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Il labirinto delle linee rosse, ovvero: chi giudicherà la Brexit?

Federico Casolari, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna (membro della redazione)

Mentre viene definendosi l’iter che dovrebbe portare, salvo sorprese, all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea (UE), risulta sempre più evidente che una delle questioni centrali nei negoziati sulla conclusione dell’Accordo di recesso sarà quella relativa all’individuazione del meccanismo di risoluzione delle eventuali controversie tra le Parti contraenti sull’interpretazione ed applicazione dell’Accordo medesimo.

In effetti, si tratta di un aspetto non di poco conto se si considera che l’Accordo di recesso dovrebbe definire, tra l’altro, le modalità di adempimento, da parte del Regno Unito, degli obblighi finanziari che esso ha assunto durante la sua partecipazione all’Unione (si parla, al riguardo, di una exit bill che potrebbe sfiorare i 60 miliardi di euro), oltre che la gestione dei diritti acquisiti da singoli (in particolare dai cittadini europei) alla luce del diritto UE.

Questa circostanza spiega anche il motivo per il quale un tema che è stato affrontato dall’Unione innumerevoli volte nel corso dei negoziati portati avanti e conclusi con Stati terzi (sono in effetti molteplici gli esempi di meccanismi di risoluzione delle controversie contenuti negli accordi stipulati dall’organizzazione) acquista una dimensione del tutto inedita se collocato nel quadro delle relazioni che verranno disciplinate dall’Accordo di recesso. Ciò dipende, appunto, dal carattere senza precedenti di tale Accordo. Non si è mancato, peraltro, di evidenziare, alla luce di un parallelismo con gli accordi di adesione conclusi ex art. 49, co. 2, TUE, la natura sostanzialmente “costituzionale” dell’Accordo in questione (così, ad es., Sarmiento, nel corso di un seminario tenutosi presso il Real Colegio de España di Bologna il 23 marzo 2017).

Le posizioni del Regno Unito e dell’UE riguardo al sistema di soluzione delle controversie da incorporare nell’Accordo di recesso appaiono distanti. Il Governo di Sua Maestà ha chiarito, nel Libro bianco su «The United Kingdom’s exit from and new partnership with the European Union» – che è stato adottato nel febbraio di quest’anno –, che la Corte UE non potrà esercitare la funzione di giudice delle liti. Le parole utilizzate in proposito svelano una diffidenza profonda nei confronti dell’istituzione: «The CJEU is amongst the most powerful of supranational courts due to the principles of primacy and direct effect in EU law. We will bring an end to the jurisdiction of the CJEU in the UK» (ibid., punto 2.3). Le ragioni di una simile diffidenza non sono peraltro difficili da intuire: l’azione svolta dalla Corte di giustizia si caratterizzerebbe, secondo il numero 10 di Downing Street, per un eccessivo judicial activism, volto ad estendere in ogni caso l’ambito di applicazione del diritto UE, a scapito di quello del diritto nazionale (per alcune ulteriori considerazioni in proposito v. qui). Dal punto di vista del Regno Unito, dunque, la Corte UE non solo non potrebbe agire da arbitro imparziale dell’Accordo di recesso, ma rischierebbe, col suo operato, di ridimensionare il processo di riappropriazione di sovranità (anche normativa) attivato dal Paese il 29 marzo scorso colla notifica dell’intenzione di recesso. Questo spiega anche il motivo per cui la rimozione della giurisdizione della Corte UE dal tavolo dei negoziati costituisce al momento una delle linee rosse oltre le quali il Regno Unito non intende spingersi (v. in proposito il Rapporto su «The Government’s negotiating objectives: the White Paper», licenziato il 29 marzo 2017 dall’Exiting the European Union Committee dell’House of Commons, punto 8, p. 4).

