diritto internazionale pubblico

Il mandato della missione di stabilizzazione in Mali: verso una convergenza tra peacekeeping e anti-terrorismo?

Mirko Sossai, Università degli studi Roma Tre

In giornate funestate dagli attacchi terroristici ad Istanbul, Dacca e Baghdad, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha prorogato la missione di stabilizzazione in Mali (MINUSMA) sino al 30 giugno 2017, con l’obiettivo dichiarato di rafforzarla, per un verso facendo crescere il contingente di 2.500 unità e al contempo precisando ulteriormente il mandato.

Il testo della ris. 2295 (2016) riveste particolare interesse per una serie di ragioni: in primo luogo, per la precisa scelta semantica del Consiglio di chiamare “terrorismo” l’estremismo violento di matrice jihadista in Mali; per individuare quale priorità strategica della missione multidimensionale l’attuazione dell’accordo di pace del 2015 con particolare riguardo al ristabilimento e l’estensione dell’autorità dello Stato sull’intero territorio; per l’esplicita indicazione rivolta alla missione di adottare un approccio più proattivo e robusto nell’esecuzione del mandato; e, a questo scopo, per la richiesta che MINUSMA si doti di mezzi militari adeguati, compreso l’impiego di droni.

Una decisione quella del Consiglio di sicurezza che si è resa necessaria anche per reagire al triste primato di MINUSMA come la missione dell’ONU più pericolosa tra tutte: 27 i morti e più di cento feriti in un solo anno. Si noti che la situazione in Mali si caratterizza anche per la contestuale presenza di altri attori internazionali: non soltanto le forze armate francesi impegnate nel quadro dell’operazione Barkhane, ma anche l’Unione Europea, che ha lanciato due missioni di assistenza e addestramento del personale militare e di polizia.In occasione dell’approvazione della ris. 2295 (2016), il rappresentante francese – ossia, il suo sponsor principale – ha dichiarato che il Consiglio ha fornito a MINUSMA il mandato più robusto possibile in uno scenario di terrorismo. L’obiettivo di questo scritto è mettere a tema l’esistenza di una reciproca attrazione tra il mandato affidato alle operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite e l’obiettivo di combattere il terrorismo internazionale. Si tratta di una questione sulla quale si sta concentrando un’attenzione crescente e che offre diversi spunti di riflessione sul piano politico, strategico e giuridico.

In teoria: azioni coercitive di contrasto al terrorismo non dovrebbero rientrare tra i compiti del peacekeeping dell’ONU

Ad un primo livello di analisi, la domanda è se le operazioni di pace dell’ONU debbano farsi carico di condurre azioni antiterroristiche di natura coercitiva. Il rapporto del Panel indipendente di alto livello sul futuro del peacekeeping pare esprimere la convinzione maggioritaria nella comunità internazionale quando manifesta le proprie forti perplessità rispetto a un possibile utilizzo dei caschi blu per tali compiti, tanto per la loro composizione quanto per la natura stessa del peacekeeping, in ragione anche della mancanza di adeguato equipaggiamento, sostegno logistico, preparazione militare specializzata. Posizione questa condivisa anche dal Segretario generale delle Nazioni Unite.

In particolare, il rapporto sul futuro di peacekeeping si preoccupa di distinguere, anche sul piano tattico, l’impiego della forza al fine di proteggere la popolazione civile o il personale dell’ONU, dal mandato che affidi a un contingente il compito di neutralizzare o sconfiggere un avversario.

Pertanto, la conclusione a cui giunge il rapporto è che «Such operations should be undertaken by the host Government or by a capable regional force or an ad hoc coalition authorized by the Security Council». Inoltre, laddove un’operazione di peacekeeping sia dispiegata accanto ad altri contingenti, il Panel suggerisce la necessità di un adeguato coordinamento e una chiara distinzione di ruoli con le forze non-Nazioni Unite. Va osservato che il Consiglio non soltanto ha riconosciuto il contributo delle forze francesi, presenti con l’operazione Barkhane su invito del governo maliano, nel contrastare i gruppi jihadisti nel nord del Paese, ma ha pure autorizzato quelle truppe a usare la forza a sostegno di MINUSMA, in caso di minaccia grave e imminente, su richiesta del Segretario generale.

Dunque, per il Panel di alto livello sono le coalizioni di Stati e soprattutto le forze di carattere regionale ad essere meglio attrezzate in termini di mezzi, risorse e capacità a contrastare il terrorismo. Quanto alle organizzazioni regionali, occorre ricordare il tentativo coordinato dall’Unione africana di arginare l’espansione di Boko Haram.

In pratica: il peacekeeping delle Nazioni Unite nell’orizzonte della prevenzione dell’estremismo violento e del terrorismo

Se dunque le operazioni di peacekeeping non costituiscono lo strumento più adeguato nel caso di una risposta coercitiva al terrorismo, almeno sul piano teorico, nondimeno sia MINUSMA in Mali sia la missione dispiegata in Repubblica centrafricana (MINUSCA) si sono dovute ugualmente confrontare con la sfida di dare attuazione al proprio mandato in scenari conflittuali contrassegnati dall’estremismo violento. È questa un’espressione che in misura crescente si rinviene nella prassi delle Nazioni Unite: la ris. 2178 (2014) del Consiglio di sicurezza, dedicata al fenomeno dei c.d. foreign fighters, condanna l’estremismo violento come fenomeno che può condurre al terrorismo e che richiede misure volte a prevenire la radicalizzazione, il reclutamento e la mobilitazione di individui in gruppi terroristici (vedi il post di Alì).

