concentra sulle possibilità aperte agli Stati membri di invertire il corso della congiuntura attraverso stimoli di natura fiscale progettati a livello nazionale. Ovviamente, misure di questo tipo si scontrano con il problema comune di dover aggirare i vincoli posti alla dimensione del deficit e del debito pubblico dall’art. 126 del TFUE e dal Fiscal Compact, nonché il divieto del finanziamento monetario dei deficit pubblici previsto dall’art. 123 TFUE.

Recentemente, due diversi team di studiosi hanno suggerito ai governi dei paesi più colpiti dalla crisi di stimolare la domanda interna mediante l’emissione e la distribuzione di Tax Credit Certificates (d’ora in avanti TCC), ossia titoli che conferiscano ai possessori il diritto ad usufruire di un futuro “sconto” sulle prestazioni pecuniarie dovute alla pubblica amministrazione -imposte, tasse, contributi sociali, sanzioni amministrative (Cattaneo et al., Bossone et al., Papadimitriu et al., Amato et al.). Questo contributo è finalizzato a chiarire i fondamenti teorici di tale proposta, a valutarne le condizioni di efficacia e a discutere alcuni dubbi circa la sua coerenza con il quadro normativo UE.

La riflessione si articola nel modo seguente. Nel § 1 si fornisce un quadro interpretativo della crisi dell’Eurozona e si valuta il ruolo svolto dalle distorsioni deflazionistiche indotte dal sistema di controllo dei comportamenti fiscali dagli Stati membri risultante dal combinato disposto di TFUE, Two Pack, Six Pack e Fiscal Compact. Nel § 2 si descrive il funzionamento dei TCC, si chiariscono le ipotesi teoriche su cui si fonda l’aspettativa che la loro emissione eserciti un effetto di stimolo sulla domanda aggregata e sul Pil, e si valutano gli effetti di modalità alternative di applicazione della misura. Nel § 3 si discute della coerenza della misura con il quadro normativo dell’Unione, e più in particolare con le regole relative alla “sorveglianza preventiva” che la Commissione Europea ha il potere di esercitare sui comportamenti fiscali dei paesi membri. Nel § 4 si discutono i potenziali effetti destabilizzanti degli stimoli fiscali associati all’emissione di TCC sui conti commerciali dell’Eurozona e si valuta l’opportunità dell’adozione di misure correttive collaterali. Il § 5, infine, contiene alcune brevi considerazioni di sintesi.

1. Alla vigilia dell’unione monetaria in Europa, la maggioranza degli studiosi si dichiarava fiduciosa nel fatto che la moneta unica avrebbe realizzato una sostanziale unificazione di tutti i mercati nazionali dei beni e dei capitali in un unico grande mercato continentale, favorendo la rapida convergenza dei tassi d’interesse nominali e dei tassi d’inflazione. Purtroppo, invece, l’evidenza empirica relativa al primo decennio di vita dell’Eurozona ha confermato una regolarità ben nota agli economisti di filiazione keynesiana, e cioè che gli aggiustamenti nei mercati finanziari e quelli nei mercati dei beni procedono a velocità assai differenti. Dando agli investitori l’assicurazione che la moneta di un paese non sarebbe stata più svalutata rispetto ai partner dell’Eurozona, l’unione monetaria ha effettivamente favorito una rapida convergenza dei tassi di interesse nominali, ma la convergenza dei tassi di inflazione, ostacolata dalle vischiosità derivanti dalle differenze strutturali e istituzionali tra i diversi mercati del lavoro nazionali, è stata assai più lenta. Ne è risultata una divaricazione tra i tassi di interesse reali dei paesi “centrali” e “periferici” dell’Unione, una situazione che ha alimentato consistenti flussi di capitale dai primi verso i secondi e favorito la formazione di bolle speculative nel settore immobiliare, in particolare in Spagna, Irlanda e Grecia (Krugman, Bagnai, Bénassy-Quéré et al., Amato et al.).