La posizione dell’Unione europea, si diceva, è distante. Come noto, il Consiglio europeo si riunirà il 29 aprile prossimo per discutere gli orientamenti da assumere in vista dei negoziati sull’Accordo di recesso. È tuttavia già disponibile da alcuni giorni la proposta che ha elaborato il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, e che verrà posta all’attenzione dai Capi di Stato e di Governo dei 27 Stati membri. Nel documento si legge quanto segue: «The withdrawal agreement should include appropriate dispute settlement mechanisms regarding the application and interpretation of the withdrawal agreement, as well as duly circumscribed institutional arrangements allowing for the adoption of measures necessary to deal with situations not foreseen in the withdrawal agreement. This should be done bearing in mind the Union’s interest to effectively protect its autonomy and its legal order, including the role of the Court of Justice of the European Union» (ibid., punto 16; corsivo aggiunto).

Come si vede, viene chiaramente evidenziata la necessità che il meccanismo di risoluzione delle controversie da inserire nell’Accordo di recesso preservi il ruolo che i Trattati istitutivi affidano alla Corte di giustizia (e, cioè, ai sensi dell’art. 19, par. 1, TUE, la garanzia del rispetto del diritto nell’interpretazione ed applicazione dei Trattati). Resta tuttavia da definire come ciò debba avvenire in concreto.

Più esplicita – e tranchant – la posizione espressa dal Parlamento europeo nella Risoluzione adottata il 5 aprile scorso sui «Negoziati con il Regno Unito a seguito della notifica della sua intenzione di recedere dall’Unione europea». Vi si legge, infatti, che l’Accordo di recesso dovrebbe contenere «la designazione della Corte di giustizia dell’Unione europea quale autorità competente per l’interpretazione e l’applicazione dell’Accordo [medesimo]» (punto 17). Nella risoluzione il Parlamento sembra poi tracciare a sua volta una linea rossa dei negoziati, affermando che: «l’adesione al mercato interno e all’unione doganale [da parte del Regno Unito] comporta l’accettazione delle quattro libertà, la competenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, i contributi al bilancio generale e il rispetto della politica commerciale dell’Unione europea» (ibid., punto 10; corsivo aggiunto).

Tenuto conto di quanto precede, il presente contributo intende illustrare quali scenari sono, in linea teorica, ipotizzabili rispetto al tema evocato, delineandone i rispettivi limiti e le potenzialità. Esso non si occupa invece della questione, solo in parte analoga (e spesso, erroneamente, confusa con la prima), relativa all’individuazione di un meccanismo di risoluzione delle controversie nell’accordo che dovrà stabilire le future relazioni tra l’Unione ed il Regno Unito. Del pari, non viene considerato il tema delle controversie che coinvolgono singoli, tema, quest’ultimo, che richiederebbe altresì una valutazione dell’efficacia degli obblighi contratti dall’Unione e dal Regno Unito alla luce della Brexit.

 

Con una certa approssimazione, può dirsi che cinque sono le principali opzioni a disposizione dei negoziatori. Esse sono richiamate sommariamente a seguire.

 

Opzione A: incorporazione nell’Accordo di recesso di un meccanismo di risoluzione delle controversie basato sul dialogo politico tra le Parti.

Si tratta, ovviamente, di una possibile soluzione, peraltro già prevista in altri accordi conclusi dall’Unione con Stati terzi. È tuttavia assai improbabile che il meccanismo di risoluzione delle controversie incorporato nell’Accordo di recesso si limiti a menzionare l’obbligo di consultazione tra le Parti. In altri termini, è logico aspettarsi che tale obbligo venga inserito in un più elaborato meccanismo, rappresentando la prima fase che le Parti debbono attivare nel tentativo di pervenire in buona fede ad una soluzione concordata. Esempi recenti di tale impostazione si rinvengono, ad esempio, nell’Accordo di Associazione tra l’UE e l’Ucraina e nell’Accordo economico e commerciale globale tra UE e Canada (CETA), ove l’obbligo di consultazione tra le Parti precede la possibilità di apertura di una procedura di arbitrato (artt. 303 ss. e artt. 29.1 ss., rispettivamente). È auspicabile, invece, per ovvie ragioni di opportunità politica, che l’Accordo di recesso non adotti una soluzione simile a quella che è accolta in altri accordi conclusi dall’Unione – per esempio nell’Accordo stipulato con la Confederazione svizzera e relativo ai criteri e ai meccanismi che permettono di determinare lo Stato competente per l’esame di una domanda di asilo introdotta in uno degli Stati membri o in Svizzera (art. 7) –, soluzione in base alla quale, laddove non si pervenga ad una composizione della controversia in sede politica entro un determinato termine, l’accordo in questione cessa di essere applicabile.

