diritto internazionale pubblico

Inutiliter data? La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità nella giurisprudenza italiana

Daniele Amoroso, Università di Cagliari 

La recente sentenza n. 275 del 2016 della Corte Costituzionale, che riconosce la prevalenza della tutela del diritto del disabile all’istruzione sul principio dell’equilibrio di bilancio, offre l’occasione per una riflessione sul trattamento riservato dai giudici italiani alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (ratificata dall’Italia il 15 maggio 2009 e introdotta, nel nostro ordinamento, con l. 3 marzo 2009, n. 18; d’ora in poi “la Convenzione”, sulla quale v. Seatzu). Nel caso di specie, la Corte era stata chiamata a valutare la costituzionalità dell’art. 6, co. 2-bis, l. reg. Abruzzo n. 78/1978, nella parte in cui condizionava alla presenza di disponibilità in bilancio l’erogazione del contributo regionale per il servizio trasporto degli studenti disabili. In particolare, il giudice rimettente (TAR Abruzzo) dubitava della compatibilità di tale previsione con il diritto fondamentale del disabile all’istruzione, garantito dall’art. 38 co. 3 e 4 Cost. e dall’art. 24 della Convenzione (in relazione a quest’ultimo, sia detto per inciso, il giudice a quo invocava erroneamente l’art. 10 invece dell’art. 117 Cost.). La risposta data dalla Corte, pur pienamente condivisibile nel merito (sul punto v. il post di Francesco Pallante), si segnala in negativo per il ruolo del tutto marginale cui è stata relegata la Convenzione. Dopo aver ricordato, in apertura di sentenza, che il diritto del disabile all’istruzione «è tutelato anche a livello internazionale dall’art. 24 della Convenzione» (par. 5), la Corte ha infatti deciso (e accolto) la questione di costituzionalità sulla sola base del parametro interno (par. 5-19). La censura riferita al parametro convenzionale è stata invece ritenuta assorbita (par. 20), con la conseguenza che il riferimento alla Convenzione ha assunto le forme di un mero (e del tutto privo di effetti) richiamo di stile.

La scarsa propensione della Corte Costituzionale – quantomeno nella sua attuale composizione – a servirsi della Convenzione nell’affrontare questioni attinenti ai diritti dei disabili appare ancor più evidente in una pronuncia resa all’inizio del 2016 (sentenza n. 2 del 2016). In tale circostanza, il Tribunale di Trento aveva sollevato dubbi sulla legittimità costituzionale della legge della Provincia autonoma di Trento n. 13/2007, nella parte in cui prevede che la persona disabile che fruisca di prestazioni assistenziali consistenti nella erogazione di un servizio sia chiamata a compartecipare alla spesa in relazione alla condizione economico-patrimoniale del nucleo familiare di appartenenza, anziché in riferimento al reddito esclusivo dell’interessato. In particolare, secondo il giudice a quo, la normativa censurata finiva col porre l’assistito in una condizione di dipendenza economica dal proprio nucleo familiare, in violazione di uno dei principi-cardine della Convenzione, vale a dire il dovere di valorizzare l’autonomia individuale della persona disabile (art. 3). Ebbene, la Consulta – pur affermando che nel sistema della Convenzione non si rinvengono indicazioni «che possa[no] indurre a sollecitare, sul piano normativo, l’esclusione dei familiari, o il loro disimpegno, da qualsiasi programma di assistenza» (par. 3.1) – ha inteso rimarcare, nel modo più netto possibile, la sostanziale inidoneità della Convenzione nel suo complesso a fungere da parametro interposto di costituzionalità. Il Giudice delle leggi ha difatti qualificato il “necessario rispetto” della Convenzione in parola come “obbligo di risultato”. Di conseguenza, agli Stati aderenti sarebbe accordata la più ampia libertà «di individuare in concreto – in relazione alle specificità dei singoli ordinamenti e al correlativo e indiscusso margine di discrezionalità normativa – i mezzi ed i modi necessari a darvi attuazione» (ivi): in una parola, dunque, la Convenzione non conterrebbe una disciplina «autoapplicativa».