I paesi periferici hanno quindi potuto godere, nel periodo 2000-2007, di una crescita intensa del PIL pro-capite finanziata dal debito estero. Questa intensa crescita, combinata con la contestuale riduzione della competitività di prezzo nei confronti dei paesi del core (ormai non più manipolabile mediante svalutazioni competitive), ne ha tuttavia deteriorato la bilancia commerciale, accelerando ulteriormente l’accumulazione di debito privato. Quando la bolla immobiliare negli Stati Uniti è scoppiata, diffondendo la recessione in Europa e abbassando drasticamente i redditi attesi di famiglie e imprese sovraindebitate, le banche che avevano massicciamente finanziato l’indebitamento privato nei paesi periferici si sono trovate esposte a sofferenze di dimensioni eccezionali. In alcuni paesi, il collasso del sistema bancario è stato evitato soltanto grazie ai salvataggi governativi, che hanno di fatto trasformato una gran parte del debito privato in debito pubblico (Varoufakis p. 31-32), ma i salvataggi hanno eroso i già ristretti margini di flessibilità dei governi per interventi fiscali a fini anticongiunturali. A questo si aggiunga che le istituzioni al vertice dell’Eurozona, scambiando cause ed effetti della crisi, hanno ritenuto di poterne venire a capo attraverso dosi massicce di austerity, imponendo l’approvazione di una serie di nuove misure intese a rendere ancora più stringente la disciplina fiscale (si veda per una descrizione del sistema di vincoli alle politiche fiscali risultante dal combinato disposto dell’art. 126 TFUE e da queste più recenti misure D’Acunto, Commento all’art. 126 TFUE, in Tizzano), e costringendo in tal modo la maggior parte dei governi dell’area a brusche correzioni di bilancio. Gli esiti, come è noto, sono stati fino a questo momento contrari alle aspettative: non solo (come era prevedibile) il sovrapporsi della contrazione fiscale al processo di deleveraging in atto da parte di famiglie e imprese ha inasprito la recessione in atto; in aggiunta, determinando una violenta caduta del reddito imponibile e un aumento della spesa per i sussidi, ha di fatto aggravato proprio lo stato delle finanze pubbliche che intendeva risanare.

Nel suo ben noto saggio del 1961, Mundell aveva sostenuto che squilibri macroeconomici di questo tipo avrebbero potuto essere attenuati se l’area a moneta comune avesse realizzato un sostanziale trasferimento di sovranità fiscale al livello sovranazionale, dotandosi di un bilancio federale di dimensioni consistenti alimentato da imposte proporzionali al reddito e istituendo un sistema di trasferimenti interregionali legato all’andamento di indicatori congiunturali. In tal caso, il bilancio federale avrebbe agito da “stabilizzatore automatico”, finanziando con i maggiori introiti fiscali prelevati nei paesi interessati dalle fasi espansive i trasferimenti necessari a sostenere i paesi contestualmente colpiti da fenomeni recessivi. Niente di più lontano dall’assetto istituzionale ideato a Maastricht, scientificamente progettato per evitare ogni forma di solidarietà fiscale tra i paesi membri.

2. L’assenza di meccanismi di coordinamento fiscale e la ormai conclamata inefficacia dei vari strumenti di politica monetaria fin qui impiegati dalla BCE (si veda il precedente contributo sul presente blog, D’Acunto) spiegano perché, nel dibattito corrente, si registri un rinnovato interesse per iniziative fiscali progettate a livello nazionale. Ovviamente, considerato che il deterioramento dei bilanci pubblici ha sostanzialmente azzerato, nei paesi più colpiti dalla crisi, i già esigui margini di manovra consentiti dal quadro normativo, e considerato inoltre che il finanziamento dei disavanzi pubblici si scontra sia con il divieto di monetizzazione previsto dall’art. 123 TFUE, sia con la diffidenza dei mercati finanziari nei confronti di debitori sovrani che non controllano la moneta in cui i propri debiti sono denominati, la progettazione degli interventi di stimolo fiscale all’attività economica ha assunto inevitabilmente la forma di un esercizio di creatività finalizzato all’elusione di tali vincoli.