Alla luce di quanto precede, l’opzione in parola deve considerarsi complementare con tutte quelle che seguono, che sono da intendersi, invece, fra loro alternative.

 

Opzione B1: inclusione di una clausola di arbitrato o di regolamento giudiziale, che non veda l’attribuzione alla Corte UE del ruolo di giudice della controversia, nell’Accordo di recesso.

Questa ipotesi si fonda su di una prassi già invalsa nelle relazioni tra soggetti della Comunità internazionale, prevedendo una clausola che consenta, mediante manifestazione unilaterale di volontà, di attivare un procedimento arbitrale o un regolamento giudiziale. In quest’ultimo caso, evidentemente, la clausola non prevedrebbe la giurisdizione della Corte di giustizia ma quella di altro tribunale internazionale. A questo proposito, si è ipotizzata la possibilità di riconoscere la giurisdizione della Corte internazionale di giustizia (CIG); l’ipotesi appare in realtà estremamente remota, tenuto conto, tra l’altro, che, in base all’art. 34, par. 1, del suo Statuto, la CIG può risolvere solo controversie tra Stati (sulla questione si avrà comunque modo di tornare a seguire, nell’analisi dell’opzione B2).

La clausola compromissoria, inoltre, dovrebbe auspicabilmente risultare “completa”, essendo poco utile l’inserimento nell’Accordo di recesso di una clausola incompleta che richieda poi la stipulazione di un accordo successivo per poter pienamente operare.

Ora, benché astrattamente percorribile, l’opzione in parola non manca di sollevare, ad uno sguardo più attento, alcune questioni importanti, che è utile richiamare brevemente in questa sede. Si tratta, peraltro, di questioni che riguardano – e non è un caso – la posizione della Corte di giustizia.

Non bisogna infatti dimenticare che l’Accordo di recesso, alla stregua di qualsiasi altro accordo internazionale concluso dall’Unione con Stati terzi od organizzazioni internazionali (tralasciando ovviamente qualsiasi considerazione sull’ipotetica natura “costituzionale” che esso, secondo taluni, assumerebbe), sarà riconducibile a tutti gli effetti nel novero degli atti compiuti dalle istituzioni UE produttivi di effetti giuridici vincolanti nei confronti dei terzi (la questione è stata chiarita una volta per tutte dalla Corte UE nel leading case Haegeman, causa 181/73, punti 3-5). Pertanto, esso sarà suscettibile del sindacato di legittimità svolto dalla Corte di giustizia (v. per tutte la sentenza della Corte nel caso Kadi II, cause riunite C-402/05 P e C-415/05 P, punti 281-282).

Da quanto detto consegue certamente che l’Accordo – o la relativa decisione di conclusione adottata dal Consiglio ai sensi dell’art. 50, par. 2, TUE – sarà impugnabile ex post innanzi alla Corte (in base all’art. 263 TFUE). O potrà essere oggetto di una eccezione di illegittimità (ai sensi dell’art. 277 TFUE) o di un rinvio pregiudiziale di validità (alla luce dell’art. 267, co. 1, lett. b), TFUE). Meno scontata è la possibilità che la Corte di giustizia possa essere chiamata a pronunciarsi ex ante sulla compatibilità dell’Accordo coi Trattati istitutivi (secondo quanto previsto dall’art. 218, par. 11, TFUE). La procedura di conclusione dell’Accordo di recesso è infatti sottoposta a regole speciali, che solo in parte coincidono con quelle (generali) previste dall’art. 218 TFUE. Più precisamente, il richiamo all’art. 218 contenuto nel par. 2 dell’art. 50 TUE – che descrive l’iter di conclusione dell’Accordo – è limitato al suo par. 3, dedicato alle modalità di conduzione dei negoziati. Se ne dovrebbe dunque logicamente dedurre che tutte le altre disposizioni dell’art. 218, compresa quella che consente l’intervento consultivo della Corte, non siano applicabili all’Accordo de quo (per un’opinione diversa v. Pistoia). È comunque possibile, se non addirittura probabile, che il testo dell’Accordo di recesso – quando (e se) disponibile – sarà sottoposto al sindacato preventivo della Corte, che potrà dunque far chiarezza sul punto, riconoscendo o meno la propria giurisdizione consultiva.

