diritto dell'Unione europea

La primazia del primato sull’efficacia (diretta?) del diritto UE nella vicenda Taricco

Daniele Gallo, Dipartimento di Giurisprudenza, LUISS

1. In questo post (che sviluppa alcune osservazioni svolte qui) mi limiterò a ragionare su un profilo problematico della notissima vicenda Taricco (vedi qui per il testo della sentenza, del 2015, della Corte di giustizia): la (supposta) efficacia diretta dell’articolo 325 TFUE (per un commento ricostruttivo sull’ordinanza n. 24/2017 della Corte costituzionale vedi Gradoni, in questo blog; recentemente, sempre sull’ordinanza, per alcune osservazioni di stampo costituzionalistico vedi Faraguna, Pollicino e Bassini, Repetto e Tega; nella prospettiva penalistica Cupelli e Manes; dal punto di vista del diritto UE vedi Amalfitano).

A titolo preliminare, osservo che il tema del riconoscimento dell’efficacia diretta di una norma UE, visto in rapporto al principio del primato, pur rilevando, certamente, ai fini dei controlimiti, essendo il presupposto dell’obbligo di disapplicazione, solleva diverse criticità, anche a prescindere dall’invocazione, o meno, da parte della Corte costituzionale, della clausola sui principi costituzionali supremi. Peraltro, Taricco 2015 pone il serio dubbio – in linea con una certa lettura di parte della giurisprudenza pregressa della Corte di giustizia – che l’effetto diretto di una norma UE non sia per se precondizione per la disapplicazione della normativa nazionale (vedi infra, § 4).

2. Le brevi riflessioni che seguono muovono dalla convinzione che le rassicuranti, panglossiane categorie presenti in buona parte della letteratura, quali “ordinamento composito”, “tutela multilivello” e “circolazione dei diritti” (in parte, anche “dialogo tra corti”), seppure alte, altissime, sono, a mio modo di vedere, vaghe e, in quanto vaghe, rischiano di non essere particolarmente utili. Sono, peraltro, oggigiorno e sempre più frequentemente, messe a dura prova (si pensi a Melloni di qualche anno fa, al Tribunale costituzionale tedesco sull’OMT, alla Corte costituzionale danese che respinge la dottrina Mangold in Dansk; recentemente, vedi questo commento). Una sorte simile sta toccando al cosmopolitismo giuridico, caro a molti, a iniziare dalla Delmas Marty: di cosmopolita, oggi, anche sul piano del diritto, non mi pare ci sia molto.

3. Una prima osservazione di ordine generale: in dottrina è stato affermato che non varrebbe la pena applicare i controlimiti o la clausola dell’identità costituzionale/nazionale ex articolo 4.2 TUE (concetti, a mio avviso, in buona sostanza, sovrapponibili; contra, nella ragguardevole letteratura costituzionalistica, vedi Guastaferro), perché, in fin dei conti, a monte, c’è, per un verso, la poco edificante legge ex Cirielli e, per l’altro, un (odioso) inadempimento dello Stato italiano, incapace di reprimere frodi lesive degli interessi finanziari nazionali e, in misura minore, europei (Mastroianni, pp. 2 e 19; vedi anche Viganò, pp. 4-9). L’applicazione del controlimite andrebbe, cioè, a “salvare” lo Stato inadempiente. Di aulico non c’è, in effetti, nulla. All’estremo opposto, è stato sostenuto che Taricco “si muoverebbe interamente in quella prospettiva economico-finanziaria che i popoli europei, in maggioranza, trovano sempre più indigesta” (Luciani, qui, p. 83, nota 76).

Al riguardo, pur capendo che dietro l’effetto collaterale di non punire degli evasori si situa, ovviamente, la riserva di legge in materia penale, l’irretroattività in malam partem, mi chiedo se il controlimite sia un concetto/uno strumento statico oppure se, come credo, non sia naturalmente portato ad assumere contorni (i rarissimi casi nei quali potrebbe trovare attuazione) diversi a seconda della fattispecie coinvolta, per evitare una preoccupante eterogenesi dei fini. Il controlimite, insomma, ha un lato oscuro, intervenendo, nel caso di specie, al servizio di un principio (ci dicono i penalisti e i costituzionalisti) costitutivo del nostro ordinamento (prescrizione sostanziale dentro la riserva di legge) che si declina, collateralmente, nella vicenda Taricco, nel “graziare” il malfattore e nel punire la collettività. Con ciò non intendo affermare – sia chiaro – che la contestualizzazione, sul duplice piano economico e politico, della vicenda Taricco (e delle conseguenze che la non disapplicazione del diritto nazionale produrrebbe per lo Stato italiano e l’Unione, dal punto di vista della salvaguardia dei rispettivi interessi finanziari) giustifichi in re ipsa l’approccio adottato dalla Corte di giustizia nella sua sentenza del 2015 e che l’invocazione del controlimite debba essere, a monte, esclusa. Penso, tuttavia, che ragionare degli effetti derivanti dall’attuazione del controlimite non sia un elemento di per sé trascurabile, anche ai fini della formulazione, da parte della Corte costituzionale, del suo rinvio pregiudiziale, in chiave più o meno dialogante (vedi i §§ 5-7).

