diritto internazionale pubblico

Organizzazioni internazionali e immunità ristretta per relationem secondo una recente decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti

Nicola Colacino, Università degli Studi “Niccolò Cusano”

Il tema dell’immunità giurisdizionale delle organizzazioni internazionali torna centrale in una recente decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America sul caso Jam et al. v. International Finance Corporation (per ulteriori commenti v. qui e qui). La Corte, con la sola eccezione del dissenting J. Breyer, ha stabilito che, nell’ordinamento giuridico statunitense, alle organizzazioni internazionali deve essere riconosciuta un’immunità dalla giurisdizione interna corrispondente a quella goduta dagli Stati, in forza del rinvio operato dall’International Organizations Immunities Act  (IOIA) alle condizioni di trattamento già in vigore nei confronti dei Governi stranieri: la legge, approvata nel 1945, prevede, infatti, che le organizzazioni godano della «same immunity from suit and every form of judicial process as is enjoyed by foreign governments» (22 U.S.C., par. 288a(b)). Con la conseguenza che, essendo ormai pacificamente accolta nella legislazione statunitense di cui al Foreign Sovereign Immunities Act ( FSIA), la regola della cd. immunità ristretta, il rinvio anzidetto impone di ritenere applicabile la medesima regola anche nei confronti delle organizzazioni internazionali.

Il caso deciso dalla Suprema Corte coinvolge la International Finance Corporation (IFC), un’organizzazione internazionale appartenente al World Bank Group con sede a Washington, che finanzia iniziative private nelle aree meno sviluppate dei Paesi membri. La IFC era stata citata in giudizio da un gruppo di pescatori, agricoltori e abitanti di un villaggio del Gujarat, in India, per il risarcimento dei danni ambientali causati da una centrale elettrica realizzata grazie ai contributi dell’organizzazione. I ricorrenti avevano contestato all’IFC la mancata vigilanza sul rispetto dei Performance Standards on Environmental and Social Sustainability, un corpus di regole più rigorose di quelle stabilite della legislazione locale, imposte in via contrattuale ai destinatari del finanziamento e soggette a un meccanismo di valutazione interno alla stessa organizzazione.

Innanzi alla District Court del D.C. Circuit la condotta dell’IFC era stata giudicata insindacabile per effetto del riconoscimento di un’immunità giurisdizionale piena, corrispondente a quella goduta dai Governi stranieri al tempo dell’entrata in vigore della IOIA. Secondo la Corte distrettuale, il criterio di rinvio contenuto nella legge sull’immunità delle organizzazioni internazionali doveva essere interpretato alla luce delle sue finalità originarie, senza, pertanto, attribuire rilievo apprezzabile all’interpretazione evolutiva dall’istituto in argomento promossa medio tempore in sede giurisprudenziale.

Sul punto, la stessa sentenza della Corte Suprema ricorda come fino al 1952 la regola accolta nell’ordinamento statunitense fosse quella classica, in base alla quale i Governi stranieri erano considerati «entitled to “virtually absolute” immunity as a matter of international grace and comity» (p. 3). In quell’anno, il Dipartimento di Stato (il cui orientamento in materia era generalmente fatto proprio dalle Corti federali, pur essendo espresso in forma di raccomandazione), in una nota lettera a firma del consigliere giuridico J. B. Tate indirizzata al Procuratore generale dichiarò di voler aderire al più recente indirizzo affermatosi sul piano internazionale, considerato il crescente coinvolgimento dei Governi stranieri in attività di carattere commerciale, rispetto al quale sorgeva l’esigenza di assicurare alle controparti private un’adeguata tutela giurisdizionale.

Il nuovo orientamento seguito dal Dipartimento di Stato venne recepito dalle Corti federali, che tuttavia, fino alla codificazione della materia intervenuta nel 1976, continuarono a richiedere indicazioni preventive all’esecutivo. Con l’entrata in vigore della FSIA, la «primary responsibility for immunity determinations» venne infine formalmente trasferita «from the Executive to the Judicial Branch» (così la Corte Suprema nella decisione sul caso Republic of Austria v. Altmann, del 2004, a p. 12).