Quale che sia la procedura seguita, la Corte di giustizia potrà comunque esprimersi sulla compatibilità dell’Accordo col diritto UE (ove sollecitata a farlo, evidentemente). E non è difficile immaginare che tra i possibili profili di illegittimità sui quali essa potrà essere chiamata a pronunciarsi vi sia proprio quello relativo alla clausola compromissoria in discussione.

Non mancano, al riguardo, importanti precedenti giurisprudenziali. Come noto, la Corte di giustizia, pur non escludendo a priori la compatibilità col diritto dell’Unione di un accordo internazionale da essa concluso che preveda l’istituzione di un organo incaricato di fornire un’interpretazione vincolante delle sue disposizioni (v., per tutti, il parere 2/13 sull’adesione dell’Unione alla CEDU, al punto 182), si è dimostrata sin qui assai riluttante nell’accettare una simile eventualità (per una visione di insieme sulla giurisprudenza rilevante v. da ultimo Lock, p. 74 ss.). In particolare, essa ha chiarito che «un accordo internazionale può incidere sulle sue competenze soltanto a condizione che siano soddisfatte le condizioni essenziali per la preservazione della natura di tali competenze e che dunque non venga pregiudicata l’autonomia dell’ordinamento giuridico dell’Unione» (ibid., punto 183; corsivo aggiunto). Tra le condizioni o, se si vuole, le linee rosse fissate dalla Corte per tutelare l’autonomia dell’ordinamento vi è anche quella secondo cui la competenza decisionale attribuita ad un arbitro o ad un tribunale sulla base di un accordo concluso dall’UE «non deve avere come effetto di imporre all’Unione e alle sue istituzioni, nell’esercizio delle loro competenze interne, un’interpretazione determinata delle norme del diritto dell’Unione» (ibid., punto 184). Ora, come può agevolmente intuirsi è difficile che una simile condizione possa essere garantita nello scenario in esame. È infatti evidente che l’eventuale valutazione – in sede contenziosa – degli obblighi delle Parti contraenti derivanti dall’Accordo di recesso ben potrebbe vincolare le istituzioni dell’Unione, Corte di giustizia compresa, ad una precisa interpretazione di norme sovranazionali (ad es. in tema di diritti derivanti dalla cittadinanza europea), minando pertanto l’autonomia dell’ordinamento UE così come essa risulta attualmente ricostruita nella giurisprudenza dei giudici di Lussemburgo.

Si potrebbe ipotizzare, per sanare il potenziale vulnus arrecato alle caratteristiche specifiche del diritto dell’Unione e del suo ordinamento, l’inserimento, nell’ambito del meccanismo di risoluzione delle controversie previsto dall’Accordo, di una procedura obbligatoria (non dunque frutto della mera comity tra corti internazionali) che preveda il previo coinvolgimento della Corte di giustizia. Si tratterebbe, cioè, di consentire alla Corte UE di pronunciarsi in modo vincolante (per l’organo di risoluzione della controversia) su qualsiasi questione pregiudiziale che riguardi il diritto dell’Unione europea. Anche questa ipotesi, tuttavia, appare di difficile realizzazione. Ad ostacolarla è la posizione negoziale assunta dal Regno Unito. Ciò anche tenuto conto delle condizioni, particolarmente gravose, poste dalla Corte di giustizia per la compatibilità di una siffatta procedura col diritto UE. Tali condizioni sono state fissate nel già citato parere 2/13 sull’adesione dell’Unione alla CEDU. La Corte, analizzando il procedimento di coinvolgimento previo contenuto nel relativo Progetto di accordo (all’art. 3, par. 6), ha precisato che la legittimità di un simile meccanismo dipende dal fatto che:

