diritto internazionale pubblico

Quello che le norme non dicono. Le ambiguità del decreto sicurezza-bis, la gestione dei flussi migratori e l’Europa che verrà

Eugenio Zaniboni, Università di Foggia

Il 15 giugno 2019 è entrato in vigore un nuovo Decreto-legge, il n. 53 del 14 giugno 2019, recante “Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica”, in G.U. serie generale n. 138 del 14 giugno 2019, disponibile qui). Pur adottato con la tecnica della decretazione d’urgenza, alla quale siamo ormai adusi, l’atto contiene disposizioni molto eterogenee, che spaziano dall’introduzione di specifiche circostanze aggravanti per reati commessi nel corso di manifestazioni sportive, all’inasprimento e ampliamento della fattispecie del reato di bagarinaggio, ed altre ancora. Tralasciando l’analisi delle disposizioni più pregnanti del Capo I del Decreto, “Disposizioni urgenti in materia di contrasto all’immigrazione illegale e di ordine e sicurezza pubblica”, che modificano il testo unico sull’immigrazione, incidono sull’applicazione di Convenzioni internazionali come la Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare e saranno opportunamente oggetto di un post separato, ne rinveniamo altre che pongono interrogativi importanti e, come si vedrà, presentano numerosi profili di un certo interesse per il diritto internazionale e quello dell’Unione europea. Si tratta di norme le quali – pur incidendo, prima facie, solo in maniera riflessa sulla disciplina della condizione giuridica dello straniero, come è noto oggetto di una “doppia” (o rinforzata) riserva di legge ai sensi dell’art. 10, comma secondo, della Costituzione – sollevano questioni tecniche di cui si tenterà di dar conto ma alle quali non è facile, allo stato, dare una risposta esaustiva.

Le norme giuridiche, si sa, ammettono diversi livelli di lettura. Nel caso dell’interpretazione delle disposizioni del decreto, battezzato “sicurezza bis” e qui in commento, invero, l’attenzione è sovente attirata più da quello che le disposizioni (volutamente) non chiariscono che da ciò che vogliono lasciar intendere. Insieme ad aspetti di ricercata ambiguità che verranno messi in luce poco oltre, inoltre, emergono nel testo le tracce di alcune pulsioni, rinvenibili anche in provvedimenti pregressi, dirette ad incidere sulla configurazione del quadro giuridico complessivo in materia di gestione dei flussi migratori.

Alla luce di quanto precede, concentreremo le considerazioni che seguono su due aspetti distinti del Decreto-legge, espressione del medesimo indirizzo politico e non presi in considerazione dai primi commenti disponibili (v., ad es., qui), per poi passare, nella parte finale, a qualche breve osservazione di carattere più generale.

La prima norma si rinviene all’interno del Capo I, all’art. 4: “Potenziamento delle operazioni di polizia sotto copertura”. In buona sostanza, si prevede di destinare 3 milioni di euro nel triennio 2019/21 ad “implementare l’utilizzo dello strumento investigativo delle operazioni sotto copertura” ed in particolare al ristoro “degli oneri conseguenti al concorso di operatori di polizia di Stati con i quali siano stati stipulati appositi accordi per il loro impiego sul territorio nazionale”.

L’articolo precisa che lo strumento, o meglio, la provvista finanziaria a corredo del suo utilizzo è finalizzato “anche al contrasto “del delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”.

Per meglio comprendere la portata della norma e il suo ambito di applicazione, occorre anzitutto ricordare che l’istituto delle “operazioni polizia sotto copertura” (in principio del tutto estraneo all’ordinamento giuridico italiano), è stato inserito tra quelli disciplinati, (a grandi linee, peraltro) dalla Convenzione di Palermo delle Nazioni Unite sul contrasto al crimine organizzato transnazionale (qui il testo). In quanto considerato espressione di best practices investigative, l’attuazione internazionale delle quali in via cooperativa integra la ragion d’essere della Convenzione stessa (art. 1). La piena implementazione di questo istituto, pertanto, si pone come un parametro non certo secondario in ordine alla misurazione dell’efficacia degli sforzi degli Stati di cooperare nella prevenzione e repressione dei reati c.d. transnazionali, secondo “le più moderne tecniche disponibili” (così l’art. 27 comma 3; per approfondire il tema v. qui).