Le determinazioni della Corte distrettuale non paiono, in effetti, adeguate al tenore letterale della norma di rinvio, che salda l’ambito materiale di operatività dell’immunità riconosciuta alle organizzazioni internazionali a quello dell’immunità riconosciuta ai Stati stranieri, implicitamente assegnando al vincolo di corrispondenza così delineato il carattere di un rinvio mobile.

È difficile sostenere, infatti, che ai fini dell’odierna corretta esegesi della formula letterale utilizzata nella IOIA non si debba tener conto delle vicende che hanno caratterizzato, in senso restrittivo, la qualificazione del contenuto dell’immunità riconosciuta agli Stati stranieri. Un’interpretazione di questo genere si porrebbe in contrasto con l’unico dato normativo a disposizione dell’interprete, vale a dire il criterio di corrispondenza tra l’immunità riconosciuta alle organizzazioni e ai Governi stranieri stabilito dalla IOIA. Sicché, affermare oggi che le organizzazioni internazionali godono dell’immunità assoluta in ossequio al criterio in argomento significherebbe affermare che le organizzazioni internazionali non godono della medesima immunità riconosciuta ai Governi stranieri.

Ha buon gioco, pertanto, la Corte Suprema a censurare tale interpretazione e a opporre una lettura più fedele al tenore della norma di rinvio, allo scopo di modellare il contenuto dell’immunità riconosciuta alle organizzazioni su quello già disegnato dalla FSIA per gli Stati stranieri. L’ortodossia del «“reference” canon» applicato nella circostanza impone, infatti, di accertare il contenuto e i limiti dell’immunità giurisdizionale riconosciuta agli Stati stranieri nel momento in cui la questione (rispetto alla quale l’immunità delle organizzazioni viene in contestazione) è sorta e non in quello in cui la norma di rinvio è stata adottata. Per avvalorare tale interpretazione, la Corte si premura di richiamare alcune previsioni legislative dal contenuto analogo a quello della norma oggetto di scrutinio. In ogni caso, il suo ragionamento appare chiaro e difficilmente confutabile: se il legislatore del 1945 avesse inteso riconoscere alle organizzazioni internazionali un’immunità dalla giurisdizione di carattere assoluto, duraturo e insuscettibile di diverso apprezzamento, lo avrebbe affermato in modo esplicito, senza legarne le sorti a quella riconosciuta ai Governi stranieri.

Per le medesime ragioni, la Corte Suprema ritiene di dover rigettare l’argomentazione sostenuta dalla difesa della IFC, secondo cui le immunità riconosciute alle organizzazioni internazionali e agli Stati stranieri non potrebbero essere messe in correlazione tramite un mero rinvio formale poiché, nei due casi, il medesimo istituto persegue finalità differenti, tra loro non fungibili. A parere della Corte, una simile obiezione non può trovare accoglimento, dal momento che il reference canon, in sé considerato, non impone, e anzi prelude, all’interprete indagini ulteriori riguardo al diverso contenuto o allo scopo perseguito dall’immunità nei confronti degli Stati e delle organizzazioni. Assumendo, infatti, che «absent a clearly expressed legislative intention to the contrary, […] the legislative purpose is expressed by the ordinary meaning of the words used», l’intenzione manifestata dal legislatore nella fattispecie è tutta racchiusa nell’instaurazione del descritto nesso di corrispondenza tra le due forme di immunità giurisdizionale. Ogni diverso elemento di valutazione deve, quindi, ritenersi estraneo alla lettera della legge e, come tale, non può contribuire alla formazione del convincimento della Corte. Qualsiasi approfondimento condotto sul piano giudiziale allo scopo di valorizzare elementi diversi dal dato testuale finirebbe, infatti, per tradire il rigore semantico del nesso tra le due discipline stabilito dal legislatore.