  • il carattere pregiudiziale della questione di diritto dell’UE venga valutato esclusivamente dalla Corte di giustizia, colla conseguenza che per ogni procedimento contenzioso attivato innanzi al sistema di risoluzione delle controversie occorrerebbe trasmettere una nota informativa «completa e sistematica» alla Corte, in modo da consentirle di valutare se vi siano questioni pregiudiziali di diritto UE da risolvere, consentendole, in caso positivo, di attivare l’apposita procedura (ibid., punti 238-241); e che
  • la Corte di giustizia possa pronunciarsi su una qualsiasi delle questioni pregiudiziali previste dall’art. 267, co. 1, TFUE, dunque sull’interpretazione tanto del diritto primario quanto del diritto derivato e sulla legittimità degli atti vincolanti (ibid., punti 242-247).

Come ricordato in dottrina (Cannizzaro, p. 633), tali condizioni sembrano invero «portare alle estreme conseguenze l’idea dell’autonomia [dell’ordinamento UE]», rendendo dunque particolarmente difficile il raggiungimento di un compromesso accettabile per entrambe le Parti nel negoziato sull’Accordo di recesso.

Evidentemente, considerazioni analoghe a quelle sin qui svolte potrebbero avanzarsi pure nell’ipotesi (per la verità assai remota) in cui – in assenza di una clausola compromissoria nell’Accordo di recesso – l’Unione europea decida di concludere col Regno Unito un accordo ad hoc per la risoluzione di una controversia su di esso che sia sorta in un momento successivo alla sua entrata in vigore.

 

Opzione B2: nessuna intesa viene raggiunta riguardo alla risoluzione delle controversie sull’interpretazione o applicazione dell’Accordo di recesso (ad eccezione dell’eventuale ipotesi di cui all’opzione A).

Tenuto conto degli ostacoli ipotizzabili nel caso di inserimento di una clausola di arbitrato o di regolamento giudiziale nell’Accordo di recesso, i negoziatori delle rispettive Parti potrebbero decidere … di non decidere, escludendo qualsiasi riferimento, nel concludendo Accordo, alle suddette procedure di risoluzione delle controversie.

Un simile scenario, peraltro, non impedirebbe affatto il ricorso a meccanismi di composizione delle liti esterni all’ordinamento giuridico dell’Unione.

Anzitutto, ben potrebbero essere attivati i meccanismi già previsti dagli accordi internazionali multilaterali di cui l’Unione e il Regno Unito sono parti (si pensi ad es. al Dispute Settlement Mechanism facente capo all’Organizzazione Mondiale del Commercio o al sistema di risoluzione delle controversie previsto nella parte XV della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare). Ciò, evidentemente, sul duplice presupposto che: a) trovino applicazione i regimi multilaterali cui tali meccanismi si applicano e b) vengano rispettati i principi che, sul fronte interno all’Unione, regolano la partecipazione delle sue istituzioni al procedimento di soluzione delle controversie rilevante (sul locus standi dell’Unione innanzi ad organi internazionali di risoluzione delle controversie, v. in generale Rosas, nonché Hillion e Wessel; con riguardo invece alle implicazioni istituzionali che ne derivano a livello UE, v. Schiano di Pepe, in commento alla pronuncia resa dalla Corte di giustizia il 6 ottobre 2015 nel caso Consiglio c. Commissione, causa C-73/14).

