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«Foreign direct liability claims» in Europa: sviluppi recenti e sfide future

Chiara Macchi, Scuola Superiore Sant’Anna

Questo post è stato selezionato mediante il call for papers pubblicato in occasione della XIV Edizione dell’Incontro di studio fra giovani cultori delle materie internazionalistiche “La sfida dei diritti umani per l’attività d’impresa. La prospettiva del diritto internazionale e dell’Unione europea”, tenutosi a Firenze il 23 aprile 2018.

  • Introduzione

Questo contributo compie una ricognizione dei recenti e importanti sviluppi relativi ai c.d. foreign direct liability claims promossi contro imprese transnazionali e le loro controllate estere nello Stato di domicilio della capogruppo, focalizzandosi in particolar modo sul panorama europeo. Mentre negli Stati Uniti l’applicabilità dell’Alien Tort Claims Act ai crimini d’impresa viene messa in discussione (v. Kiobel v Shell e Jesner v Arab Bank), cause innovative vengono intentate in altre giurisdizioni, tra cui il Canada (v. Choc v Hudbay) e alcuni Stati europei.

Gli esempi più significativi di questo tipo di azioni legali sono di seguito illustrati partendo dalla giurisprudenza inglese, che ha prodotto un importante precedente relativo al dovere di diligenza dell’azienda madre con la sentenza Chandler.

Il contributo si conclude con una riflessione sulle principali barriere che i ricorrenti devono fronteggiare nel promuovere questo tipo di cause; sui possibili incentivi avversi che potrebbero scaturire dall’affermazione giudiziale del duty of care dell’azienda madre e sulla possibilità, auspicata da molti, che l’attuale discussione di un trattato internazionale su imprese e diritti umani porti a un’affermazione giuridicamente vincolante del duty of care dell’azienda madre.

 

  • Il «duty of care» dell’azienda madre nella giurisprudenza inglese

Dagli anni ’90 in poi sono state promosse diverse cause nel Regno Unito fondate sul duty of care  della parent company per violazioni che erano avvenute nell’ambito delle operazioni di un’azienda affiliata (es. Connelly v RTZ;Lubbe v Cape; Ngcobo and others v Thor Chemicals Holdings Ltd). Questo tipo di cause non richiedono, come chiarito dalle corti inglesi, il sollevamento del velo societario stricto sensu (Chandler v Cape plc, 2012, par. 42, 69), in quanto si fondano su un’ipotesi di negligenza dell’azienda madre, che avrebbe dovuto vigilare sulla condotta delle proprie affiliate, anche se operanti in Paesi stranieri. Si cerca quindi di sancire la responsabilità dell’azienda madre per le proprieazioni od omissioni(tipicamente, il non aver adottato misure adeguate per prevenire il danno), non già di attribuirle quelle dell’impresa affiliata. Nonostante non esista in capo all’azienda madre, negli ordinamenti di common law, un obbligo generale di diligenza per danni inflitti da terze parti (es. una filiale), tale obbligo può emergere laddove si dimostri una «speciale relazione» fra le due aziende (Smith v Littlewoods, p. 15). Nella sentenza cardine Chandler, per la prima volta, un giudice ha riconosciuto l’esistenza del duty of care di un’azienda madre verso un impiegato dell’azienda controllata, che aveva contratto l’asbestosi a causa dell’esposizione a fibre di amianto. Per dimostrare l’esistenza di tale obbligo, il giudice ha guardato ad alcuni elementi caratterizzanti la relazione fra le due entità giuridiche, in particolare: il fatto che esse operassero essenzialmente nello stesso settore industriale e che l’azienda madre avesse una maggiore conoscenza di alcuni aspetti relativi alla salute e alla sicurezza in quel particolare settore; il fatto che l’azienda madre fosse consapevole del modo negligente e rischioso in cui la controllata gestiva le sue attività e che quest’ultima facesse affidamento sulle direttive dell’azienda madre e sulla sua superiore expertisein materia di salute e sicurezza (Chandler, par. 80).