Vengono dunque in rilievo, in tale contesto, le disposizioni contenute nell’art. 19 della Convenzione di Palermo, relative alla possibilità di svolgere indagini congiunte, nonché, principalmente ai nostri fini, l’art. 20. Quest’ultimo, dopo uno scarno riferimento (comma 1) alla possibilità di porre in essere, tra le varie “tecniche speciali di investigazione”, vere e proprie “operazioni di infiltrazione”, incoraggia gli Stati “a stringere, laddove necessario, gli opportuni accordi o intese bilaterali o multilaterali” a tal fine (comma 2). Ovvero, nel rispetto dell’esercizio della giurisdizione degli Stati e del principio di eguaglianza sovrana, intese valide “caso per caso”. Queste ultime devono comprendere anche la disciplina degli aspetti di natura economico-finanziaria (cfr. l’art. 20, comma 3).

La legge italiana di ratifica della Convenzione di Palermo (Legge n. 146, del 16 marzo 2006, disponibile qui), prevede, all’articolo 9, la non punibilità, ai sensi dell’art. 51 del codice penale, di una vasta categoria (secondo alcuni commentatori anche troppo indefinita, data la delicatezza dei compiti assegnati; il che potrebbe non giovare alla tutela delle peculiarità insite in questo tipo di attività: cfr. l’art. 9, commi 1 e 2 della Convenzione) di ufficiali di polizia giudiziaria “infiltrati”. Ma non è assistita da una corrispondente assegnazione di risorse economiche. Lo stanziamento previsto dal decreto “sicurezza bis” è altresì qualificato urgente e necessario per sovvenire all’esigenza “di rafforzare il coordinamento investigativo in materia di reati connessi all’immigrazione clandestina”, e “gli strumenti di contrasto a tale fenomeno”.

Diciamo subito che, con una premessa del genere ci si sarebbe aspettato un intervento di respiro più ampio, maggiormente volto a dispiegare la propria efficacia nel perseguimento delle finalità complessive della Convenzione di Palermo; dunque idoneo a fornire alle Autorità competenti gli strumenti e le risorse necessarie. Ciò atteso che, tra l’altro, le indagini volte allo smantellamento delle reti internazionali di smugglers e di trafficanti che introducono irregolarmente i migranti in Italia, possono comportare l’impiego di risorse economiche assai rilevanti.

In proposito, val la pena di ricordare come le associazioni criminali dedite allo smuggling, hanno consolidato nel tempo nei diversi Stati in cui operano un collaudato un modello organizzativo a caratterizzazione ‘orizzontale’, e non verticistica, la cui aggressione richiede attività investigative assai mirate. Queste indagini sono volte, in buona sostanza, a ricostruire a ritroso l’itinerario percorso dai migranti trasportati, in forza di una segmentazione delle condotte criminali in cui ciascun componente del sodalizio ha un ruolo minuto (per es. autista o fornitore di viveri o guardiano delle aree in cui transitano i migranti, e così via) e non è messo a conoscenza di ciò che avviene prima o dopo il suo intervento. Si tratta pertanto di inchieste che si svolgono nel contesto di un elevato livello di coordinazione tra le diverse Autorità di enforcement e giurisdizionali degli Stati coinvolti, nel necessario rispetto dei criteri di ripartizione dell’esercizio della giurisdizione, nonché delle garanzie procedurali e sostanziali previste dai rispettivi ordinamenti giuridici.

Queste peculiarità richiedono, a monte, una specifica formazione degli operatori (v. in tal senso l’art. 29 della Convenzione di Palermo), e la conseguente dislocazione in ciascuno degli Stati di transito dei migranti di mezzi che siano adeguati alla sfida; nonché di un sufficiente numero di operatori che, a prezzo di prolungate e complesse attività, siano in grado di far affiorare le tecniche e le complicità utilizzate per eludere i controlli nazionali e portare, in tal modo, a compimento le indagini dando un nome e un volto ai componenti dell’intera associazione criminale.

Il decreto, tuttavia, non si preoccupa di rafforzare gli strumenti e le risorse a disposizione degli agenti italiani che operano all’estero. L’ambito di applicazione dell’art. 4, infatti, è volto all’esclusivo beneficio di operazioni che saranno condotte da ufficiali stranieri operanti sul territorio italiano

Questa limitazione conferita alla disposizione appare ancor più sorprendente alla luce del fatto che il Governo italiano è stato appena fatto oggetto di un ‘declassamento’ nella classifica annuale stilata dal Dipartimento di Stato americano degli Stati impegnati nella lotta al trafficking (v. qui il rapporto del 2018; mentre qui quello, appena pubblicato, del 2019).