Alla luce di queste pronunce, ci si potrebbe chiedere se la Convenzione sia effettivamente in grado di spiegare una qualche incidenza sul nostro ordinamento, se non altro in ambito giudiziario. Per un verso, invero, il diritto italiano parrebbe offrire ai disabili – grazie soprattutto alla meritoria attività interpretativa operata dalla Consulta a partire dagli artt. 3 e 38 Cost. (sulla quale v. Colapietro) – una tutela del tutto sovrapponibile a quella ricavabile dalla Convenzione o addirittura «più stringente» (TAR Sardegna, sez. I, sentenza n. 2442 del 2010, par. II). Per altro verso, come sembrerebbe suggerire Corte Cost. n. 2/2016, la Convenzione sarebbe insuscettibile di essere invocata ed applicata in giudizio ponendo soltanto un generico obbligo di risultato in capo al legislatore.

Entrambe le affermazioni sono però infondate. Quanto alla prima, è sufficiente ricordare che, come ben evidenziato in uno studio condotto dall’Istituto di Studi Giuridici Internazionali del CNR, l’ordinamento italiano, pur potendosi dire nel complesso conforme ai principi e agli obbiettivi della Convenzione, necessita di alcuni interventi di adeguamento alla disciplina convenzionale. Si pensi, su tutti, alla definizione di «persona handicappata» ex art. 3 co. 1 l. 104/1992, la quale (al di là dell’opportunità di un ripensamento terminologico) andrebbe resa conforme al «modello bio-psico-sociale della condizione di disabilità» adottato dall’art. 1 co. 2 della Convenzione, attraverso l’inserimento di «un riferimento all’ambiente in cui la persona vive ed interagisce in rapporto al quale le “menomazioni” devono essere valutate» (v. il rapporto di Della Fina, Art. 1. Scopo, nello studio appena citato, p. 42 ss., p. 53).

D’altro canto, le conclusioni raggiunte dalla Corte in merito alla natura non «autoapplicativa» della Convenzione appaiono inesatte sotto molteplici profili.

In primo luogo, occorre sottolineare che l’efficacia self-executing non può essere valutata in relazione al trattato nel suo complesso, come fatto dalla Consulta nella sentenza n. 2 del 2016, ma avendo riguardo alla singola norma rilevante (Condorelli, pp. 34-37). Né, in senso contrario, può invocarsi la presenza nella Convenzione di una “clausola di esecuzione”, con la quale gli Stati si sono impegnati ad adottare tutte le misure necessarie per darvi attuazione (art. 4). Com’è stato osservato, tali clausole, lungi dall’escludere ipso iure l’efficacia interna delle disposizioni pattizie, si limitano a ribadire «la volontà e l’aspettativa del trattato di… essere applicato» (Conforti, p. 343; nel senso qui criticato si è invece espressa la CGUE in Z., sentenza del 18 marzo 2014, C-363/12, punti 84-90).

Il ragionamento della Consulta appare inoltre censurabile nella misura in cui fa discendere la natura «non autoapplicativa» delle disposizioni convenzionali dal tenore degli obblighi in esse contenuti. In realtà, la distinzione tra disposizioni self-executing e non self-executing va operata non solo (e non tanto) sulla base delle caratteristiche della norma pattizia, quanto piuttosto osservando il «modo in cui [l’ordinamento interno] si presta ad accoglierl[e]» (Condorelli, p. 85). Il carattere vago o programmatico di una determinata norma pattizia, in altri termini, non costituisce un elemento decisivo al fine di escluderne la natura self-executing, mentre invece può esserlo l’assenza degli organi e delle procedure indispensabili alla sua applicazione o la presenza di impedimenti di ordine costituzionale (Conforti, p. 340).

In ogni caso, la natura «non autoapplicativa» di un trattato internazionale non ne esclude, di per sé, l’utilizzabilità come parametro interposto ex art. 117 Cost. Pronunciandosi in tema di rapporti tra legislazione statale e diritto dell’Unione europea, la Consulta ha chiarito – con argomenti che sembrano potersi estendere al diritto pattizio – che il carattere non self-executing di una direttiva non implica la sottrazione della legislazione statale al «controllo di conformità al diritto comunitario, che spetta a questa Corte, davanti alla quale il giudice può sollevare questione di legittimità costituzionale» (Corte Cost., sentenza n. 28 del 2010, par. 5). A ragionare diversamente, infatti, «non si arriverebbe soltanto alla conclusione del carattere non autoapplicativo delle direttive comunitarie […], ma si toglierebbe a queste ultime ogni efficacia vincolante per il legislatore italiano», nonostante esse siano «cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie […] per il tramite [dell’art.] 117, primo comma, Cost.» (ivi, par. 7).