4. Ad essere naturalmente mutevole non è, peraltro, solamente il controlimite. Un discorso concettualmente analogo può essere fatto, specularmente (cioè, nell’ambito del diritto UE), per l’effetto diretto, visto in combinazione con il primato. Con ciò si vuole sottolineare che l’effetto diretto non è da intendersi in senso originalista. È, infatti, un principio dinamico, flessibile, evolutivo, polisemico ed è qui che la Corte di giustizia, in Taricco, a mio modesto giudizio, sbaglia laddove apoditticamente considera l’articolo 325 TFUE norma idonea a imporre la disapplicazione del diritto nazionale (punto 58). Un minimalismo argomentativo incomprensibile, a mio avviso, che i giudici UE ripropongono, purtroppo, in una varietà di ambiti, oramai da molti anni, e che si pone in conflitto con le finalità ultime che dovrebbero perseguire le sentenze pregiudiziali interpretative. Attraverso il rinvio pregiudiziale si richiede, infatti, alla Corte di giustizia di svolgere il suo ruolo costituzionale con effetto erga omnes, allo scopo di interpretare (possibilmente, in maniera adeguata) il diritto UE. Non di pronunciarsi sulla compatibilità di una norma nazionale con l’ordinamento UE – anche se, in pratica, ciò avviene, nonostante il modesto self restraint della Corte di giustizia nella formulazione dei dispositivi delle sentenze emanate ai sensi dell’articolo 267 TFUE.

Con riferimento alla vicenda Taricco, in particolare, quindi, in relazione al tema dell’effetto diretto e non solo, la sentenza della Corte di giustizia è debole e, in qualche passaggio, indifendibile (vedi anche, con tenore diverso, Amalfitano e Cannizzaro, qui, pp. 45-47). E con ciò chiarisco, come anticipato nella breve premessa iniziale, che il ragionamento sull’effetto diretto e sulla natura giuridica della norma UE, da un lato, è essenziale, dal punto di vista del rapporto tra diritto UE e principi fondamentali di uno Stato membro, perché è il riconoscimento dell’immediatezza dell’articolo 325 TFUE ad aver attivato l’obbligo di disapplicazione e quindi la necessità del controlimite; dall’altro, non è necessariamente e di per sé collegato al tema dei controlimiti. Le questioni che una tale problematica solleva valgono in generale, sul piano della sistematica relativa a portata e contenuto dell’effetto diretto, dunque dell’ordinamento UE (che ne è, in qualche modo, il prodotto, non viceversa, come osservato da Weiler qui, p. 94, e, ancora più esplicitamente, qui, p. 11), anche a prescindere dall’operatività dei controlimiti. In questo senso, sono questioni, tipicamente comunitaristiche, che interessano, pertanto, innanzitutto, lo studioso del diritto UE.

La Corte di giustizia non fa alcun cenno ai classici (ma progressivamente sempre più démodés, come chiarito da Prechal, pp. 1059-1064) presupposti della precisione e dell’incondizionatezza (sui quali vedi Adam e Tizzano, qui, pp. 173-174) ed en passant sembra ritenere che l’articolo 325 TFUE sia direttamente efficace, anche se non lo afferma espressamente. Ora, direi che è comprensibile, dal punto di vista della Corte di giustizia, non ragionare sugli elementi costitutivi dell’effetto diretto perché l’articolo 325 TFUE, se più o meno preciso (e anche su questo fronte esistono forti dubbi), non contiene certamente un obbligo incondizionato. Ma allora una norma UE è direttamente efficace anche quando non è incondizionata? Oppure, una norma UE produce la disapplicazione anche quando non è direttamente efficace? O ancora, una norma UE direttamente efficace significa semplicemente che può essere applicata dal giudice nel caso di specie? Se è così, è questo forse quel che significa “incondizionatezza”?