L’importante rapporto utilizza come parametro di valutazione gli standards fissati dallo Human Trafficking Victims Protection Act (disponibile qui). Nel passaggio da “Tier 1” del 2018 (Stato che risponde pienamente a tali standards), a “Tier 2” del 2019 (Stato che non vi risponde pienamente), la reputazione internazionale del Governo italiano subisce un duro colpo e l’occasione persa per dare un segnale concreto di impegno conferendo ad essa un respiro maggiore e una diversa profilazione – fermi restando i possibili interventi in sede di conversione – risulta più stridente.

Per altro verso, lo stesso art. 4 ha suscitato perplessità, fin dai primissimi commenti pubblicati ‘a caldo’ sulla bozza di decreto diffusa nelle scorse settimane, anche in ordine al rapporto tra le risorse messe a disposizione e le reali finalità perseguite (v. qui l’intervista al giurista Domenico Gallo). Almeno alcune di queste finalità rientrerebbero, infatti, in una sorta di “guerra” dichiarata alle Ong, (v. ancora qui), ma in un contesto generale in cui, secondo lo stesso Ministero dell’Interno, gli sbarchi dei migranti sono diminuiti di oltre il novanta per cento (l’aggiornamento giornaliero sui dati è reperibile qui).

È lecito supporre, pertanto, che la norma in commento, apparentemente focalizzata anche sul contrasto alle migrazioni irregolari, al di là delle etichette e dei proclami (che laddove in asservimento di finalità squisitamente elettorali restano oggetto di preoccupazione da parte delle Istituzioni europee: v. qui la decisione del Consiglio dell’Unione europea di occuparsi dei temi delle migrazioni in connessione con quello della rule of law), nella sua forma attuale col passare del tempo troverà probabilmente la sua utilizzazione di elezione nell’ambito di indagini condotte su altre fattispecie di reati a carattere transnazionale. È il caso, a titolo di esempio, nella prevenzione e repressione dei reati associativi finalizzati al traffico di stupefacenti.

Nulla inoltre si dice, e pare questo un profilo altrettanto critico vista la scelta di ricorrere alla decretazione d’urgenza, sul contenuto preciso di dei sedicenti “accordi” che, allo stato, sembrerebbero carenti di una idonea base giuridica interna, dal momento che l’ambito di applicazione della legge 146 del 2006, richiamata nel Decreto come disposizione al cui potenziamento è rivolta la norma in commento, si limita a disciplinare le attività degli agenti nazionali in missione all’estero e che, come accennato, l’art. 9 della Convenzione di Palermo non può essere considerato, a nostro avviso, una norma self-executing.

La stessa legge 146 del 2006 prevede anche che “le forme e le modalità per il coordinamento, anche in ambito internazionale, a fini informativi e operativi tra gli organismi investigativi” siano stabilite con un decreto ministeriale (art. 9, comma 5). Gli “accordi” in questione, pertanto, atteso che andranno a fissare e disciplinare le regole di ingaggio di operazioni poste in essere da agenti governativi stranieri in Italia, con l’ausilio di risorse finanziarie ad hoc – peraltro stornate dal “Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura” (sull’utilizzo di questi fondi, non senza censure, v. qui una relazione presentata lo scorso anno dalla Corte dei Conti) – non dovrebbero sfuggire, auspicabilmente già durante il procedimento di conversione del decreto, ad un accurato scrutinio parlamentare.

Vaglio che si porrebbe in conformità a quanto previsto dall’art. 80 della Costituzione e lancerebbe così un importante segnale in controtendenza.: il riferimento obbligato va qui al disinvolto approccio “alle prerogative parlamentari nella conclusione di accordi internazionali finalizzati alla gestione dei flussi migratori”, al momento imperante (ed ampiamente criticato, per più ragioni, anche su queste stesse pagine v. qui; allo stesso contributo di A. Spagnolo si rinvia per un commento alla sentenza del Tar che obbliga a rendere pubblico il testo di accordi internazionali che non siano espressamente coperti da segreto di Stato, sia quando questi siano conclusi in forma semplificata, sia quando questi siano applicati in pendenza dell’iter di autorizzazione alla ratifica). Il che consentirebbe importanti spazi di recupero della sempre più compromessa autonomia valutativa delle Camere (ulteriori approfondimenti, qui. Per la tesi secondo la quale la possibilità per l’esecutivo di ricorrere alla procedura in forma semplificata in ambiti apparentemente ricadenti sotto il cono d’ombra dell’art. 80 sarebbe ormai consentita da una consuetudine modificativa dell’art. 80 della Costituzione, v. F. Palombino, “Sui pretesi limiti costituzionali al potere del Governo di stipulare accordi in forma semplificata”, in Rivista di diritto internazionale 2018, p. 870-878)).