In questa prospettiva, ha attirato recentemente molto interesse l’idea che i governi dei paesi più colpiti dalla crisi potessero stimolare l’attività economica attraverso l’emissione e la distribuzione gratuita di TCC. I TCC sono, in sostanza, una particolare tipologia di titoli che: (a) non danno luogo al pagamento di interessi; (b) danno diritto ad uno “sconto fiscale” che può essere fatto valere a partire da 2 anni dal momento dell’emissione; (c) sono negoziabili sul mercato. Queste caratteristiche, a giudizio dei proponenti, ne farebbero uno strumento in grado di iniettare domanda nel sistema senza deteriorare il bilancio dello Stato emittente. Il meccanismo di generazione degli effetti espansivi farebbe leva sull’ipotesi di sostituzione tra spesa e risparmio favorita dall’attribuzione del credito fiscale: i destinatari dei TCC ridurrebbero gli accantonamenti destinati a far fronte ai debiti nei confronti della P.A. e riallocherebbero le proprie disponibilità liquide verso l’acquisto di beni e servizi. E se la loro capacità di spesa fosse condizionata da un vincolo di liquidità, essi potrebbero facilmente aggirare l’ostacolo cedendo i TCC sul mercato: data l’affidabilità dell’emittente, si può infatti presumere che sarebbe relativamente facile convertirli in euro ad un tasso di sconto di mercato. Secondo i proponenti, è anche facile immaginare che i TCC vengano accettati come mezzo di pagamento nelle transazioni, finendo per circolare nel sistema come valuta “parallela” all’euro (Papadimitriu et al. p. 13, Bossone et al. p. 3).

Sebbene lo stimolo alla domanda interna poggi in sostanza su un “taglio” del carico fiscale, il deterioramento del bilancio pubblico sarebbe evitato grazie allo sfasamento temporale tra l’impulso espansivo e la correlativa caduta del prelievo fiscale determinata dalla successiva “maturazione” del credito d’imposta. I 2 anni di differimento del diritto ad usufruire dello sconto fiscale sarebbe cioè il tempo necessario al determinarsi di effetti moltiplicativi sufficienti a generare aumenti degli introiti in grado di mantenere stabile il saldo di bilancio in rapporto al Pil. In tal modo, i paesi che applichino tale misura eviterebbero di incorrere nelle censure della Commissione Europea per la violazione dell’obbligo di evitare disavanzi eccessivi dettato dall’art. 126 TFUE.

I fondamenti analitici su cui la proposta in oggetto si poggia sono assai controversi. Un primo aspetto problematico, di rilevanza cruciale ai fini della sua efficacia, concerne la presunta attitudine dei TCC a circolare come moneta: solo in tale ipotesi, infatti, agenti assoggettati a vincoli di liquidità (Eggertson et al.) possono eludere il problema e presentarsi sul mercato in qualità di acquirenti di merci, materializzando la “domanda pagante” necessaria a stimolare la ripresa. I proponenti giustificano questa presunzione con l’adesione alle proposizioni “chiave” della cosiddetta teoria neo-cartalista della moneta, un approccio propugnato da alcuni studiosi di matrice post-keynesiana e centrato sull’idea che qualunque oggetto possa godere della generale accettazione degli agenti economici come strumento di pagamento, e quindi circolare come “moneta”, a condizione che lo Stato (o altra autorità che disponga dei poteri di imposizione fiscale) lo accetti per il pagamento dei debiti fiscali (Wray, Ingham). Alla luce di questa visione teorica, i TCC sarebbero pertanto strumenti perfettamente adeguati a svolgere funzioni monetarie, consentendo agli agenti desiderosi di spendere – ma privi di liquidità – di colmare il gap temporale tra il momento della spesa e la “maturazione” del credito fiscale.