In secondo luogo, non si può escludere il sorgere di una controversia internazionale tra uno o più Stati membri dell’Unione ed il Regno Unito. Qualora, ad esempio, il Regno Unito non ritenga di dover adempiere pienamente agli obblighi finanziari assunti nei confronti dell’Unione, obblighi cui probabilmente l’Accordo di recesso dedicherà una specifica disciplina, potrebbe accadere che – su autorizzazione del Consiglio – uno o più Stati membri azionino meccanismi di soluzione controversie contenuti in accordi di cui sono parti assieme al Regno Unito. In altri termini, utilizzando una efficace metafora coniata dalla Corte di giustizia nel 1981 (nella pronuncia Commissione c. Regno Unito, causa 804/79) e recentemente ripresa da Marise Cremona proprio con riguardo all’azione esterna dell’Unione, gli Stati membri potrebbero essere autorizzati ad agire come «trustees of the common interest» dell’Unione europea al fine di ottenere l’enforcement degli obblighi previsti dall’Accordo di recesso. Restando nell’esempio appena richiamato, potrebbe dunque accadere che la Germania, su impulso del Consiglio (che dovrebbe adottare una decisione ad hoc), invochi l’art. 1 della Convenzione europea per la soluzione pacifica delle controversie al fine di sottoporre la questione alla Corte internazionale di giustizia (tale Convenzione, come noto, è stata invocata proprio dalla Germania per radicare la giurisdizione della CIG nella controversia con l’Italia relativa alle immunità degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile). In un caso simile, peraltro, la CIG dovrebbe – a’termini dell’art. 34, par. 3, del suo Statuto – informare l’Unione europea, trasmettendole copia di tutti gli atti del procedimento scritto. Inoltre, ai sensi del par. 2 della medesima disposizione, l’Unione – di propria iniziativa o su richiesta della Corte – potrebbe fornire informazioni ritenute utili per la soluzione della controversia. Occorre peraltro segnalare che, benché realistica (secondo quanto riportato da alcuni organi di stampa essa sarebbe espressamente menzionata in un documento riservato predisposto per il Ministro delle Finanze tedesco), tale ipotesi è stata recentemente revocata in dubbio dal Parlamento inglese. In particolare, in un Rapporto su «Brexit and the EU budget», adottato nel mese di marzo dallo European Union Committee della House of Lords, si legge quanto segue: «Individual EU Member States may seek to bring a case against the UK for the payments of outstanding liabilities under principles of public international law, but international law is slow to litigate and hard to enforce. In addition, it is questionable whether an international court or tribunal could have jurisdiction» (ibid., punto 136; corsivo aggiunto).

Ad ogni modo, anche un simile scenario non è immune da possibili censure della Corte di giustizia dell’Unione europea analoghe a quelle menzionate poco sopra nella descrizione dell’opzione B1. È del resto noto che, nel celebre caso MOX, la Corte non ha mancato di condannare uno Stato membro (l’Irlanda) per aver intaccato l’autonomia dell’ordinamento giuridico dell’Unione ricorrendo ad un meccanismo di soluzione delle controversie esterno ad esso. Nel caso di specie, in particolare, la Corte aveva qualificato tale condotta come violazione dell’attuale art. 344 TFUE, ritenuto espressione del più generale principio di leale cooperazione (per un’analisi della pronuncia v. Casolari). È vero che il caso MOX presenta differenze rilevanti rispetto a quello appena descritto. Occorre in particolare segnalare come, nonostante la sua interpretazione letterale non lo escluda, difficilmente l’art. 344 TFUE potrebbe essere invocato nell’ipotesi di ricorso alla CIG, atteso che – secondo la lettura datane dalla Corte UE (e dalla prevalente dottrina) – la disposizione di diritto primario si limiterebbe a vietare la risoluzione di controversie al di fuori dell’ambito UE fra gli Stati membri (e non fra Stati membri e Stati terzi, quale sarebbe il Regno Unito dopo l’entrata in vigore dell’Accordo di recesso). Rimarrebbe, però, la possibilità di sindacare la legittimità della autorizzazione fornita dal Consiglio, nella misura in cui essa consentirebbe di sottoporre obblighi sovranazionali all’apprezzamento vincolante di altro giudice internazionale (in spregio alle indicazioni fornite dalla Corte di giustizia nella sua giurisprudenza consultiva). Ovviamente perché ciò avvenisse sarebbe necessaria l’impugnazione dell’atto del Consiglio in via diretta o pregiudiziale. E non è scontato, alla luce del contesto in cui esso verrebbe adottato, che ciò possa verificarsi.

È appena il caso di rammentare, infine, che le considerazioni che precedono ben potrebbero applicarsi anche nel caso in cui l’assenza di un’intesa sulla risoluzione delle controversie consegua ad una più generale impasse nei negoziati per l’Accordo di recesso, a seguito della quale, secondo quanto previsto dall’art. 50, par. 3, TUE, i Trattati UE potrebbero cessare di applicarsi automaticamente nei confronti del Regno Unito.