Un problema simile si può porre, forse in maniera ancor più evidente, in relazione all’altro articolo che si intende commentare, contenuto nel capo II del Decreto, dal titolo “Disposizioni urgenti per il potenziamento dell’efficacia dell’azione amministrativa a supporto delle politiche di sicurezza”.

Ci riferiamo all’articolo 12, intitolato “Fondo di premialità per le politiche di rimpatrio” in favore del quale si prevede l’assegnazione iniziale di 2 milioni di euro che sono stati sottratti ai fondi accantonati dal Ministero degli Esteri e, presumibilmente destinati, in origine alla cooperazione internazionale. La provvista, come si apprende dallo stesso art. 12, finanzierà “interventi di cooperazione mediante sostegno al bilancio generale o settoriale ovvero intese bilaterali, comunque denominate, con finalità premiali per la particolare collaborazione nel settore della riammissione di soggetti irregolari presenti sul territorio nazionale e provenienti da Stati non appartenenti all’Unione europea” (così il comma 1). Secondo il comma 2, dal prossimo anno il fondo potrà beneficiare di risorse più cospicue, fino a 50 milioni di euro l’anno.

Al di là del fatto che sono cifre che in ragione del tasso di cambio e del tenore di vita dei sending States dei migranti possono considerarsi cospicue, al momento in cui si scrive (e ancor più da quello in cui il decreto è entrato in vigore) non è da escludersi una ‘sanguinosa’ procedura di infrazione per sforamento del debito (v. il testo della Raccomandazione “COM(2019) 512 final” del Consiglio inviata all’Italia il 5 giugno scorso qui).

Si può sostenere, pertanto, che le asserite ragioni di necessità e di urgenza, analogamente a quanto rilevato poc’anzi, avrebbero meritato miglior causa. Anche perché, come ricordato in un recente studio sul tema, il decreto-legge è uno strumento che consente valutazioni sull’esistenza dei requisiti di necessità ed urgenza previsti dall’art. 77 della Costituzione solo «quando le norme emanate hanno già prodotto effetti giuridici rilevanti e non sempre riparabili in sede di conversione» (v. lo studio La decretazione d’urgenza nella giurisprudenza Costituzionale, Roma, settembre 2017, p. 45, disponibile qui),

Peraltro, la circostanza che la norma sopra citata sia stata formulata, ancora una volta, in termini assai vaghi e non privi di ambiguità non consente di enucleare con precisione i beneficiari materiali della prevista elargizione, nonché i criteri ad essa sottesi. Ad esempio, si intende privilegiare i Governi degli Stati di invio dei migranti o i migranti stessi i quali siano disponibili ad accettare procedure (sovvenzionate) di rimpatrio volontario assistito? Non è facile rispondere a questa domanda.

Prendiamo anzitutto in considerazione la prima e più probabile ipotesi, che trova la sua originaria disciplina nella legge 11 agosto 2014, n. 125, art. 7 comma 2 sulla cooperazione allo sviluppo. In questo caso le risorse possono confluire direttamente nel bilancio dello Stato beneficiario. Si tratta di una misura evidentemente volta ad ovviare allo spinoso problema costituito dalle difficoltà e resistenze con le quali molti Paesi terzi oggi ammettono il ritorno dei propri cittadini. Se è vero che l’istituto della riammissione nel diritto internazionale riposa oggi su importanti basi convenzionali offerte dai Protocolli addizionali alla menzionata Convenzione di Palermo (v. qui l’art. 18 del Protocollo sullo smuggling; e qui l’art. 8 di quello sulla tratta), nonché in alcuni importanti Accordi di cooperazione stipulati dall’Unione (v. ad es. l’art. 13, par. 5 dell’Accordo di Cotonou tra Unione europea e paesi c.d. “ACP”, disponibile qui). Mentre per quanto concerne i rapporti con Stati non firmatari delle suddette Convenzioni, è possibile, a nostro avviso, revocare in dubbio la rispondenza di tutte le possibili applicazioni dell’istituto al diritto internazionale generale (v. ad. es. un’interessante analisi della prassi, anche se un po’ risalente, qui).