L’asserita inidoneità della Convenzione ad incidere sul nostro ordinamento appare messa in dubbio, poi, dalla stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale. Basta infatti considerare le pronunce rese dalla Corte quando la sua composizione rifletteva, per così dire, una maggiore “sensibilità” ai temi internazionalistici, per rendersi conto di come alla Convenzione fosse stato riconosciuto ben altro peso. Nella sentenza n. 251 del 2008, il Giudice delle leggi si è servito della Convenzione come «ausilio interpretativo», ancorché la procedura di ratifica non fosse ancora ultimata, «per il suo carattere espressivo di principi comuni ai vari ordinamenti nazionali» (par. 12). Nell’ordinanza n. 285 del 2009, la Corte ha qualificato l’entrata in vigore della Convenzione per l’Italia come «elemento di “novità”», tale da «impo[rre] il riesame della rilevanza della questione» di costituzionalità ad essa sottoposta (penultimo Considerato in diritto). Nella nota sentenza n. 80 del 2010 (Giudice Relatore, significativamente, Maria Rita Saulle, che di questi temi si è ampiamente occupata sia in ambito accademico che istituzionale), la Corte ha fatto leva sulla Convenzione – in una posizione di parità con le rilevanti disposizioni costituzionali – per individuare il «nucleo indefettibile di garanzie» che limiterebbe la discrezionalità del legislatore nell’individuazione delle misure necessarie a tutela dei diritti delle persone disabili (par. 4). Infine, nella sentenza n. 236 del 2012, la Consulta ha affrontato i problemi di adattamento posti dalla natura di “accordo misto” della Convenzione, chiarendo che quest’ultima «vincola l’ordinamento italiano con le caratteristiche proprie del diritto dell’Unione europea, limitatamente agli ambiti di competenza dell’Unione medesima, mentre al di fuori di tali competenze costituisce un obbligo internazionale, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost.» (par. 4.3). I profili di contrasto tra tale indicazione e quanto affermato dalla Corte nella sentenza n. 2/2016 sono evidenti. Non solo, infatti, la Convenzione viene reputata idonea a fungere da parametro interposto di legittimità costituzionale ex art. 117 Cost.; ma le è accordata, nelle materie di competenza dell’Unione europea (per le quali v. l’elenco contenuto nella dichiarazione depositata dall’Unione al momento dell’approvazione della Convenzione), la peculiare forza giuridica propria delle norme di origine sovranazionale. Un riconoscimento, questo, che ha importanti ripercussioni sotto il profilo dell’adattamento: si pensi, in particolare, alla possibilità di invocare la responsabilità risarcitoria dello Stato italiano per mancata attuazione della Convenzione o all’attribuzione al giudice comune del potere-dovere di disapplicare la normativa interna incompatibile (quest’ultimo effetto, tuttavia, potrebbe essere precluso dalla giurisprudenza della CGUE che nega efficacia diretta alla Convenzione: v., oltre alla già citata Z., Glatzel, sentenza del 25 maggio 2014, C-356/12, punto 69).

Più in generale, l’attitudine della Convenzione a produrre effetti giuridici apprezzabili nell’ordinamento italiano risulta confermata dal suo largo (e multiforme) utilizzo ad opera della giurisprudenza amministrativa e, soprattutto, ordinaria.