Se il caso Chandlerriguardava due aziende operanti nel Regno Unito e nel medesimo settore, altre cause in corso riguardano aziende multinazionali e le loro controllate straniere. Fra i casi più recenti e interessanti spicca Lungowe v. Vedanta, nel quale la corte ha stabilito la sussistenza della giurisdizione inglese facendo riferimento, inter alia, al principio del forum necessitatis, uno sviluppo che il blog di Oxford University Press ha inserito fra i 10 più importanti del 2017 in materia di diritto internazionale. I ricorrenti cercano di dimostrare che la multinazionale britannica Vedanta ha infranto il proprio duty of carepermettendo alla controllata estera Konkola Copper Mines (KCM), operante in Zambia, di inquinare i corsi d’acqua tramite le sue attività estrattive, recando grave pregiudizio alle comunità residenti nell’area interessata. Il giudice d’appello, nella sentenza del 2017, ha permesso che l’azione proseguisse concordando col giudice di prima istanza sul fatto che i ricorrenti, in base ai precedenti inglesi, avessero prima facieuna reale prospettiva di successo (Lungowe, par. 66). La corte ha stabilito che la filiale zambiana potesse essere legittimamente chiamata a rispondere come co-convenuto nel processo contro Vedanta, in quanto le accuse mosse alle due compagnie si fondavano sugli stessi fatti e su simili principi di diritto (ivi, par. 99). Il giudice ha rigettato l’affermazione dei convenuti, tipicamente avanzata in questo tipo di cause legali, secondo cui l’azione contro l’azienda madre sarebbe stata intentata strumentalmente all’unico scopo di attrarre la filiale africana nella giurisdizione inglese (ivi, par. 96). Il giudice ha anzi puntualizzato come vi fosse un concreto rischio che la filiale straniera non avesse la possibilità o la volontà di far fronte a un eventuale obbligo di risarcimento, e che i ricorrenti avessero quindi un autonomo interesse ad agire contro la capogruppo della multinazionale (ivi).

Come accennato sopra, un altro aspetto interessante del caso Lungoweè il peso che i giudici hanno assegnato alla possibilità che i ricorrenti non avessero effettivo accesso alla giustizia in Zambia. Il giudice d’appello ha confermato la correttezza dell’approccio adottato dalla corte di prima istanza, che aveva elencato alcuni fattori fortemente indicativi di un rischio di diniego di giustizia nel paese di domicilio di KCM (ivi, par. 118-135). Fra questi c’erano l’indigenza dei ricorrenti e l’impossibilità di fatto di ottenere un aiuto finanziario o rappresentanza legale pro bonoin Zambia, non ultimo per l’assenza di avvocati sufficientemente preparati per questo tipo di contenziosi. Il giudice di prima istanza aveva concluso non solo che i ricorrenti avessero dimostrato l’esistenza di un «rischio reale», ma che, a suo parere, un diniego di giustizia in Zambia fosse «quasi certo» (ivi, par. 131). Il giudice aveva voluto puntualizzare come non rientrasse nelle sue competenze quella di criticare il sistema giuridico di un Paese straniero, ma che fosse suo compito concentrarsi sugli aspetti rilevanti per la causa in oggetto (ivi, par. 133).

 

  • Azioni recenti intentate in Paesi di civil law contro multinazionali del settore petrolifero