Nondimeno, anche nei riguardi di Stati parti di accordi pertinenti, compresi i numerosissimi bilaterali stipulati dall’Italia, che ripetono la clausola standard in cui si chiede l’adempimento del primo e principale obbligo convenzionale, relativo alla collaborazione “senza indugio” nella identificazione e rilascio di un titolo di viaggio valido per il rimpatrio del proprio cittadino, nella prassi amministrativa internazionale ottenerne l’esecuzione è spesso un risultato assai complicato. Tant’è che, in alcuni casi, qualche Stato europeo ha cercato di aggirare questi ostacoli attraverso procedure ‘unilaterali’ di rinvio che hanno subito suscitato le vibranti proteste da parte degli Stati di riammissione (per queste interessanti vicende v. qui).

Alla radice di quest’atteggiamento non collaborativo – per effetto del quale negli Stati di ricezione si pongono evidenti problemi di effettività nel portare a termine le operazioni di rimpatrio (per una interessante prassi giurisprudenziale ad opera della Corte di giustizia, v. un contributo disponibile qui, spec. p. 476 ss.), si può individuare un concorso di cause, il cui approfondimento – arduo da effettuare in questa sede – rischierebbe, oltretutto, di travalicare l’ambito giuridico.

Ma è esattamente in questo contesto che va ad inserirsi la norma del decreto “sicurezza bis” in commento. Molti Stati, invero, giustificano la mancata cooperazione nell’esecuzione degli accordi di riammissione adducendo ragioni di carattere economico. Ancora oggi le rimesse dei migranti, come si è appreso dai dati pubblicati qualche giorno fa, continuano a crescere a livello globale (v. qui), e rappresentano per le popolazioni di questi Stati un cespite fondamentale, peraltro non diversamente dai periodi in cui in Italia i Governi incoraggiavano, per i medesimi motivi, le emigrazioni all’estero (con tanto di articolo in Costituzione, il 35, che – guarda caso – sancisce la libertà di emigrare e la tutela del lavoro all’estero).

Per quanto di interesse ai nostri fini, la menzionata riluttanza si accompagna spesso ad un atteggiamento ‘contrattualistico’ dei sending States che, consapevoli della delicatezza del tema per i Governi occidentali, cercano di alzare il più possibile il prezzo di eventuali collaborazioni (v. sul punto già N. Coleman, European Readmission Policy: Third Country Interests and Refugee Rights, Martinus Nijhoff, 2009). D’altro canto, la prassi dimostra che la materiale applicazione di molti degli “accordi” di contenimento e gestione delle migrazioni che l’Italia ha sottoscritto sta diventando un’attività piuttosto dispendiosa.

Ad esempio, il Memorandum d’intesa (MoU) con la Libia sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere del 2 febbraio 2017, disponibile qui) prevede oneri finanziari rilevanti, atteso che, si legge all’art. 1, “la parte italiana fornisce sostegno e finanziamento a programmi di crescita nelle regioni colpite dal fenomeno dell’immigrazione illegale, in settori diversi, quali le energie rinnovabili, le infrastrutture, la sanità, i trasporti, lo sviluppo delle risorse umane, l’insegnamento, la formazione del personale e la ricerca scientifica” nonché, “supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina (per un approfondito commento v. qui).

Nondimeno si tratta, come è noto, di atti la cui natura giuridica è assai diversificata, potendo talvolta essere classificati tra gli accordi in forma semplificata, altre volte annoverati come semplici accordi di Polizia. Questi ultimi sono direttamente conclusi dai Ministri competenti sotto forma di memorandum, oppure mera intesa (oltre al già citato contributo di A. Spagnolo, v. sul punto, che evidentemente non può essere approfondito, le considerazioni di F. Casolari, disponibili qui).

Qualora, come è assai probabile, ci sia l’intenzione di riproporre in altri contesti la formula delle intese concluse con Niger, Libia e Sudan, la garantita premialità economica si pone in dispregio della circostanza che nella disposizione in parola non vi è traccia di condizionalità alla necessaria tutela dei diritti umani da parte degli Stati di invio dei migranti.

Ma c’è di più. Tutte le intese più recenti sono orientate, come è stato correttamente osservato (ancora da A. Spagnolo. qui) “a un medesimo fine: fornire un quadro giuridico di riferimento alla presenza di personale militare italiano sul territorio dei due paesi, finalizzata allo svolgimento di attività di assistenza e supporto anche nella gestione dei flussi migratori”. Anche in questo caso non si prevede alcuna garanzia specifica circa l’assunzione da parte degli operatori della missione di vincoli al rispetto dei diritti umani nell’esercizio delle attività sul campo. Se si prende in esame l’intesa raggiunta con il Niger (il testo qui ) abbondano invece i dettagli sull’assetto delle forze impiegate: a regime, si prevede una missione che potrà impegnare “fino a un massimo di 470 militari, 130 mezzi terrestri e 2 mezzi aerei”.

L’articolo 4 del disegno di legge di ratifica dell’intesa con il Niger, al momento in cui si scrive, non ha ancora concluso il suo iter (v. qui). Il testo contiene “una clausola di invarianza finanziaria, per la quale dall’attuazione dell’Accordo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. La stessa legge specifica che ad “eventuali maggiori oneri, si farà fronte con apposito provvedimento legislativo”. Insomma, qualcuno potrebbe sospettare che l’indeterminatezza della disposizione contenuta nell’art. 12 sia stata voluta, sì da consentire di poterlo piegare, alla bisogna, alle più diverse finalità: così, ragionando in astratto, il tempo dirà se il personale italiano, impegnato in missioni internazionali volte a facilitare la riammissione dei migranti e previste da strumenti attuati mediante clausola di invarianza finanziaria, potrà alla bisogna essere reputato “particolarmente collaborativo” e, di conseguenza, meritevole di ricevere sostegni al (proprio) bilancio).

Occorre ora prendere in esame anche la seconda opzione prospettata. In questo caso, l’interpretazione della norma concerne la possibilità di finanziare il rimpatrio volontario in forma assistita dei migranti irregolari. Con l’istituto del rimpatrio assistito si cerca di incentivare il consenso dei soggetti da rimpatriare prospettando loro piccole somme di danara e progetti di avviamento di attività di lavoro. In tale direzione, si continua a monitorare la situazione dei soggetti rimpatriati anche dopo l’avvenuto ritorno nel proprio Stato di origine, ad esempio verificandone l’avvenuto reinserimento lavorativo e sociale nelle comunità di provenienza.

Questa forma di rimpatrio ha trovato una prima disciplina nel nostro ordinamento all’art. 14 bis e 14 ter del Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (il c.d. Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, disponibile qui). L’istituto peraltro è in linea con l’impostazione della Direttiva 2008/115, c.d.“rimpatri”, secondo la quale la partenza consensuale dovrebbe costituire la modalità ordinaria attraverso la quale portare ad esecuzione i rimpatri: lo si evince dal considerando 10), nonché da una interpretazione sistematica degli articoli 7 e 8 della Direttiva. In senso analogo, la Guideline 1 delle Twenty Guidelines of the Commitee of Ministers of the Council of Europe on Forced Return (qui) del settembre 2005, citate nel considerando (3) della Direttiva 2008/115 e, come la stessa Commissione ha tenuto a chiarire, in via informale, possono essere considerate come uno strumento privilegiato di interpretazione della medesima (v. qui). Ne deriva che gli allontanamenti forzati dei migranti irregolari devono essere considerati un’opzione di carattere residuale, da utilizzare solo laddove tutti i tentativi di procedere consensualmente siano falliti.

Sulle ipotesi di sviluppare best practices di rimpatri consensuali assistiti per i migranti irregolari si sta concentrando da tempo l’attenzione della dottrina (cfr. R. Hofmann, “Voluntary Repatriation and UNHCR”, in Zeitschrift für Ausländisches öffentliches Recht und Völkerrecht, 1984, p. 184 ss.; J.R. Rogge – J.I. Akol, “Repatriation: Its Role in Resolving Africa’s Refugee Dilemma”, in International Migration Review, No. 9, 1989, p. 327 ss.; European Council on Refugees and Exiles (ECRE), The Return of Asylum Seekers whose Applications have been Rejected in Europe, PP3/06/2005/EXT/PC, Settembre 2005) e della stessa Unione europea (v. ad. es. il Fifth Progress Report on the Partnership Framework with third countries under the European Agenda on Migration, COM(2017) 471 final, disponibile qui ) che fino al 2013 aveva stanziato fondi ad hoc per questo tipo di operazioni (v. il prospetto di sintesi qui ) successivamente sospesi per evitare, in un periodo di sbarchi massicci, che diventassero un fattore di attrazione. In Italia non sono certamente pratiche diffuse (per inchieste giornalistiche sul tema v. qui) e neppure, probabilmente, lo saranno quando il Decreto andrà a regime, posto che si tratta di progetti, allo stato gestiti da varie Organizzazioni come l’Oim, che al momento non hanno riscosso alcun interesse né da parte dei migranti, né dagli stessi Enti che dovrebbero curarne la gestione, attraverso la partecipazione a bandi pubblici (come si spiega qui).