Si tratta di due nozioni che non coincidono, come si è premurato di sottolineare anche il Segretario generale dell’ONU nel Piano d’azione sulla prevenzione dell’estremismo violento, presentato all’inizio del 2016: se questa nuova categoria, più ampia, comprende comportamenti non riconducibili al terrorismo, sono allora necessarie nuove iniziative di prevenzione e contrasto diverse che affrontino soprattutto le cause fenomeno. Il Piano d’azione del Segretario generale ha inteso adottare un approccio pragmatico e per questo (ben volentieri) si è sottratto allo sforzo di definire che cosa si debba intendere in linea generale per ‘estremismo violento’: si riconosce in ogni caso la crescente minaccia di gruppi estremisti violenti in diverse regioni del pianeta e di alcuni fattori ricorrenti che favoriscono la radicalizzazione. È importante evidenziare che il Segretario generale introduce un esplicito riferimento al peacekeeping tra le sue raccomandazioni: vi si esprime il suo proposito di integrare la prevenzione dell’estremismo violento nelle attività delle operazioni di pace e delle missioni politiche speciali, secondo i rispettivi mandati, nonché in quelle di altre iniziative dell’ONU, compresi i programmi di disarmo, smobilitazione e reintegrazione e le riforme al settore della sicurezza.

La domanda che occorre porsi è quali implicazioni possa avere sul futuro del peacekeeping delle Nazioni Unite inserire i compiti di una missione nell’orizzonte della prevenzione e del contrasto all’estremismo violento. La prima perplessità riguarda il dispiegamento di operazioni di pace in scenari segnati da conflittualità e violenza diffuse: già il documento noto come dottrina Capstone sottolineava come «a United Nations peacekeeping operation can only succeed if the parties on the ground are genuinely committed to resolving the conflict through a political process».

In secondo luogo, il rapporto del panel di alto livello sul futuro del peacekeeping è significativamente centrato sul primato della politica nella soluzione dei conflitti e sull’impegno ad un dialogo aperto con tutte le parti, attori statali e non statali: naturalmente, gruppi radicali jihadisti costituiscono una sfida a questo paradigma, dal momento che sia i loro obiettivi sia i loro comportamenti appaiono totalmente irriconciliabili con i fini e i principi delle Nazioni Unite. Rimane poi aperta la questione della definizione stessa di gruppi violenti estremisti: non soltanto taluni governi potrebbero comunque abusarne al fine di estromettere da una soluzione politica talune fazioni, ma occorre pure tener conto che le reti radicali – soprattutto nel continente africano – non sono immutabili né costituiscono un monolite, dal momento che tra i loro membri variano sia le motivazioni che i livelli di coinvolgimento ideologico.

MINUSMA come caso-studio: le conseguenze di un approccio sempre più robusto

Con il crescere prima e il persistere poi di una situazione di violenza di tipo terroristico in Mali e al contempo con la conclusione dell’accordo di pace e riconciliazione nel 2015, ci si era chiesti se la missione MINUSMA, istituita dalla ris. 2100 (2013), potesse efficacemente realizzare il proprio mandato, soprattutto per quanto riguardava il conseguimento della stabilizzazione dei principali centri abitati, e il sostegno alle autorità di transizione del Mali per il ristabilimento dell’autorità dello Stato in tutto il paese. Il termine chiave a cui occorre rivolgere l’attenzione è quello di “stabilizzazione”: tuttavia il panel di alto livello non ha potuto che riconoscere semplicemente che del termine, ampiamente impiegato nella prassi, si hanno diverse interpretazioni e che il suo utilizzo da parte delle Nazioni Unite richieda un chiarimento.

L’obiettivo del rafforzamento della missione è stato perseguito dal Consiglio di sicurezza sollecitando un approccio maggiormente robusto e proattivo. Per comprendere le ricadute dell’adozione della ris. 2295 (2016) sulla natura stessa della missione, è sufficiente soffermarsi sulla lettera c) del par. 19, relativo ai compiti di protezione della popolazione civile e di stabilizzazione, soprattutto contro le minacce di tipo asimmetrico: alla missione MINUSMA è chiesto, infatti, di effettuare in maniera attiva ed efficace pattugliamenti in aree dove i civili sono in pericolo, nonché di impedire il ritorno di elementi armati in tali zone, conducendo anche operazioni dirette in caso di minacce serie e credibili.