Al di fuori del Regno Unito, il panorama europeo non vanta molti esempi di foreign direct liability claims, con l’eccezione di alcuni casi recenti promossi in Paesi di civil law che tentano di far leva proprio sui precedenti inglesi. L’esempio più rilevante è costituito dall’azione intentata presso la Corte Distrettuale dell’Aja contro Royal Dutch Shell (RDS) e la sua controllata SPDC per l’inquinamento ambientale causato in Nigeria dalle fuoriuscite di petrolio dagli oleodotti del gruppo Shell (Dooh and Milieudefensie v. Royal Dutch Shell plc & SPDC). Poiché il diritto applicabile alla causa era quello nigeriano, che è un sistema di common law, la Corte ha costruito il suo ragionamento sulla base del precedente Chandler. Per la prima volta, una multinazionale olandese è stata chiamata a rispondere per un danno causato nell’ambito delle attività extraterritoriali di una filiale e il giudice ha riconosciuto la giurisdizione olandese su entrambe le aziende coinvolte. Sulla base del codice di procedura civile olandese, e similmente a quanto visto nel caso Lungowe, il giudice ha stabilito che SPDC fosse chiamata a rispondere come co-convenuta per ragioni di efficienza, in quanto le accuse mosse alle due compagnie si basavano sugli stessi fatti. La decisione è stata confermata dalla sentenza d’appello del 2015, emessa in seguito al ricorso intentato da tre dei quattro ricorrenti (Dooh and Milieudefensie, par. 3.7).Superato l’ostacolo giurisdizionale, i ricorrenti hanno tentato di dimostrare l’esistenza di un duty of care in capo all’azienda madre, facendo leva sul livello di integrazione del gruppo Shell e sulla centralizzazione delle sue politiche in materia di salute, sicurezza e ambiente, decise a livello dell’amministrazione della capogruppo e imposte alle controllate. La Corte, tuttavia, ha ritenuto che non esistesse prossimità sufficiente fra RDS e i ricorrenti. In questo caso, stabilire la responsabilità per negligenza delle due aziende veniva reso più complicato dal fatto che le fuoriuscite di petrolio fossero state causate da sabotaggi da parte di terzi. Diversamente dal caso Chandler, inoltre, che riguardava due aziende domiciliate nello stesso paese e operanti nello stesso settore, il caso contro Shell coinvolgeva una holding, RDS, che, a parere della Corte, si limitava a formulare linee politiche generali dalle sue sedi europee (Oguru, Efanga & Vereniging Milieudefensie v. Royal Dutch Shell plc & SPDC, par. 4.38). Non solo, quindi, non c’era ragione di sostenere che RDS avesse una conoscenza superiore dei rischi connessi all’estrazione di petrolio rispetto a SPDC, compagnia produttrice nigeriana, ma, secondo il giudice, affermare un obbligo di diligenza di RDS, che ha filiali in vari Paesi del mondo, avrebbe significato esporla a un numero non preventivabile di cause legali. Veniva meno, in conclusione, il criterio della «fairness», pilastro del test di Caparo nella common law inglese (Oguru et al., par. 4.36-4.39).

È interessante notare come nella sua pronuncia del 2015 la Corte d’Appello abbia ordinato a RDS di fornire accesso ad alcuni documenti interni che potrebbero chiarire il livello di conoscenza, interferenza e supervisione dell’azienda madre rispetto alla gestione degli oleodotti e dei relativi incidenti da parte della filiale nigeriana.

In Italia è attualmente in corso una causa contro la multinazionale Eni per danni ambientali provocati dalle fuoriuscite di petrolio in prossimità di un altro villaggio del Delta del Niger. I ricorrenti, che mirano ad affermare le responsabilità tanto dell’azienda madre quanto della filiale nigeriana, si trovano ad affrontare molti degli aspetti critici sotto esame nel caso Shell e in altre azioni pendenti nel Regno Unito. Nell’udienza tenutasi nell’aprile 2018, il giudice non si è pronunciato esplicitamente in merito alla questione giurisdizionale. Se la causa proseguisse di fronte al giudice italiano, in base al Reg. (CE) n. 864/2007 il diritto applicabile sarebbe quello nigeriano, e quindi verrebbe in rilievo il concetto di duty of care dell’azienda madre come definito dai precedenti di common law inglese.

 

  • Riflessioni conclusive

Le innovative cause intentate in vari Stati europei contro imprese multinazionali nello Stato di domicilio dell’azienda madre si inseriscono nel quadro di una più ampia riflessione, a livello internazionale, circa le responsabilità e gli obblighi della parent company per violazioni ambientali e dei diritti umani che hanno luogo nell’ambito delle operazioni globali di questi colossi economici. Occorre innanzitutto sottolineare la portata per ora limitata di questo tipo di azioni, che hanno fatto leva, laddove applicabile, sul principio di common law inglese del duty of care.