In questo contesto, l’articolo 325 TFUE potrebbe essere considerato direttamente efficace nella misura in cui opera come parametro di legittimità, con effetto esclusivo/oppositivo, anziché sostitutivo.

La Corte di giustizia, peraltro, in parecchie sue pronunce, ha consentito che l’effetto diretto potesse estendersi al punto da fungere quale parametro di legittimità anche quando il margine di discrezionalità lasciato allo Stato era particolarmente ampio (Verbond, Kraaijeveld, WWF). Proprio come nel caso Taricco, dove nessun cenno è svolto al significato da dare a locuzioni quali “frode grave” e “numero considerevole di casi” (vedi Daniele, p. 45). Tuttavia, l’applicazione di questa giurisprudenza alla vicenda Taricco si scontra con l’indiscutibile unicità del caso di specie: dal punto di vista del diritto penale, perlomeno negli ordinamenti di civil law, i rischi della violazione del principio di separazione dei poteri, con l’eccessiva discrezionalità lasciata ai “giudici legislatori” di memoria cappellettiana che ne consegue (e qui il collegamento effettuato da Luciani, sopra citato, pp. 70-71, tra articolo 1 e articolo 11 della Costituzione, è molto suggestivo), i rischi cioè di un’applicazione della legge incerta e a geometria variabile per l’individuo, sono certamente seri e gli effetti potenzialmente drammatici.

Ora, dando per buono che si tratti di efficacia diretta, Taricco presenta un’ulteriore peculiarità: in gioco mi sembra vi sia una forma (molto) sui generis di efficacia diretta verticale invertita. Invertita perché l’individuo non è titolare di una posizione giuridica soggettiva da far valere contro lo Stato; al contrario, è l’autorità nazionale che, sulla base della sentenza Taricco 2015, deve agire, disapplicando la normativa nazionale, e, così facendo, incide sulla situazione giuridica individuale. Molto sui generis, però, perché, in primo luogo, il diritto UE non impone un obbligo sull’individuo, dal momento che quel che produce è la lesione di un suo diritto, che è cosa, evidentemente, diversa; in secondo luogo, perché lo Stato, destinatario di un obbligo, non esercita un diritto, potendo ottenere un vantaggio solo qualora rispetti l’obbligo (di risultato) di cui all’articolo 325 TFUE e, nel caso di specie, a condizione che provveda a disapplicare la normativa italiana. Anche sotto questo profilo, Taricco lascia troppo sullo sfondo tematiche che avrebbero richiesto un’analisi più accurata.

Non penso, in ogni caso, che il punto dirimente sia che la Corte di giustizia, in Taricco, contraddica se stessa laddove associa l’effetto diretto (se di questo si tratta) a una norma non invocabile dal singolo intenzionato ad azionare un diritto da essa riconosciuto, cioè l’articolo 325 TFUE (Bin, qui). Di per sé, non è questa una circostanza straordinaria. Questa stessa dottrina, tuttavia, coglie nel segno quando rileva le specificità del caso di specie (Lucchini, ad esempio, concerne una decisione della Commissione in materia di aiuti, rivolta direttamente alle imprese; vedi, ancora, Bin, qui, p. 295): l’efficacia diretta verticale invertita dell’articolo 325 TFUE, nella sua (plastica ed espansiva) dimensione descritta brevemente sopra, non è affatto cosa scontata quando l’ambito è quello penalistico. Credo, infatti, che sia la prima volta (vedi già Amalfitano, sopra citata, p. 9) che una tale dimensione dell’efficacia diretta sia collegata a una norma penale. Insomma, il caso Taricco non va confuso con le altre sentenze dove l’infiltrazione del diritto UE comportava, direttamente o indirettamente, il conferimento di una posizione di vantaggio in capo al singolo. Ed è intorno a questo assioma, obbligo/svantaggio/lesione di un diritto, che ruotano le problematiche principali (al di là di Taricco vedi anche, in termini più generali, Manes, qui, p. 173).