Un altro, e decisamente più serio, motivo di scetticismo concerne l’effettivo innesco dei processi di sostituzione tra spesa e risparmio su cui si fonda l’aspettativa di un incremento della domanda aggregata. Il riferimento teorico richiamato da Bossone et al. nel loro appello per legittimare tale ipotesi è la ben nota metafora della moneta dagli elicotteri dovuta a Friedman (Friedman) e recentemente rispolverata da studiosi e responsabili del design della politica economica (Bernanke, Buiter). Vale la pena di ricordare, al riguardo, lo scetticismo regolarmente mostrato dagli studiosi di matrice keynesiana circa gli effetti espansivi dei trasferimenti monetari. Il meccanismo di azione di questa tipologia di interventi fa infatti affidamento sull’induzione di comportamenti “sinergici” da parte degli agenti privati che non sono accertabili a priori: pertanto, come Kaldor correttamente osservava in un noto saggio del 1970, la loro efficacia dipende in maniera cruciale da «… who (money) it is received by» e «… whether the recipients treat it as an addition to their spendable income or to their wealth». I destinatari di un trasferimento monetario potrebbero infatti reagire destinando gran parte dell’aumento del proprio reddito disponibile all’accumulazione di ricchezza e mantenendo sostanzialmente inalterata la spesa, soprattutto se la congiuntura sfavorevole congiura alla formazione di aspettative negative sulle prospettive di reddito future o se, magari per effetto di aspettative deflazionistiche, i mercati delle attività promettono rendimenti significativi in termini reali.

Come si vedrà, la questione è assai rilevante. Dall’intensità dell’impatto espansivo della misura dipende infatti la dimensione dell’incremento degli introiti fiscali e quindi, in ultima analisi, la sua capacità di “autofinanziarsi”. Gli estensori della proposta sembrano consapevoli del problema, tant’è che in un successivo contributo hanno provato ad emendarla con la previsione di un complesso meccanismo finalizzato a condizionare il godimento del credito fiscale alla spesa della disponibilità risultante (Bossone et al. 2015). Sulla questione si tornerà in sede di valutazioni conclusive.

3. Come si è anticipato, il contorto design della misura, in particolare il “ritardo” con cui i destinatari dei titoli acquisiscono il diritto a far valere il credito fiscale che ne costituisce il contenuto, è il risultato della necessità di aggirare le norme UE concernenti il rispetto della disciplina fiscale da parte degli Stati membri. Tuttavia, a dispetto dell’opinione di Bossone et al., secondo cui la loro proposta sarebbe«… consistent with the existing rules and limitations under the Eurosystem and European institutions» (Bossone et al. p.1), la questione della compatibilità della misura con il quadro normativo dell’Unione si presenta a nostro avviso un tantino più complessa di quanto gli estensori ritengano.

Come è noto, il Trattato e fonti normative secondarie attribuiscono alla Commissione Europea non solo funzioni di controllo ex post, ma anche di sorveglianza preventiva sullo stato dei bilanci dei paesi membri. L’art. 126, par. 3, le attribuisce la facoltà di avviare la procedura d’infrazione anche nell’ipotesi che i criteri previsti dall’art. 126, par. 2 siano stati rispettati, «…se ritiene che in un determinato Stato membro sussista il rischio di un disavanzo eccessivo». Analogamente, il Reg. n. 1466/1997, all’art. 5, par. 2, prevede che la Commissione possa invitare uno Stato «… ad adeguare il suo programma di stabilità» se il programma non prevede un margine di manovra sufficiente per evitare il verificarsi di un disavanzo eccessivo, o se le ipotesi economiche su cui il programma è fondato non sono realistiche, o ancora se le misure adottate e/o proposte non sono adeguate per la realizzazione del percorso prospettato di avvicinamento all’obiettivo di bilancio a medio termine. Queste disposizioni danno di fatto alla Commissione il potere di bloccare qualunque iniziativa degli Stati membri suscettibile di provocare un “presunto” deterioramento di bilancio futuro (Fazi et al. p. 93-94).