In secondo luogo, si deve osservare che, se molte delle difese che tipicamente i convenuti sollevano in questo tipo di cause sono state rigettate dai giudici negli esempi considerati (ad es. l’accusa ai ricorrenti di aver tentato di abusare le norme procedurali), permangono varie difficoltà per i ricorrenti. Tra queste, gli alti costi (si veda questa analisi relativa al contesto britannico), le difficoltà ad ottenere informazioni dettagliate circa i reali rapporti tra impresa madre e impresa controllata – punto cruciale, sul quale si gioca l’esito delle accuse di negligenza mosse alla prima –, la possibilità che il giudice competente sollevi questioni di litispendenza (sulla base del Reg. (UE) n. 1215/2012) e comity internazionale ove siano state intentate parallele azioni legali nel paese di domicilio della filiale straniera. È vero che, nel contesto europeo, la sentenza della Corte di Giustizia dell’UE nel caso Owusu c. Jackson rende verosimilmentepiù difficile, per un co-convenuto non domiciliato in uno Stato membro, invocare la dottrina del forum non conveniens (tipica dei sistemi di common law) quando l’altro convenuto sia domiciliato in uno Stato membro (Lungowe, par. 113). In Owusula Corte ha dichiarato la dottrina – in base alla quale le corti degli Stati di common law hanno spesso declinato la giurisdizione invocando l’esistenza di un foro più appropriato in un altro Stato – incompatibile con la Convenzione di Bruxelles (poi sostituita dal Regolamento omonimo) rispetto a convenuti domiciliati in uno Stato contraente. La decisione della Corte limita quindi l’applicabilità del forum non conveniensquando almeno uno dei co-convenuti sia domiciliato in uno Stato membro. Per quanto concerne il Regno Unito, tuttavia, occorre interrogarsi sui possibili effetti di Brexit sulla disciplina della giurisdizione che potrebbe configurarsi dopo l’effettiva uscita del paese dall’UE, e che potrebbe riportare in auge la dottrina del forum non conveniens in casi di violazioni commessi all’estero dalla filiale straniera di una multinazionale inglese.

Peraltro, le difficoltà che si incontrano nello stabilire le responsabilità della parent company di gruppi integrati di imprese è stata sottolineata dall’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA) nella sua Opinion del 2017 sul tema dell’accesso ai rimedi nell’UE per violazioni che avvengono nell’ambito delle attività d’impresa. La FRA propone di stabilire a livello europeo uno standard comune di evidenza probatoria al di sopra del quale sia presunta l’esistenza di controllo o influenza da parte dell’azienda madre su un’impresa affiliata o partner ai fini della responsabilità civile, trasferendo, in quei casi, l’onere della prova dal ricorrente al convenuto. Incoraggia, inoltre, l’UE a promuovere un’armonizzazione delle condizioni alle quali il principio del forum necessitatispossa essere applicato negli Stati membri di fronte al rischio di diniego di giustizia quando i convenuti siano domiciliati in Stati terzi (FRA, Opinion, pp. 7-8).

Infine, la FRA, in linea con alcune importanti iniziative promosse in tal senso a livello nazionale (es. quellelegislative in Francia e Svizzera in tema di supply chain due diligence) ed europeo, propone l’elaborazione da parte dell’UE di regole vincolanti circa gli obblighi di due diligence dell’azienda madre rispetto alle attività delle imprese affiliate (FRA, Opinion, p. 17). Questo sforzo di regolamentazione sembra quanto mai auspicabile alla luce del possibile “chilling effect” che l’affermazione giudiziale del duty of care dell’azienda madre potrebbe avere sui rapporti fra capogruppo e controllate delle grandi imprese multinazionali. Laddove, infatti, l’obbligo di diligenza venga stabilito unicamente per via giudiziale sulla base di criteri analoghi a quelli del caso Chandler (quindi, in gran parte, in base al livello di interferenza dell’azienda madre nelle attività delle controllate), non si può trascurare la possibilità che si inneschi un disincentivo per la parent company ad intervenire nelle operazioni e nelle pratiche di aziende ad essa connesse. Tale disincentivo potrebbe operare anche in materia di salute, sicurezza, diritti umani, ambiente, ecc., rischiando di vanificare gli sforzi prodotti a livello internazionale per affermare il dovere di due diligence delle capogruppo.

Tutti questi temi sono centrali anche nel dibattito internazionale relativo alla possibile adozione di un trattato vincolante su imprese e diritti umani, in discussione presso il Consiglio dei Diritti dell’Uomo dell’ONU dal 2014. La necessità di migliorare l’accesso ai ricorsi giurisdizionali per vittime di violazioni avvenute nell’ambito delle attività transnazionali d’impresa nei paesi di domicilio delle multinazionali è una delle priorità per il Gruppo Intergovernativo di Lavoro che sta esaminando i possibili contenuti del nuovo strumento. Anche se al momento non è chiaro quale forma tali contenuti assumeranno, è interessante notare come il Gruppo Intergovernativo abbia inserito tra gli elementi fondamentali da affrontare nel corso dei negoziati la necessità di ridurre le barriere giurisdizionali, giuridiche e pratiche che ostacolano l’accesso ai rimedi giudiziali, incluse quelle riguardanti l’accesso alle informazioni rilevanti e alla dottrina del forum non conveniens.

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Chiara Macchi

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