Per un verso, vanno richiamate le decisioni che impiegano, in riferimento alla Convenzione, il canone ermeneutico dell’interpretazione conforme (tanto al diritto internazionale quanto, come si è visto, al diritto dell’Unione europea). Sotto questo profilo, particolarmente eloquente è la giurisprudenza della sezione lavoro della Corte di Cassazione: «[Q]uesta Corte» – si legge in alcune recenti decisioni in tema di tutela del lavoratore disabile – «nel dubbio interpretativo, non può che dare una interpretazione conforme alla Convenzione sui diritti del disabile delle Nazioni unite» (Cass. civ. sez. lav., sentenza n. 2210 del 2016, p. 3), sforzandosi di individuare l’«unica [soluzione interpretativa] coerente con il diritto internazionale» (Cass. civ. sez. lav., sentenza n. 17867 del 2016, p. 3). Al di fuori del contesto lavoristico, ma in una prospettiva analoga, vale poi la pena di ricordare la sentenza resa dal Tribunale civile di Arezzo il 24 settembre 2012, relativa all’erogazione di prestazioni assistenziali in favore delle persone con disabilità. In particolare, il giudice aretino era stato chiamato a valutare se una disposizione di legge interna, l’art. 3 co. 2-ter del d.lgs. 109/1998, fosse immediatamente applicabile nonostante la mancata adozione della normativa regolamentare di dettaglio. Ebbene, il Tribunale si è pronunciato in senso affermativo invocando, a sostegno di questa conclusione, «i principi della Convenzione».

Per altro verso, i giudici italiani si sono serviti della Convenzione per integrare la disciplina italiana in materia di tutela di disabili. In particolare, questa tendenza è riscontrabile in relazione a tre ordini di problemi. Un primo settore di intervento ha riguardato la qualificazione delle pretese giuridiche del disabile nei confronti della P.A. come diritto soggettivo o interesse legittimo, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo. Le Sezioni Unite, infatti, hanno iscritto tale posizione nell’alveo dei diritti fondamentali e, dunque, soggettivi, all’esito di un ragionamento nel quale l’introduzione della Convenzione nel nostro ordinamento ha svolto un ruolo in tutto e per tutto comparabile a quello delle pertinenti norme costituzionali (sentenza n. 25011 del 2014, par. 2.4; ma v. già TAR Lazio sentenza n. 8650 del 2009; cfr., inoltre, TAR Sicilia, sentenza n. 2519 del 2015, par. 4, il quale tuttavia raggiunge conclusioni opposte in tema di giurisdizione).

Un altro ambito è costituito dalla definizione di “disabile”. Analogamente a quanto fatto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nel noto caso HK Danmark (sentenza dell’11 aprile 2013, C-335/11 e C-337/11, punti 37-39), la Corte di Cassazione si è servita della definizione contenuta nell’art. 1 della Convenzione per “aggiornare” la disciplina italiana sul punto ed accogliere «una nozione che, proponendo un modello “sociale” di disabilità, [si] riconfigur[i] sulla base di una relazione tra menomazione personale ed esistenza di barriere ambientali e sociali» (Cass. civ., sez. lav., sentenza 284 del 2017, p. 4). Questa sentenza appare degna di nota sotto un duplice profilo. Per un verso, e a differenza delle altre pronunce sin qui richiamate, la disposizione convenzionale costituisce l’unico parametro preso in considerazione dai giudici di legittimità; per altro verso, vertendosi in una materia (quella della parità di trattamento dei lavoratori) rientrante tra le competenze dell’Unione, la Corte ha correttamente applicato la Convenzione non già quale strumento internazionale di natura pattizia, bensì in quanto «parte integrante del diritto della Unione Europea» (ivi).

Una terza ed ultima area di intervento, senza dubbio la più interessante, ha ad oggetto i poteri dell’amministratore di sostegno ex art. 404 ss. c.c. L’adattamento del diritto italiano alla Convenzione ha determinato l’ingresso di una serie di principi e norme, anche piuttosto dettagliati, che la giurisprudenza ha ritenuto idonei a guidare il giudice nel definire «le concrete modalità “operative” dell’amministrazione» (così, Trib. Varese, decreto del 6 ottobre 2009; Id., decreto del 5 marzo 2012, par. 5; ma vedi pure Cass. civ., sez. I, sentenza n. 23707 del 2012, pp. 10-11; Trib. Milano, decreto del 19 febbraio 2014, Trib. Catania, ordinanza del 15 gennaio 2015). In tali decisioni, a ben vedere, le disposizioni convenzionali costituiscono il principale – se non l’unico – parametro normativo di riferimento, fornendo ai giudici un appiglio sicuro nell’esercizio di una complessa e delicata attività interpretativa (nella giurisprudenza italiana, una funzione analoga è stata svolta dalla Convenzione di Oviedo, v. Palombino). Di notevole rilievo, a questo riguardo, è la sentenza n. 14794 del 2014 in tema di invalidità del matrimonio contratto dall’incapace, nella quale la Corte di Cassazione, recependo le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza di merito (v. le decisioni del Tribunale di Varese richiamate sopra), ha operato un «ridimensionamento della portata assoluta del divieto di intervento nel compimento di atti personalissimi da parte di terzi», invitando in particolare i giudici tutelari ad attribuire all’amministratore di sostegno il potere di coadiuvare la volontà della persona disabile anche in relazione al compimento di atti personalissimi, quali appunto il matrimonio o la proposizione del ricorso per separazione personale. Ad avviso della Suprema Corte, infatti, tale approdo ermeneutico risulterebbe necessitato dall’esigenza di scongiurare un vulnus «al diritto della persona [disabile] di effettuare la scelta di contrarre matrimonio in modo libero e consapevole, la cui importanza è riconosciuta dalla Convenzione di New York del 13 dicembre 2006» (p. 10).