Sennonché, la decisione della Corte, nella sua intransigente linearità, non sfugge ad alcuni rilievi critici, che trovano parziale conferma nelle argomentazioni dell’opinione dissenziente. Ciò non tanto in ragione del suo esito – certamente non inedito se messo a confronto con la giurisprudenza, anche risalente, di altre corti nazionali (com’è il caso della Corte di Cassazione italiana, che nella nota sentenza n. 5399/1982 sul caso I.n.p.d.a.i. c. FAO aveva affermato la piena applicabilità anche alle organizzazioni delle regole internazionali sull’immunità elaborate per gli Stati; per un approfondimento cfr. B. I. Bonafè Italian Courts and the Immunity of International Organizations, in N. Blokker, N. Schrijever (eds.), Immunity of International Organizations, Brill, 2015, pp. 246-278, in particolare p. 252 ss.) – quanto piuttosto dell’impianto deduttivo che lo sorregge, deliberatamente limitato e tutto rivolto a sostenere l’autosufficienza del reference canon. Animata da un simile intento, la Corte trascura di interrogarsi sulla peculiare natura soggettiva e sul fondamento delle attribuzioni delle organizzazioni internazionali e, in ragione di queste, sull’effettiva mutuabilità della regola dell’immunità ristretta per come originariamente concepita, vale a dire sulla sua attitudine a essere applicata direttamente e senza alcun adattamento formale in un ambito operativo diverso da quello in cui essa si è sviluppata. La pretesa neutralità del criterio utilizzato dalla Corte Suprema per sostenere, anche nei confronti delle organizzazioni internazionali, il superamento della concezione assoluta dell’immunità giurisdizionale finisce, così, per… neutralizzare il rilievo che pure dovrebbe essere assegnato agli elementi distintivi di tale categoria di enti rispetto a quella degli Stati.

È appena il caso di osservare che, nella valutazione delle legittime condizioni di esercizio della giurisdizione interna sugli atti delle organizzazioni, il carattere non originario e non generale delle relative attribuzioni viene certamente in rilievo. Sembra difficile ritenere, infatti, che la suddivisione tra acta iure imperii e iure privatorum su cui la regola dell’immunità ristretta è fondata sia adattabile indifferentemente alla condizione degli Stati e a quella delle organizzazioni, posto che, per queste ultime, sono le finalità istitutive, variabili per definizione, a tracciare i confini della potestà pubblicistica loro riconosciuta.

In buona sostanza, ove si intenda ricondurre il fondamento dell’immunità giurisdizionale delle organizzazioni a una regola di diritto generale (nonostante la minore propensione delle corti nazionali verso tale orientamento: cfr. C. Ryngaert, Immunity of International Organizations Before Domestic Courts: Recent Trends, in Int. Org. Law Rev., 2010, pp. 121-148, in particolare 123 ss.), questa dovrebbe essere riferita al principio di necessità funzionale, anziché a quello dell’insindacabilità degli atti sovrani compiuti da enti superiorem non recognoscentes (chiarisce sul punto R. Higgins, Problems and Process: International Law and How We Use It, Oxford, Clarendon Press, 1994, p. 93 che «[t]he relevant test under general international law is whether an immunity from jurisdiction to prescribe is necessary for the fulfilment of the organization’s purposes» – interrogativo il quale «cannot be answered by reference to whether it was, in respect of the matter under litigation, acting ‘in sovereign authority’ or ‘as a private person’»).

Pertanto, pur in presenza di un chiaro riferimento normativo atto a sancire il collegamento tra la disciplina dell’immunità delle organizzazioni e quella degli Stati, la mera traslazione della fattispecie in argomento in sede applicativa senza alcuna puntualizzazione o ricalibratura rappresenta, a suo modo, una forzatura interpretativa, suscettibile di incidere in concreto sull’autonomia riconosciuta alle organizzazioni nella gestione delle competenze loro assegnate in via statutaria – che altro non è, a ben vedere, che la loro stessa «sovranità», ossia l’ambito materiale riservato all’interno del quale esse sono legittimate all’esercizio di poteri e prerogative riconducibili all’esplicazione delle finalità che ne hanno determinato l’istituzione.

Può affermarsi, in altri termini, che la regola dell’immunità ristretta, ormai stabilmente accolta sul piano consuetudinario nei confronti degli Stati e codificata nella Convenzione di New York del 2004, non si presta a essere estensivamente applicata alle organizzazioni internazionali in assenza di opportune modulazioni, a tacer d’altro perché, per talune organizzazioni (come nel caso di specie), proprio l’attività svolta in ambito commercial-privatistico rappresenta la ragion d’essere della loro istituzione, sebbene la Corte non manchi di interrogarsi sull’effettiva riconducibilità dell’attività di finanziamento con finalità di aiuto allo sviluppo alla nozione di «attività commerciale» accolta nella FSIA. Sicché, in tali casi, la legittimazione dei tribunali nazionali a conoscere dei (e, quindi, a esercitare la propria giurisdizione sui) rapporti giuridici ad esse facenti capo dovrà fondarsi su un criterio diverso, idoneo a preservare l’esercizio delle competenze loro assegnate dall’accordo istitutivo da possibili interferenze.