In breve, la Corte di giustizia avrebbe potuto cogliere l’occasione, in Taricco, per definire portata e limiti dell’evoluzione post Van Gend en Loos, in relazione a una vicenda dove il singolo, lungi dall’essere colui che la norma UE tutela, è oggetto di “nuovi” obblighi, di origine processuale e sostanziale, peraltro non prevedibili (vedi, ampiamente, l’ordinanza della Corte costituzionale 24/2017, oltre alla (quasi) totalità della dottrina penalistica che si è occupata di Taricco). Ciò non è stato fatto, con la conseguenza che i giudici UE hanno relegato, nel campo delle ipotesi, quel che, invece, andava esplicitato.

L’incertezza del diritto prodotta da Taricco è palese e questo vale, più in generale, per la perimetrazione e comprensione, sistemica, del contenuto dell’efficacia diretta. Come in molte altre pronunce, la Corte fa e disfà l’effetto diretto (vedi le riflessioni svolte da Bobek, De Witte, Prechal, pp. 97-106 e, per un’analisi centrata sul rapporto tra effetto diretto e rinvio pregiudiziale, vedi Repetto), apparentemente senza alcun solido criterio ermeneutico. Mi pare che il twist effettuato, silenziosamente, dalla Corte di giustizia, nella sua giurisprudenza, non possa essere sottovalutato: ad oggi, al centro dell’efficacia diretta (e della sua ambiguità), intesa in senso ampio, mi sembra non vi sia tanto il conferimento di un diritto, quanto l’imposizione di un obbligo (vedi anche Edward e Robin-Olivier). Da qui l’affermazione di un rapporto di forza tra primato ed efficacia diretta, dove il primo tende a ridimensionare il ruolo che la seconda ha nell’ambito della relazione tra ordinamento UE e ordinamenti nazionali.

5. Quanto alla Corte costituzionale, mi pare che, nella sua ordinanza di gennaio scorso, non tenga conto dei profili controversi concernenti l’efficacia del diritto UE.

Avrebbe dovuto? A mio avviso, sicuramente avrebbe potuto; bene, forse, avrebbe fatto a cogliere al meglio le fragilità argomentative della Corte di giustizia, i silenzi, i ragionamenti en passant, la leggerezza complessiva della pronuncia, ponendo dunque, in questo modo, se stessa (anche) al di fuori di un ragionamento che pare considerare il controlimite quale unica risorsa/unico strumento giuridico di reazione all’ordinamento UE. Peraltro, una formulazione parzialmente diversa del rinvio pregiudiziale avrebbe potuto portare la Corte costituzionale a dialogare, sul serio, con la Corte di Lussemburgo, mettendo all’attenzione di quest’ultima dubbi sulla sua sentenza del 2015 i quali, se fugati, potrebbero contribuire (forse) a disinnescare l’arma del controlimite. Nel peggiore dei casi, una risposta su questi dubbi potrebbe, se non disinnescare il controlimite, almeno contribuire a chiarire una serie di aspetti che si pongono al centro del processo d’integrazione (giuridica) europea, aspetti che, perlomeno per il comunitarista, sono costituzionali. Non poca cosa, pertanto. A questo proposito, c’è da chiedersi se, a monte, il problema non sia che i giudici nazionali (Corte di Cassazione e Corte di Appello di Milano), invece di rivolgersi alla Corte costituzionale, nell’ottica Granital e quindi invece di ragionare direttamente in termini di controlimiti, avrebbero potuto (dovuto, quanto alla Corte di Cassazione) rivolgersi loro – in doppia pregiudizialità – ai giudici UE così da scongiurare il più possibile il prodursi dello scenario attuale (vedi la proposta già svolta da Daniele, sopra citato, pp. 45-46). Forse non sarebbe cambiato nulla; è una possibilità. Forse, invece, la Corte di giustizia avrebbe potuto interpretare meglio se stessa ed eventualmente, in punta di penna e senza il cono di luce alto su di lei (a seguito di un così poco dialogante rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale), effettuare un piccolo (o grande?) passo indietro rispetto alla sua sentenza del 2015.

6. La sentenza Taricco della Corte di giustizia non va criticata solamente in merito all’insoddisfacente ragionamento ivi formulato riguardante la portata dell’articolo 325 TFUE e, più in generale, gli effetti del diritto UE sulla sfera giuridica dei singoli. Esistono altre criticità. Criticità su cui la Corte costituzionale avrebbe potuto e, forse, dovuto fare (maggiormente) perno al fine di effettuare – in linea con quanto si è scritto poco sopra – un rinvio pregiudiziale, meno incentrato sul controlimite, e cioè soprattutto centrato su quella che dovrebbe essere la funzione del rinvio: non chiedere l’autorizzazione alla Corte di giustizia ad applicare un controlimite; al contrario, chiedere che il diritto UE venga interpretato, giurisprudenza compresa. Mi limito solamente a menzionare alcuni punti: possibile applicazione dell’articolo 49 della Carta; limitazione degli effetti temporali (ex nunc) della sentenza della Corte di giustizia del 2015; rapporto con l’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e con la giurisprudenza relativa; portata dei principi dell’effettività e dell’equivalenza e loro impatto sull’obbligo di disapplicazione.