Talune delegazioni hanno espresso i propri dubbi circa l’interpretazione da darsi a questa e alla successiva lettera d), relativa alle misure per contrastare attacchi asimmetrici allo scopo di difendere attivamente il mandato di MINUSMA. Il rappresentante dell’Uruguay ha ad esempio sottolineato che la natura proattiva di un’operazione di peacekeeping non dovrebbe portare ad azioni o attacchi di carattere preventivo laddove si trassasse di contrastare il terrorismo. Il problema è dunque fino a che punto possano spingersi le misure volte ad anticipare e scongiurare minacce di tipo asimmetrico. A conferma che non è poi così netta la linea di demarcazione tra un uso della forza per proteggere la popolazione civile e operazioni militari volte a neutralizzare gruppi terroristici.

L’esigenza di prevenire l’estremismo violento e il terrorismo incide inoltre su un’altra attività chiave del peacekeeping, che fa peraltro parte del mandato di MINUSMA: il sostegno allo sviluppo e l’attuazione di programmi nazionali di disarmo, smobilitazione e reintegrazione dei membri dei gruppi armati (noti anche con l’acronimo DDR – disarmament, demobilization and reintegration). È possibile in questa sede solo segnalare le sfide che gli scenari appena descritti pongono sul DDR: ci si domanda sino a che punto tali programmi siano realmente possibili nel contesto di conflitti ancora in corso; se il DDR possa essere poi efficace quando le missioni di peacekeeping sono impegnate in mandati così robusti; quali piste siano eventualmente percorribili rispetto alla smobilitazione e reintegrazione dei componenti gruppi radicali terroristi (compresi i foreign fighters). Un recente studio non ha potuto che riconoscere che lo sviluppo di iniziative di DDR in contesti come quello maliano oppure somalo «presents a host of safety, legal, ethical, operational, and reputational risks to the UN, its staff, Member States, and donors». Per uscire dall’impasse, lo studio ha avanzato la proposta di adattare il DDR alle nuove esigenze e di elaborare un nuovo quadro concettuale, che gli autori identificano con l’espressione «Demobilization and Disengagement of Violent Extremists»’ (DDVE). Resta evidentemente tutto da valutare quanto tale sviluppo sia opportuno nel futuro del peacekeeping delle Nazioni Unite.

Quale coerenza con i principi cardine del peacekeeping?

Sulla scia della prassi più recente questo breve scritto ha tentato di individuare alcuni nodi problematici rispetto ad un’eventuale convergenza tra il mandato delle operazioni peacekeeping delle Nazioni Unite e la lotta al terrorismo internazionale. Si è evidenziato che, almeno sul piano teorico, è opinione diffusa che i caschi blu non dovrebbero essere coinvolti in operazioni militari allo scopo di neutralizzare gruppi terroristici, come sottolineato dal rapporto del panel di alto livello. In pratica, tuttavia, alle missioni più recenti sono stati affidati mandati sempre più robusti allo scopo di assicurare la stabilizzazione di talune zone nonché la protezione della popolazione civile, a fronte della minaccia costituita da gruppi radicali di stampo jihadista. Gli scenari di forte instabilità in cui operano le forze ONU pongono una serie di problemi di tipo politico, giuridico e operativo, sia con riguardo alla composizione della forza sia rispetto all’addestramento e all’equipaggiamento dei contingenti.

La preoccupazione maggiore riguarda l’impatto sul piano della coerenza delle missioni ai principi fondanti il peacekeeping delle Nazioni Unite (consenso delle parti, imparzialità, non-uso della forza) e, in ultima analisi, su quello della loro efficacia e legittimità delle operazioni di pace. Come noto, l’ampliamento delle possibilità dell’impiego della forza armata da parte delle missioni di pace è collegato al venir meno della distinzione tra mediazione politica e peacekeeping, da un lato, e peace-building, peace-enforcement e state-building, dall’altro. Va naturalmente tenuto conto che l’esercizio di funzioni coercitive da parte delle truppe di un’operazione potrebbe farle ricadere nella categoria dei combattenti secondo il diritto dei conflitti armati, rischiando così di generare confusione rispetto allo status giuridico dei peacekeepers, posto che tradizionalmente non costituiscono un obiettivo militare legittimo. Un aspetto notoriamente problematico riguarda il fatto se l’impiego di un contingente in operazioni di carattere “offensivo” incida sullo status giuridico dell’intera missione di pace delle Nazioni, trasformandola nel suo complesso in una parte del conflitto.

Quanto infine al tema dell’imparzialità, la presenza di truppe di Stati esteri impegnate in operazioni di contrasto al terrorismo accanto e in parallelo alla missione di peacekeeping potrebbe avere un effetto negativo sulla percezione che di essa si ha tra la popolazione civile. È stato anche il caso dei caschi blu della missione MINUSMA impegnati nella parte settentrionale del Mali, che operano, pur nella diversità dei mandati, nella medesima area di azione dell’operazione delle forze armate francesi autorizzate dal Consiglio di sicurezza.

Previous post

Tax Credit Certificates: uno strumento di contrasto agli squilibri macroeconomici nell’Eurozona?

Next post

Mutuo riconoscimento e principio della protezione equivalente (Bosphorus): riflessioni a margine della sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Avotiņš c. Lettonia

The Author

Mirko Sossai

Mirko Sossai

No Comment

Leave a reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *