diritto internazionale pubblico

NESSUNA SPERANZA SENZA COLLABORAZIONE PER I CONDANNATI ALL’ERGASTOLO OSTATIVO? UN PRIMO COMMENTO A VIOLA c. ITALIA

Diego Mauri, Università degli Studi di Firenze

Lo scorso 13 giugno 2019, la Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti: Corte EDU) ha reso la propria decisione nel caso Viola c. Italia (ricorso n. 77633/16), con una sentenza che molti attendevano e in quale avevano riposto – non ingiustamente, dati gli esiti – una forte aspettativa. Ciò per un duplice ordine di ragioni.

In primo luogo, si tratta del primissimo caso in cui, a costituire oggetto del sindacato dei giudici di Strasburgo, è stata la normativa italiana in materia di ergastolo c.d. ostativo (ai sensi degli artt. 22 codice penale – c.p., 4-bis e 58-ter legge sull’ordinamento penitenziario – o.p.), istituto che impedisce, ai condannati per determinati reati, la concessione di gran parte dei benefici previsti dalla legge, se in assenza di una loro effettiva “collaborazione” con la giustizia (v. amplius Dolcini). Mentre la Corte già si era pronunciata sull’ergastolo c.d. comune, escludendone ogni profilo di censura rispetto all’art. 3 CEDU (v. i casi Garagin c. Italia [dec.], ricorso n. 33290/07, 29 aprile 2008; Scoppola c. Italia [dec.], ricorso n. 10249/03, 8 settembre 2005), nel caso qui in commento la soluzione raggiunta è di segno diametralmente opposto, essendo stata rinvenuta proprio la violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti. L’esito, dunque, non era affatto scontato.

In secondo luogo, è ad oggi pendente, avanti la Corte Costituzionale, a seguito di ordinanza di rimessione n. 4474 del 20 novembre 2018 della Corte di Cassazione (su cui v. qui), una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto proprio le norme sopra richiamate: insomma, la pronuncia del giudice convenzionale costituisce un dato con cui il giudice delle leggi si troverà, inevitabilmente, a fare i conti nel decidere sulla questione. L’attesa, dunque, si carica nuovamente di aspettative. E proprio in ragione della futura pronuncia della Corte Costituzionale, lo scopo di questo contributo è offrire alcuni spunti di riflessione, con particolare riferimento a due passaggi chiave del ragionamento seguito dalla Corte EDU che, senza dubbio, accenderanno, nei prossimi mesi, numerosi dibattiti.

Prima di tutto, i fatti. Il ricorrente, Marcello Viola, essendo stato ritenuto colpevole di diversi, gravi reati (associazione per delinquere di stampo mafioso, aggravata dalla qualità di promotore e organizzatore ex art. 416-bis c.p., nonché omicidio aggravato dal metodo mafioso), è stato condannato in via definitiva, nel dicembre 2008, alla pena complessiva dell’ergastolo con isolamento diurno per anni due e mesi due (con riguardo ai processi di cognizione, il lettore troverà maggiori dettagli ai §§ 8-13 della sentenza), peraltro espiata, sino al marzo 2006, in regime di c.d. “carcere duro” ex art. 41-bis o.p..

Dopo aver richiesto permessi premio, per due volte (2011 e 2013) e senza successo, il ricorrente domanda, nel marzo 2015, la liberazione condizionale ex art. 176 c.p., adducendo la propria professione di innocenza rispetto ai fatti per cui è stato condannato: nel proprio intimo, egli non si ritiene colpevole di alcunché. Ma, come si è detto, trattandosi di ergastolo ostativo, per accedere al suddetto beneficio gli artt. 4-bis e 58-ter o.p. pongono una condizione irrinunciabile: la collaborazione con la giustizia. Viola, insomma, deve dimostrare di aver rotto ogni legame con le cosche mafiose locali (legame che, però, nel suo intimo, non… esiste); anzi, bene farebbe pure a indicare alle autorità competenti nomi e fatti oggetto di indagini (nomi e fatti che, però, nel suo intimo, non… conosce). Dal punto di vista del Viola, insomma, tale collaborazione è… impossibile o, rectius, se attuata, si ridurrebbe a pura farsa. Ecco che allora chiede, al competente Tribunale di sorveglianza, di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, co. 1, o.p., per contrasto con l’art. 27, co. 3, Cost. (che sancisce il principio della finalità rieducativa della pena) e con l’art. 117, co. 1, Cost., per contrasto con il parametro interposto costituito proprio dall’art. 3 CEDU. Dal giudice di sorveglianza arriva un secco niet: non rileva in alcun modo una professione di innocenza svolta nella fase di esecuzione della pena; o Viola collabora, o addio benefici. La Cassazione, nel 2016, conferma in toto tale statuizione.

Prende così avvio il contenzioso a Strasburgo, in cui il Viola, nella veste di ricorrente, si duole di diverse violazioni di disposizioni della CEDU, tra cui gli artt. 3, 5 par. 4, 6 par. 2, e 8: di queste, al momento della comunicazione al Governo italiano solo la prima e l’ultima saranno dichiarate ricevibili, mentre sarà poi la Corte – “maîtresse de la qualification juridique des faits de la cause” (cfr. Viola, cit., § 54) – a decidere di esaminare i fatti unicamente sotto l’angolo prospettico dell’art. 3 CEDU. Da segnalare sin d’ora la presenza di ben tre terzi intervenienti: “L’altro diritto onlus” (Università di Firenze), il Réseau européen de recherche et d’action en contentieux pénitentiaire (nota ONG) e un gruppo di accademici ed esperti riuniti sotto il coordinamento dell’Università degli Studi di Milano, le cui deduzioni, come si vedrà, assumono un peso non indifferente nell’economia complessiva della decisione.

Il ragionamento seguito dalla Corte EDU offre l’occasione di riflettere su due snodi decisivi ai fini della decisione finale, strettamente connessi e suscettibili, entrambi, di proiettarsi ben oltre il perimetro del caso concreto.

Il primo riguarda l’estensione delle garanzie di cui all’art. 3 CEDU. Con la sentenza in commento, la Corte EDU aggiunge un ulteriore – e importante – tassello alla propria giurisprudenza (in realtà poco più che decennale) in materia di pena perpetua, la c.d. “fine pena: mai”. L’angolo visuale, come si è detto, è quello dell’art. 3 CEDU, e segnatamente del divieto di trattamenti inumani e degradanti. Ma sotto quale profilo tale garanzia si assume violata? Un punto preliminare deve essere chiaro: non è la pena perpetua in sé ad essere in contrasto con l’art. 3 CEDU; anzi, lo Stato gode di un ampio margine di apprezzamento in materia di politica criminale, e ben può prevedere, per certe categorie di reati, detta pena: lo insegna la Corte sin dal primissimo caso in materia, Kafkaris c. Cipro ([GC], ricorso n. 21906/04, 12 febbraio 2008). Problemi di compatibilità sorgono, semmai, quando il trattamento penitenziario associato alla pena perpetua impedisce, da un lato, l’accesso, sia de jure che de facto, a meccanismi di riduzione del residuo di pena espianda, e, dall’altro, la possibilità di ricorrere a meccanismi di riesame dei progressi compiuti dal condannato nel processo di espiazione della pena. Questo è il nocciolo delle affermazioni della Corte in Vinter e altri c. Regno Unito ([GC], ricorsi nn. 66069/09 e altri, 9 luglio 2013, §§ 103-122), vero e proprio leading case in materia – tant’è che la Corte stessa, in Viola, si limita a richiamare il precedente per la ricostruzione dei principi applicabili in materia (§ 92). Gli aspetti di cui sopra si atteggiano come le due proverbiali facce della stessa medaglia: l’una, infatti, presuppone (e si spiega a partire dal) l’altra.

Quanto al primo, con estrema semplificazione, il “fine pena: mai” è incompatibile con la CEDU, a meno di consentire, in concreto, la concessione di benefici penitenziari “strada facendo”. La concezione “rieducativa” della pena (sancita, a livello universale, dall’art. 10, par. 3, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, ai sensi del quale “[t]he penitentiary system shall comprise treatment of prisoners the essential aim of which shall be their reformation and social rehabilitation”) e la c.d. “progressività di trattamento” nell’esecuzione penale sono aspetti fondamentali nell’ottica della CEDU, al punto che lo stesso modello italiano dell’ergastolo comune è stato, a più riprese, considerato come esemplare dalla Corte (si v. ad es. Vinter, cit., §§ 69-72 e 117).

Quanto al secondo, è bene aggiungere che la giurisprudenza convenzionale ha ulteriormente specificato i requisiti affinché i suddetti meccanismi siano compatibili con l’art. 3 CEDU (cfr. ad es. Murray c. Paesi Bassi [GC], ricorso n. 10511/10, 26 aprile 2016, in part. §§ 99-100), imponendo che questi: (i) siano regolati da una legge chiara ed accessibile; (ii) tengano conto delle istanze di reinserimento sociale; (iii) siano accessibili a partire da non oltre 25 anni dall’inizio dell’espiazione, e siano attivabili su base periodica; (iv) siano assistiti da adeguate garanzie processuali (es. revisione giudiziale in caso di diniego).

Guardando un poco più in profondità, ecco che è dato scorgere il vero volto del “diritto” rinvenuto dalla giurisprudenza (forse… creatrice?) della Corte: quello di avere una possibilità reale di reinserimento nella società (“chance réelle de se réinserer”: cfr. Viola, cit., § 113). Gli studiosi anglofoni si riferiscono talora al diritto in questione come “right to parole” (così Hutchinson c. Regno Unito ([GC], ricorso n. 57592/08, 17 gennaio 2017, Dissenting Opinion of Judge Pinto de Albuquerque, § 4; per un’analisi a tutto tondo sotto il profilo del diritto internazionale, v. Mujuzi). Attenzione, però, a non incorrere in equivoci: non esiste un diritto a essere reinseriti nella società tout court (“the Convention does not guarantee, as such, a right to rehabilitation”: Harakchiev e Tolumov c. Bulgaria, ricorsi nn. 15018/11 e 61199/12, 8 luglio 2014, § 264); ciò che l’art. 3 CEDU richiede agli Stati è, invece, di offrire ai condannati a una pena perpetua “a chance, however remote, to someday regain their freedom” (ivi). E, si badi, il condannato deve sapere fin dall’inizio (“at the outset of his sentence”: cfr. Vinter, cit., § 122) quando, e a quali condizioni, potrà accedere al meccanismo di revisione. Come chiamare questo diritto? Con un’espressione di indubbio impatto, anche emotivo, si potrebbe chiamarlo, come già molti fanno,diritto alla speranza” (v. Dzehtsiarou; Pinto de Albuquerque; Galliani).

Torniamo alla vicenda del Viola. Egli, oltre a disporre dei meccanismi di cui sopra, sa benissimo, e sin dall’inizio, quando e come maturerà le condizioni per accedere al progressivo abbattimento del carico edittale: la “speranza” di riacquistare, un giorno, la libertà non gli è in alcun momento negata. Eppure – e questo è l’aspetto innovativo della presente vicenda rispetto ai molti precedenti, fatta eccezione per un fugace obiter dictum in Trabelsi c. Belgio (ricorso n. 140/10, 4 settembre 2014, § 134) – la “seule option ouverte” (Viola, cit., § 99) per il ricorrente, affinché tale speranza divenga realtà, è la collaborazione con le autorità. Ricordiamolo: se non collabori, niente benefici. Qui la Corte prende atto degli argomenti del Governo: la scelta di collaborare è rimessa al singolo ergastolano, “artisan de son destin” (ivi, § 114). Homo faber fortunae suae, insomma. La Corte prende nota, però, anche degli argomenti del ricorrente (e in parte dei terzi intervenienti; cfr. ivi, § 117): collaborare significa non solo silenziare la propria coscienza, nella misura in cui il condannato si creda innocente, ma anche, in certi casi, rischiare di esporre sé e altri cari a possibili ritorsioni (ivi, §§ 67-70). Ciò spinge la Corte a “dubitare” della libertà effettiva della scelta di collaborare (“La Cour en deduit que le défaut de collaboration ne saurait être toujours lié à un choix libre et volontaire”, ivi, § 118): può darsi che chi non collabori, in realtà, lo stia facendo unicamente per le ragioni appena esposte. Ma se così è, subordinare a una collaborazione “impossibile” o “inesigibile” la maturazione dei benefici, la possibilità di un riesame effettivo dei progressi (limitandosi il Tribunale di sorveglianza, come imposto dalla legge, a verificare l’an della collaborazione, in assenza della quale è tenuto al rigetto dell’istanza di benefici) e, in ultima analisi, la speranza in un “riscatto” (§ 127), equivale a introdurre una presunzione assoluta di pericolosità e costituisce un ostacolo de facto alla riducibilità della pena, in assenza di (possibili) ragioni giustificatrici. In altre parole, viola l’art. 3 CEDU lo Stato italiano che, con una mano, offre al Viola la speranza di ritornare in società e, con l’altra compie il gesto di richiedere una collaborazione che implica di sacrificare quanto di più prezioso: le convinzioni più intime o gli affetti più cari.

Tale ultimo passaggio merita una precisazione. A dispetto dell’opinione dissenziente espressa, nel caso in esame, dal giudice Wojtyczek (in particolare al § 7, secondo cui “[l]a motivation du présent ârret laisse entendre que la resocialisation devient le seul but légitime de la peine”), forse troppo inclemente nei confronti della maggioranza, la Corte EDU sembra invece seguire una logica di proporzionalità. Certo, l’ergastolo ostativo nasce dall’esigenza di combattere un “phénomène particulièrement dangereux pour la société” (Viola, cit., § 130), in cui – e questo lo si concede al giudice dissenziente – le esigenze di retribuzione e sicurezza sociale si fanno più pressanti. Vi è però da chiedersi se negare sic et simpliciter agli ergastolani non collaboranti qualsiasi meccanismo di revisione del proprio percorso non costituisca una compressione sproporzionata del diritto alla speranza, proprio in ragione del fatto che ne colpisce il nucleo essenziale. Che un giudice possa, invece, spingersi al di là della rigida presunzione legislativa di pericolosità e apprezzare in concreto i progressi svolti dall’ergastolano non collaborante (e le ragioni che, a suo dire, ne impedirebbero la collaborazione), sembra non solo più coerente con la concezione rieducativa della pena, ma anche – e quello che qui più interessa – maggiormente in linea con le necessità di garantire a tutti una “chance réelle de se réinserer” (ivi, § 113). La Corte EDU conclude dunque il proprio iter argomentativo asserendo che la disciplina italiana in materia di ergastolo ostativo “restreint excessivement” la prospettiva di riduzione della pena e di accesso ai meccanismi di revisione (§ 137).

Passiamo ora al secondo degli aspetti che meritano attenzione. Si è visto come la Corte EDU offra una lettura estensiva del divieto di trattamenti inumani e degradanti: se si guarda con attenzione agli argomenti impiegati dai giudici convenzionali per giustificare tale lettura, si scoprirà che uno di essi, dotato di grande importanza, è quello costituito dalla necessità di proteggere la “dignità umana” del condannato. Tale espressione si affaccia, innanzitutto, nelle prospettazioni dei terzi intervenienti (per gli accademici milanesi, v. § 86: “le fait de ne pas tenir compte de la possibilité de «ne pas collaborer» et de garder le silence porte atteinte à la dignité de l’individu et à son droit à l’autodétermination”; per L’altro diritto, v. § 89: “l’alternative entre la collaboration et la non-collaboration oblige (…) à choisir entre, d’une part, sa dignité (…) et, d’autre part, sa vie ou son intégrité et celles de ses proches”). La Corte fa propri tali rilievi e ricorda, come già affermato in Vinter (cit., § 122), che è proprio il principio della “dignità umana” (la Corte stessa lo inserisce tra virgolette) ad esigere che ai condannati sia assicurata la speranza di riacquisire, un giorno, la propria libertà. Questo passaggio è citato non solo in itinere, al § 113, ma è anche ribadito (repetita iuvant?) in sede di conclusioni: “[l]a Cour tient à rappeler que la dignité humaine qui se trouve au cœur même du système mis en place par la Convention, empêche de priver une personne de sa liberté […] sans lui fournir une chance de recouvrer un jour cette liberté” (§ 136). Un appello, accorato e forte, alla “dignità umana” come centro nevralgico dell’intero sistema convenzionale in sede di conclusioni si spiega sicuramente a partire dalla necessità di offrire, al lettore che voglia giungere presto… al sodo, l’occasione di non perdersi un rilievo ritenuto importante, ma presta il fianco, inevitabilmente, a riflessioni critiche.

Che bisogno c’era, in fin dei conti, di scomodare il concetto di “dignità umana”? Non avrebbe la Corte raggiunto il medesimo risultato (cioè: l’accertamento della violazione dell’art. 3 CEDU), pur in assenza di un siffatto argomento? In effetti, la nozione di “dignità umana” rappresenta una delle maggiori vexatae quaestiones del dibattito internazionalistico (e non solo: v. Hennette-Vauchez) in materia di diritti umani (cfr. amplius De Sena; McCrudden; Carozza), non fosse altro che per la difficoltà – se non l’impossibilità – di attribuire a tale concetto un significato universalmente condiviso e, in conseguenza, di saggiarne le implicazioni giuridiche: vi è chi la ritiene la nozione più “sospetta” (Martens), “vuota” (Bagaric-Allan), se non addirittura “pericolosa” (Vereinigung Bildender Künstler c. Austria, ricorso n. 68354/01, 25 gennaio 2007, Dissenting Opinion of Judges Spielmann and Jebens, § 9) nell’armamentario lessicale dei giudici.

Quanto alle funzioni che il concetto di dignità umana viene chiamato a svolgere in sede giudiziaria, vi sono casi in cui la “dignità umana” sembra essere utilizzata ad adiuvandum, cioè al fine di fornire un argomento ulteriore per giustificare la protezione di un determinato diritto (per limitarci all’ambito CEDU, valga su tutti il richiamo a Bouyid c. Belgio [GC], ricorso n. 23380/09, 28 settembre 2015, § 88, in cui il concetto di dignità umana sfuma nel divieto di uso eccessivo della forza da parte di autorità pubbliche). Qui, la dignità umana pare ridursi a nulla più che un pleonasmo – retoricamente efficace, ma normativamente sterile. In altri casi, invece, tale concetto sembra essere impiegato ad addendum, ovvero per fondare un’interpretazione estensiva di diritti che, pur già riconosciuti, non includono quella particolare garanzia: si tratta, in una certa misura, di un ruolo quasi “maieutico” nella protezione di diritti fondamentali. Esemplare è il caso Rantsev c. Cipro e Russia (ricorso n. 25965/04, 7 gennaio 2010), in tema di applicabilità dell’art. 4 CEDU a fenomeni di tratta: “[t]here can be no doubt that trafficking threatens the human dignity and fundamental freedoms of its victims and cannot be considered compatible with a democratic society and the values expounded in the Convention” (ivi, § 282). Più di recente, proprio rilievi in materia di dignità umana hanno portato ad estendere l’art. 4 CEDU pure a ipotesi di sfruttamento della prostituzione sforniti di elementi di transnazionali tipici della tratta (cfr. S.M. c. Croazia, ricorso n. 60561/14, 19 luglio 2018, ad oggi in fase di referral avanti la Grande Camera, §§ 54, 56).

Il caso in esame pare perfettamente inquadrabile in questa seconda categoria di casi: il concetto della “dignità umana” si atteggia ad argomento chiave per suggerire l’estensione del divieto di cui all’art. 3 CEDU anche a casi in cui i benefici di trattamento sono subordinati a condizioni di fatto impossibili da soddisfare, se non con il massimo sacrificio di beni fondamentali del singolo.

In conclusione, il caso Viola, dopo il recente Provenzano c. Italia (ricorso n. 55080/13, 25 ottobre 2018), segna sicuramente una tappa importante nel processo di verifica della tenuta convenzionale di istituti (anche tradizionali) di diritto penitenziario italiano. Dopo aver individuato un “problème structurel” del sistema italiano (§ 141), e in forza degli obblighi assunti dall’Italia ex art. 46 CEDU, la Corte ritiene che sia la natura stessa della violazione ad esigere una riforma, “de préférence par initiative législative” (§ 142), dell’ergastolo. Non è però detto che, nelle more, come spesso avviene in Italia, la soluzione al problema non sia raggiunta per via di una declaratoria di incostituzionalità (cfr. supra), visto anche il triste fallimento di recenti proposte di riforma, tra cui, da ultima, quella di cui alla legge Orlando (su cui v. § 51). Quello che è certo è che, posto che subordinare il diritto alla speranza alla collaborazione – e quindi il proprium dell’ergastolo ostativo come oggi lo si conosce – equivale a calpestare niente meno che la dignità umana dei condannati alla pena perpetua, un’inerzia da parte del legislatore costituirebbe una gravissima omissione.

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Diego Mauri

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