Per valutare se la misura proposta sia coerente con il quadro normativo UE, diventa quindi cruciale il modo in cui si formano le “presunzioni” della Commissione circa gli andamenti dei bilanci dei paesi membri, e più nello specifico i valori dei “moltiplicatori fiscali” impliciti nei suoi modelli previsivi. Bossone et al., assumendo un valore del moltiplicatore pari a 1.3, simulano gli effetti dell’emissione di TCC per un valore complessivo di 200 bn di euro e prevedono un aumento del Pil del 15% in 3 anni e il ritorno del rapporto deficit/Pil ai valori originari nel giro di 1 anno. Prescindendo da valutazioni concernenti il realismo di questa ipotesi, quello che rileva in questa sede è se il modello previsivo utilizzato dalla Commissione contempli valori altrettanto ottimistici del moltiplicatore.

Sebbene sia difficile ricostruire la struttura dei modelli su cui le autorità di governo dell’economia fondano le proprie valutazioni circa opzioni alternative di policy, vari indizi inducono a ritenere che la Commissione Europea basi le proprie valutazioni sull’ipotesi di moltiplicatori fiscali di gran lunga più bassi di quelli immaginati da Bossone et al.Blanchard et al., basandosi sugli scostamenti tra tassi di crescita effettivi e previsti relativi a 26 paesi europei, hanno stimato un valore vicino a 1. La strategia di contrasto alla crisi dell’Eurozona adottata dalla Commissione lascerebbe tuttavia supporre valori ancora più bassi: infatti, se così non fosse, sarebbe difficile comprendere come la Commissione abbia potuto ritenere che dosi massicce di austerità fiscale potessero risanare i bilanci dei paesi più colpiti dalla crisi, piuttosto che deteriorarli.

Di conseguenza, la coerenza della misura in oggetto con il quadro normativo UE non deve affatto considerarsi scontata. Se il modello di previsione della Commissione lasciasse immaginare effetti moltiplicativi insufficienti a mantenere stabile il rapporto deficit/Pil, scatterebbero fatalmente la censura di Bruxelles e la richiesta di correlate misure correttive. Tanto basterebbe a vanificare gli effetti espansivi della misura: infatti, inducendo negli agenti privati l’aspettativa di nuove imposte e/o di aumento delle tariffe dei servizi pubblici, la censura della Commissione li incoraggerebbe implicitamente a contrarre i relativi piani di spesa.

Non sembrano sussistere invece problemi di compatibilità con l’art. 128 TFUE, par. 1, che attribuisce alla BCE il monopolio dell’emissione di banconote a corso legale. Infatti, trattandosi di un titolo che obbliga l’emittente al pagamento alla scadenza e che può essere utilizzata come strumento di regolazione dei debiti solo condizionatamente alla fiducia goduta dall’emittente, il TCC sarebbe sostanzialmente assimilabile, sul piano giuridico-formale, alla cambiale. Non si può pertanto parlare di “banconota a corso legale”, e l’emissione di questa tipologia di strumenti da parte di uno Stato membro non pregiudicherebbe quindi il monopolio che la norma in oggetto assegna alla BCE.

4. In realtà, al di là dei problemi di compatibilità con le regole UE concernenti la disciplina di bilancio, il principale motivo di scetticismo nei confronti dei TCC ha a che fare con le conseguenze degli effetti espansivi della misura in oggetto sull’equilibrio dei conti con l’estero. Infatti, per un verso, è presumibile che l’aumentata domanda interna venga in parte soddisfatta mediante merci importate dall’estero (o da merci prodotte all’interno tramite materie prime importate); per un altro verso, alleviando le pressioni deflazionistiche, l’espansione della domanda interna non può che influenzare negativamente la competitività di prezzo del paese sui mercati internazionali (Amato et al.). Il sovrapporsi di queste tendenze rischia pertanto di determinare un peggioramento del saldo delle partite correnti: non proprio la cura migliore per paesi alle prese con una recessione in gran parte innescata proprio dagli squilibri dei conti con l’estero.