Insomma, a dispetto di quanto sembrerebbe suggerire la giurisprudenza costituzionale del 2016 in materia di disabili, la Convenzione non è né superflua né insuscettibile di essere invocata, dal giudice e dalle parti, nell’ambito di un giudizio interno. Al contrario, questa breve analisi ha messo in luce non solo l’astratta idoneità della Convenzione a fungere da parametro interposto di costituzionalità delle leggi, ma anche la sua attitudine ad incidere sul significato delle regole applicabili in tema di protezione dei disabili, sia attraverso la tecnica dell’interpretazione conforme, sia integrando – ove necessario – la disciplina italiana.

Ci si può chiedere, a questo punto, prendendo in prestito le parole di autorevole dottrina, se la Convenzione sia altresì idonea a «modificare nettamente la risposta che l’ordinamento [italiano] dà» ai problemi posti dalla protezione delle persone disabili (Condorelli, p. 75, corsivo aggiunto). In linea di principio, saremmo propensi a dare, a tale quesito, risposta negativa. Come si è detto, il diritto italiano è, nel suo complesso, conforme ai principi della Convenzione. E ciò grazie soprattutto alla giurisprudenza (in particolare quella costituzionale), che si è rivelata sensibile al tema della disabilità, dimostrandosi recettiva agli stimoli provenienti dalla comunità scientifica e dalla società civile e, quindi, in grado di pervenire – in modo autonomo – a soluzioni largamente coincidenti con quelle previste dal diritto internazionale (come evidenziato, da ultimo, proprio dalla sent. 275/2016, da cui è partita la nostra riflessione).

L’introduzione della Convenzione nel nostro ordinamento, dunque, non avrebbe determinato una modifica radicale della disciplina in materia di disabilità, svolgendo piuttosto una diversa, e altrettanto preziosa, funzione. In ragione della pregevole fattura di molte sue disposizioni, infatti, la Convenzione è suscettibile di orientare l’attività interpretativa dei giudici italiani, contribuendo a rendere più solide le loro argomentazioni e ad accelerare, così, certi percorsi evolutivi, che sarebbe stato molto meno agevole (ma non impossibile) imboccare sulla base degli artt. 3 e 38 Cost.

Se questo è vero in termini generali, è tuttavia possibile immaginare che, in relazione ad alcuni ambiti circoscritti, l’attuazione della Convenzione possa richiedere un netto mutamento di prospettiva da parte dei giudici italiani. Un esempio è dato dagli interventi di chirurgia estetica genitale cui sono sottoposti, in tenerissima età, i soggetti intersex. Questa pratica medica, relativamente comune in Italia, è stata recentemente condannata dal Comitato delle Nazioni Unite per i diritti delle persone disabili come contraria al diritto all’integrità personale ex art. 17 della Convenzione (CRPD/C/ITA/CO/.1, Concluding observations on the initial report of Italy, 6 October 2016, par. 45-46). Non è certo questa la sede per addentrarsi in tale, delicatissima questione. Ci limiteremo ad osservare che, qualora un giudice fosse chiamato a pronunciarsi sul punto, non vi è dubbio che l’applicazione dei principi della Convenzione, secondo l’interpretazione (non vincolante) datane dal Comitato, lo porterebbe lungo strade che difficilmente avrebbe percorso alla luce del solo diritto interno.

 

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