 

Opzione B3: riconoscimento “parziale” della giurisdizione della Corte di giustizia.

Di fronte alle problematiche messe in luce dagli scenari sopra descritti, un’ulteriore alternativa, che sembra aver trovato sostegno in alcuni ambienti istituzionali dell’Unione (segnatamente in quelli vicini alla Commissione europea), potrebbe consistere nel dare vita ad una ibridazione delle due opzioni che precedono, riconoscendo una parziale giurisdizione della Corte di giustizia sull’Accordo di recesso e, in parallelo, prevedendo la possibilità di ulteriori meccanismi di risoluzione delle controversie.

Questa ipotesi è in particolare avanzata nel Non paper on key elements likely to feature in the draft negotiating directives elaborato dalla Commissione europea, che da poco tempo circola nel Web. Stando al documento – che è concepito dalla Commissione come un «work in progress» da implementare tramite una stretta cooperazione con gli Stati membri, il Parlamento europeo ed il Segretariato generale del Consiglio – la giurisdizione della Corte di giustizia dovrebbe essere garantita «[f]or the application and interpretation of provisions of the Agreement […] relating to Union law» (ibid., punto 32). In tutti gli altri casi, sarebbe possibile dare vita ad un sistema alternativo di risoluzione delle controversie, a condizione che esso «offers equivalent guarantees of independence and impartiality to the Court of Justice of the European Union» (ibid.).

La soluzione offerta dal Non paper mette in luce tutte le difficoltà che una simile ibridazione comporta. La giurisdizione della Corte di giustizia risulta definita in termini ambigui; o meglio, stando all’espressione utilizzata al riguardo dalla Commissione – e cioè «application and interpretation of provisions of the Agreement […] relating to Union law» –, si dovrebbe forse concludere che tale giurisdizione sia potenzialmente estensibile a tutte le questioni interessate dall’Accordo, sicché l’eventuale meccanismo alternativo sarebbe da considerarsi del tutto recessivo (in tal senso v. anche le annotazioni di Barker a margine del Non paper, disponibili qui). E d’altra parte appare piuttosto difficile sostenere che l’Accordo di recesso possa occuparsi di questioni non riconducibili – direttamente o indirettamente – all’applicazione del diritto UE. Insomma, date le peculiarità dell’Accordo in oggetto, una chiara demarcazione tra ambiti coperti dal diritto dell’Unione ed ambiti ad esso (del tutto) estranei appare, di fatto, impossibile. Colla conseguenza che la Corte di giustizia potrebbe comunque giungere a censurare la legittimità delle disposizioni rilevanti dell’Accordo di recesso, ritenendo infranta, per le ragioni sopra richiamate, la linea rossa dell’autonomia dell’ordinamento giuridico dell’Unione da essa presidiata.

Ma l’ambiguità di una siffatta soluzione traspare anche da altri elementi contenuti nel Non paper. Il punto 33 del documento dispone, ad esempio, che «any reference to concepts or provisions of Union law made in the Agreement must be understood as including the case-law of the Court of Justice of the European Union interpreting such concepts or provisions before the withdrawal date» (ibid., punto 33). Sembrerebbe che il Non paper abbia voluto mostrare in tal modo una qualche apertura nei confronti della tesi sostenuta dal Governo britannico nel Libro bianco sul c.d. Great Repeal Bill (presentato lo scorso 30 marzo), secondo cui l’atto di diritto interno dovrà disporre che «any question as to the meaning of EU-derived law will be determined in the UK courts by reference to the CJEU’s case law as it exists on the day we leave the EU» (ibid., punto 2.14; corsivo aggiunto). D’altra parte, però, il documento elaborato dalla Commissione prevede anche che l’eventuale meccanismo alternativo di risoluzione delle controversie disciplinato nell’Accordo debba comunque prendere in considerazione «future case-law of the Court of Justice of the European Union intervening after withdrawal» (Non paper, cit., punto 33). Circostanza, quest’ultima, che è invece esclusa dal Libro bianco e che di fatto ridimensiona la portata del vincolo costituito dal preesistente acquis giurisprudenziale.