Gli estensori della proposta, ben consci del problema, hanno provato ad immaginare espedienti correttivi di natura variegata. Bossone et al. hanno proposto di destinare una parte dei TCC emessi alle imprese operanti sui mercati esteri in misura proporzionale ai costi del lavoro, in modo da ottenere un abbattimento dei loro costi di produzione analogo all’effetto di una svalutazione. Assai più ambiziosa la soluzione immaginata da Amato et al.,che consisterebbe in una riforma sostanziale del sistema di pagamenti interbancario noto come Target2 in base al principio dell’aggiustamento simmetrico propugnato da Keynes alla conferenza di Bretton Woods.

La prima proposta potrebbe rivelarsi una soluzione assai efficace del problema in oggetto, ma occorre notare che essa solleva qualche dubbio di legittimità alla luce del divieto agli aiuti di Stato prescritto dall’art. 107 TFUE. La seconda proposta merita senz’altro, per la sua complessità, una valutazione più approfondita. Per comprenderne il senso occorre preliminarmente chiarire cosa sia il sistema Target2. In estrema sintesi, Target2 gioca un ruolo cruciale nel finanziare gli squilibri delle bilance dei pagamenti interni all’Eurozona, permettendo ai paesi in deficit di utilizzare i saldi attivi dei paesi in surplus dietro corresponsione di un interesse alla BCE. Questo sistema tende tuttavia a distorcere il processo di aggiustamento degli squilibri commerciali in senso deflazionistico: poiché i paesi in surplus non sopportano alcun costo per l’utilizzo del sistema, hanno convenienza ad accumulare sistematicamente saldi attivi, e il riaggiustamento dei conti commerciali viene quindi integralmente a dipendere dalle politiche deflazionistiche dei paesi in deficit. Queste, comportando a loro volta restrizioni delle importazioni, finiscono per diffondere la deflazione anche ai paesi in surplus.

Gli autori propongono invece di rimodellare Target2 imponendo agli utilizzatori del sistema penalità “simmetriche”, indipendentemente dalla posizione di creditore o debitore, e crescenti al crescere della dimensione dei saldi. Il vantaggio di tale meccanismo consiste nel creare un robusto incentivo per i paesi creditori a praticare politiche espansive, in modo da decumulare i propri saldi attivi. Questo faciliterebbe il rimborso dei debiti da parte dei paesi in deficit ed eviterebbe l’inasprimento della deflazione nel continente.

Questa proposta va evidentemente al cuore dei problemi dell’Eurozona. Un sistema di disincentivi di natura “simmetrica” al mantenimento di squilibri delle bilance commerciali tenderebbe a generare, per via indiretta, gli stessi esiti del sistema di stabilizzatori fiscali automatici di cui si è tanto lamentata l’assenza nelle sezioni precedenti. I paesi in surplus sarebbero in tal caso indotti a spingere sull’acceleratore della crescita utilizzando i propri margini inutilizzati di autonomia fiscale, fornendo in tal modo sbocchi aggiuntivi ai paesi in deficit. Questi, a loro volta, godrebbero di un’espansione trainata dalle esportazioni che gli permetterebbe di risanare le finanze pubbliche e di aggiustare il saldo commerciale. Ma allora appare un po’ bizzarro presentare questa proposta come una sorta di misura “complementare” all’emissione dei TCC: una riforma di questo tipo con ogni probabilità risolverebbe alla radice i problemi di equilibrio macroeconomico dell’Eurozona, rendendo quindi sostanzialmente superflui gli angusti margini di manovra eventualmente conseguibili con l’emissione di una quasi moneta.

Va inoltre rilevato che proprio la natura “radicale” della riforma proposta ne rende, allo stato attuale, sostanzialmente nulli gli spazi di praticabilità politica. Lo scenario che essa disegna appare quanto più lontano si possa immaginare dalla “filosofia” su cui è costruito il modello di regolazione macroeconomica dell’Unione, tutto imperniato sulla fiducia nelle (presunte) virtù del risparmio e dei mercati che permetterebbero di allocarlo a chi ne ha necessità. Sebbene otto anni di recessione abbiano messo a dura prova la fiducia in questo modello, difficile immaginare che le elités economiche di Germania e Olanda accettino di buon grado l’idea, implicita nella proposta in oggetto, che essere creditori non è una virtù (e quindi non va premiata) e che si incamminino accondiscendenti lungo la via dell’eutanasia dei rentiers indicata da Keynes ottanta anni fa (Keynes, p. 376).