In proposito, la decisione della Corte Suprema pone giusta enfasi sulla circostanza che l’estensione della disciplina sull’immunità ristretta alle organizzazioni non implica necessariamente l’esercizio della giurisdizione interna nei loro confronti, residuando in capo al giudice un margine di valutazione discrezionale più o meno ampio in base al caso concreto. Al contempo, la Corte si mostra convinta nel sostenere l’opportunità di dotare le organizzazioni, in sede statutaria, dello schermo dell’esenzione assoluta, così da semplificare il compito delle corti nazionali, chiamate a declinare la propria giurisdizione senza ulteriori formalità. Si tratta, invero, di due passaggi piuttosto significativi, tendenti a controbilanciare, su piani diversi, gli effetti restrittivi sull’autonomia negoziale (e non solo) delle organizzazioni prodotti dalla decisione. Non convince, tuttavia, l’impostazione di fondo della pronuncia, che considera la regola dell’immunità ristretta, nella sua attuale configurazione, come una clausola generale sussidiaria utilizzabile nei casi in cui lo statuto o altro atto regolativo dei rapporti di cui l’organizzazione è titolare nulla dispongano.

Come ricordato in apertura, l’opinione dissenziente del giudice Breyer si pone in aperta contestazione dell’interpretazione accolta dalla maggioranza. Muovendo da una critica all’autosufficienza del reference canon («[l]anguage alone cannot resolve the statute’s linguistic ambiguity»), ossia alla sua attitudine a stabilire con ragionevole certezza il tempo al quale la norma di rinvio fa effettivamente riferimento, posto che le parole da essa utilizzate («as is enjoyed») non chiariscono in modo definitivo… «when enjoyed», vale a dire se «at the time of the statute’s enactment», ovvero «at the time a plaintiff brings a lawsuit», Breyer giunge a sostenere l’inapplicabilità della regola dell’immunità ristretta nei confronti delle organizzazioni, per ragioni di inadeguatezza sostanziale e, precisamente, per i condizionamenti sull’esercizio delle relative attività che essa è in grado di determinare. Tuttavia, se su tali timori può senz’altro convenirsi, l’opinione secondo cui l’operatività della norma di rinvio sia da ricondurre alle condizioni vigenti al momento della sua codificazione non pare anch’essa da condividere. Come chiarito in precedenza, infatti, essa determina, quale effetto rilevabile a contrario, la rottura del vincolo di corrispondenza originariamente stabilito dal legislatore del 1945.

Per chi scrive, sembra corretto sostenere, quindi, che il vincolo anzidetto debba essere attualizzato, a condizione, però, che la nozione di immunità ristretta sia opportunamente modulata sulla natura giuridica e sull’agere delle organizzazioni internazionali. Il che si traduce nell’esigenza di definire il contenuto della «sfera pubblica» dell’organizzazione, sia, in astratto, tramite la rilevazione in sede normativa (sulla scorta della codificazione già realizzata per l’immunità degli Stati) del nucleo di attribuzioni e poteri nell’ambito del quale, anche in assenza di un’espressa indicazione statutaria, l’azione dell’organizzazione è libera e non può formare oggetto di sindacato giurisdizionale in sede domestica (ciò concretandosi in un’interferenza nell’esercizio di funzioni riservate), sia, all’occorrenza, tramite l’accertamento in concreto del contenuto delle specifiche prerogative «sovrane» e di quelle strumentali riconosciute ai singoli enti anche in base alla prassi di funzionamento dei rispettivi organi. È possibile, peraltro, che il complesso delle attribuzioni e dei poteri riconducibili agli ambiti sopra descritti finisca per coincidere con l’intera gamma degli atti (produttivi di effetti idonei a riverberarsi nella sfera giurisdizionale degli Stati) a disposizione dell’organizzazione. In tal caso, l’auspicato riconoscimento dell’esenzione assoluta dalla giurisdizione interna verrebbe a realizzarsi in via di fatto, all’esito di un’utile ricognizione destinata a contribuire allo sviluppo del diritto internazionale in materia.

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