Con ciò intendo dire che, senza voler negare l’importanza che riveste l’articolo 4.2 TUE in chiave di possibile risoluzione delle antinomie, vie ermeneutiche ulteriori, forse meno accidentate, per impostare il rinvio pregiudiziale, esistevano. Vie, peraltro, che potrebbero ancora essere, verosimilmente, autonomamente percorse dalla Corte di giustizia, a condizione però che essa torni, in qualche modo, sui suoi passi. L’ordinanza della Corte costituzionale, tutta modulata sulla necessità di applicare il controlimite, non è certamente il miglior assist per farlo; tuttavia, i giudici UE potrebbero sorprenderci (in meglio, questa volta) e disinnescare loro stessi l’arma del controlimite.

7. In conclusione, proprio perché siamo in una fase critica del processo d’integrazione europea, mi pare che la Corte di giustizia debba ispirarsi il più possibile a quel che il diritto UE era alle origini, alla sua originalità e autonomia. Originalità e autonomia significano centralità dell’individuo-soggetto di diritto (sul punto vedi Tesauro, qui, pp. 165-182). La Corte, potrebbe, quindi, fare due cose. Primo: offrire una più adeguata ricostruzione dogmatica dell’istituto dell’effetto diretto, anche e soprattutto in rapporto al primato (vedi, con riferimento alla dottrina italiana, i contributi di Luzzatto, Nascimbene e Tesauro in Nascimbene). In rapporto al primato e, in particolare, in rapporto alla cannibalizzazione che il primato esercita nei confronti dell’effetto diretto, effetto che, in Taricco e non solo, a differenza di quanto accadeva in epoca passata, ha contorni vaghi e, forse proprio per questo, non è più centrale nel ragionamento della Corte di giustizia. Un ragionamento che, come in Taricco, appunto, ruota in toto intorno al prisma della disapplicazione. Insomma, il minimalismo nell’indagine sull’effetto diretto è un male e lede la certezza del diritto: è necessario che i giudici UE illustrino come, perché e fino a che punto l’effetto diretto, come pare, non sia associato solamente alla creazione di un diritto, nell’ottica precettiva alla Van Gend en Loos (sul significato di “precettivo” vedi Villani, p. 236). Va, quindi, necessariamente chiarito se e in che termini per effetto diretto s’intenda giustiziabilità, laddove giustiziabilità significa, a sua volta, possibile applicazione di una norma UE (operante anche quale parametro di legittimità), da parte del giudice, nel caso di specie, a prescindere dal conferimento di un diritto individuale. In quest’ottica, con Taricco 2015 la Corte di giustizia sembra aver raggiunto l’apice dell’incertezza. La speranza è che Taricco 2017 segni un passo diverso.

Secondo: prima di incidere direttamente sulla sfera giuridica dei singoli, ledendone garanzie e diritti, azionando il primato del diritto UE, bene farebbe la Corte di Lussemburgo ad ascoltare di più le corti nazionali. Insomma, l’attivismo senza se e senza ma nell’applicazione del primato – non il primato in sé per sé, chiaramente – è un male. Nel contempo, le corti nazionali, a loro volta, a mio parere, prima di invocare il controlimite (o il suo più prima facie rassicurante ma, in verità, potenzialmente dirompente, counterpart europeo, l’articolo 4.2 TUE, che lo introietta sul piano del diritto UE), dovrebbero pensarci a fondo, considerandolo, quindi, sul serio, quale extrema ratio. Cosa che, a mio avviso, non è avvenuta nell’ordinanza 24/2017. Se poi la Corte di giustizia reitererà tale e quale l’impostazione – poco condivisibile – già prospettata in Taricco 2015, allora, non dovremo sorprenderci se la reazione della Corte costituzionale si sostanzierà nell’applicazione del controlimite, con buona pace, purtroppo, di Simmenthal, Pringle, Melloni, Gauweiler. Ma solo allora.

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