5. Alla luce della discussione svolta nelle sezioni precedenti, si può concludere che contro l’utilizzo dei TCC come strumento di contrasto agli squilibri macroeconomici nell’Eurozona militano fondamentalmente tre ordini di argomenti: (a) l’incertezza circa la dimensione degli effetti espansivi dei trasferimenti monetari; (b) il rischio di incappare nella “tagliola” della sorveglianza preventiva della Commissione Europa circa il rispetto della disciplina fiscale; (c) la difficoltà di neutralizzare i prevedibili effetti destabilizzanti della misura in oggetto sull’equilibrio dei conti con l’estero.

Circa il punto (a), nel § 2 si è sostenuto, in linea con la tradizione teorica keynesiana, che trasferire moneta (nel caso di specie “quasi moneta”) ad agenti privati non garantisce affatto che quella moneta arrivi sui mercati dei beni e assuma la forma di domanda pagante. È ovviamente possibile progettare sofisticati meccanismi in grado di condizionare il godimento del trasferimento monetario da parte del destinatario all’effettiva spesa del potere d’acquisto risultante, eliminando quindi il rischio che la moneta emessa si “perda” lungo il tragitto che porta al mercato. Tuttavia, come tutte le misure che implicano un controllo sui comportamenti degli agenti privati, anche queste saranno macchinose e costose. Che poi è il motivo per cui Keynes non perdeva occasione di raccomandare che fosse lo Stato a presentarsi in prima persona negli uffici ordini delle imprese in veste di acquirente, svincolando in tal modo l’effettivo prodursi degli effetti espansivi dal comportamento degli agenti privati. L’unico motivo serio per preferire strumenti “indiretti” di controllo della domanda aggregata è la preferenza (ideologica) eventualmente accordata al principio della libertà di scelta individuale rispetto ad un principio “paternalistico”. Ma se la condizione per l’efficacia della misura è la predisposizione di un meccanismo esecutivo che priva di fatto gli individui della libertà di scelta, il senso dell’avversione per le politiche di spesa direttamente gestite dallo Stato diventa difficile da comprendere.

Circa il punto (b), nel § 3 si è sostenuto che, almeno finché nelle istituzioni dell’Unione non maturerà una visione più realistica e meno ideologica circa il modo in cui funziona il sistema economico, ci sono ottime ragioni per ritenere che misure come l’emissione di TCC rischino di incappare nelle censure della Commissione. Ovviamente con ciò non si vuole dire che non valga la pena provarci, ma solo che è impossibile pensare di provarci senza preventivamente concordarlo con Bruxelles. È quindi illusorio credere che i TCC possano rappresentare uno strumento in grado di riaprire uno spazio di sovranità fiscale ai paesi membri. Gli strumenti di regolazione dei comportamenti fiscali dei paesi membri da parte della Commissione sono infatti diventati talmente penetranti e pervasivi da non lasciare più alcun margine di autonomia al livello statale.

Circa il punto (c), nel § 4 si è chiarito che gli stimoli fiscali iniettati nell’economia mediante l’emissione di TCC da parte dei paesi più colpiti dalla crisi non potranno che deteriorare i loro già non brillanti saldi delle partite correnti, e che la compatibilità della ripresa con il mantenimento dell’equilibrio dei conti con l’estero può quindi essere assicurata solo grazie ad una radicale (e poco realistica) riforma del sistema di compensazione dei saldi finanziari oppure, più modestamente, grazie all’applicazione di una generosa benda sugli occhi della Commissione che nasconda l’uso sostanzialmente protezionistico dello stimolo fiscale. E, a dispetto della loro diversità, riforme radicali e “bende sugli occhi” richiedono entrambe la maturazione di una consapevolezza condivisa della crisi irreversibile di questo modello d’integrazione economica e della necessità di ridiscuterne non solo le regole, ma probabilmente anche i più radicati fondamenti filosofici.

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