 

Opzione B4: riconoscimento pieno della giurisdizione della Corte di giustizia.

Come si vede dall’analisi che precede, le differenti linee rosse tracciate dai protagonisti (diretti ed indiretti) della Brexit si sovrappongono dando vita ad un labirinto dal quale sembra complicato uscire.

Una via d’uscita, in realtà, ci sarebbe.

Paradossalmente, la soluzione sembra venire proprio dal riconoscimento in capo alla Corte di giustizia della giurisdizione sull’Accordo di recesso, ossia dall’opzione rispetto alla quale le posizioni delle Parti appaiono (al momento) inconciliabili. Ovviamente questa soluzione sarebbe pienamente in linea coi desiderata sin qui espressi dai rappresentanti dell’Unione. A ben vedere, però, essa potrebbe trasformarsi in un vantaggio anche per la piattaforma negoziale del Regno Unito.

I negoziatori britannici dovrebbero infatti ben sapere che la giurisprudenza della Corte di giustizia ha dimostrato di tenere (fin troppo) in considerazione la posizione del Regno Unito rispetto ad alcuni ambiti particolarmente “sensibili” del diritto dell’Unione: ci si riferisce, ovviamente, ai recenti orientamenti espressi dalla giurisprudenza relativamente all’accesso dei cittadini UE ai benefici sociali offerti dallo Stato membro ospite, che ben dimostrano – per usare un’espressione di Peers a commento della celebre sentenza nel caso Dano (causa C-333/13, analizzata da Costamagna in questo blog) – come i giudici di Lussemburgo «read the morning papers». Non è irrilevante ricordare, al riguardo, che la questione relativa ai diritti dei cittadini UE sarà senz’altro oggetto dei negoziati sull’Accordo di recesso, costituendone, di fatto, uno dei temi centrali.

In secondo luogo, occorrerebbe anche tenere conto che i rischi di judicial activism da parte della Corte di giustizia a scapito della riacquisita sovranità britannica dovrebbero essere, tutto sommato, limitati perché limitato sarà l’ambito di applicazione dell’Accordo di recesso e, di conseguenza, il suo contenuto. L’Accordo, vale la pena sottolinearlo ancora una volta, non definirà le future relazioni tra l’Unione ed il Regno Unito, limitandosi a regolamentare il processo di separazione tra le due entità e gli eventuali regimi transitori che ne deriveranno. Più precisamente, stando almeno alle indicazioni che si desumono dai documenti di lavoro a disposizione, esso dovrebbe disciplinare, come appena detto, i profili attinenti ai diritti dei cittadini europei, il c.d. Financial settlement (la cui quantificazione, evidentemente, non verrebbe certo rimessa al libero apprezzamento della Corte di giustizia) e le fattispecie non esauritesi all’entrata in vigore dell’Accordo di recesso ed ancora coperte dal diritto dell’Unione (importazioni/esportazioni di merci, investigazioni comuni ed altre forme di cooperazione giudiziaria e di polizia in essere, procedure amministrative e giurisdizionali innanzi ad istituzioni ed organi dell’Unione che coinvolgono il Regno Unito, ecc.). Coerenza e ragionevolezza vorrebbero che di tutti questi profili, fortemente connessi – se non addirittura integrati – col diritto dell’Unione, fosse chiamata a pronunciarsi la Corte di giustizia.

Sulle più ampie questioni che deriveranno dai rapporti futuri si apre invece una diversa prospettiva – qui non indagata ed ancora tutta da definire, tenuto conto dell’approccio ispirato ad una “Brexit ordinata” voluto dall’Unione – ma rispetto alla quale ha ragione Steve Peers quando afferma che «it would be unusual for the EU to insist on a third country (ie. the UK, in an agreement on a future UK–EU relationship) accepting the jurisdiction of the CJEU» (v. il punto 38 del Rapporto su «The Government’s negotiating objectives: the White Paper», cit., p. 20).

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Federico Casolari

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