Ma il decreto nulla dice, ripetiamo, rispetto alla posizione dei rimpatriandi, la quale, dovrebbe forse essere disciplinata nell’ambito delle “intese bilaterali con finalità premiali” di cui al comma 1. Restano quindi le preoccupazioni, almeno fino ad ora, in ordine all’attuale situazione, inasprita anche da provvedimenti degli ultimi mesi, dei richiedenti la protezione internazionale la cui istanza sia stata rigettata e che devono rientrare nel loro Paese: «In the public debate surrounding return its complexity is often ignored». European Council on Refugees and Exiles (ECRE), The Return of Asylum Seekers, cit.

Tutto ciò precisato è lecito chiedersi, anche in questo caso, dove siano state reperite le risorse necessarie al funzionamento del Fondo in commento, soprattutto a partire dal prossimo anno. Operando una – non semplice – ricerca nelle pieghe della Legge 30 dicembre 2018, che contiene il bilancio di previsione dello Stato (disponibile qui), si apprende che le risorse principali saranno garantite dai fondi resi disponibili dalla contestuale diminuzione degli investimenti destinati alla “gestione dei centri per l’immigrazione, in conseguenza della contrazione del fenomeno migratorio” nonché dagli “interventi per la riduzione del costo giornaliero per l’accoglienza dei migranti”. Peraltro, facendo due conti si può stimare il ‘risparmio’ complessivo dalla riduzione degli investimenti per queste due voci in un miliardo e 600 milioni di euro. Riallacciandoci a quanto affermato in via di premessa, pertanto, l’applicazione di questa norma del decreto comporta un cospicuo spostamento di fondi, dirottati dalle politiche di integrazione dei migranti a quella del rimpatrio. Il che, detto in termini forse un po’ brutali, corrisponde all’applicazione pratica di un ormai noto slogan – “aiutiamoli a casa loro” – divenuto anche un manifesto d’intenti (di quel che resta) della cooperazione italiana (v. qui le interessanti dichiarazioni in senso adesivo del viceministro degli Esteri con delega alla cooperazione internazionale).

Quest’ultima riflessione induce a contestualizzare il discorso svolto fin qui e ad inserirlo in un più ampio livello di analisi che a qualcuno potrà forse sembrare ultroneo, ma a chi scrive, sommessamente, sembra incoraggiato dalla circostanza che il ministro che dà il nome ai decreti sulla sicurezza non è solo ossessionato da (inesistenti) assalti alle coste, ma si concepisce come uno statista. In tale veste ama citare, a modo suo, una frase (erroneamente, pare) attribuita a De Gasperi: “Un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista pensa alle prossime generazioni”. Sulla scorta di questa premessa, dichiara di voler portare “una prospettiva di sviluppo sociale per i prossimi cinquant’anni” che “guarda all’Europa, e all’Italia che attende le nuove generazioni” (il video che esprime questa singolare “visione”, data la divaricazione tra il dire e il fare, girato l’8 dicembre scorso a piazza del Popolo, è disponibile qui; la cruda realtà è invece illustrata qui).

Mentre il Presidente della Repubblica sottolinea come  “le difficoltà che affliggono popoli di regioni a noi anche molto vicine meritano un’attenta riflessione sulle cause di questi drammi e sulle risposte che richiedono” (v. qui), val la pena di ricordare che le vere e pressanti preoccupazioni di lungo periodo, di cui in Italia non si parla a sufficienza, ma che realmente agitano gli studiosi e le istituzioni europee, sono concretizzate dall’aumento delle diseguaglianze economiche e dal crollo demografico che ci attende. Quest’ultimo, secondo le proiezioni, condurrà al progressivo rovesciamento di una piramide immaginaria composta da una base che diventa progressivamente sempre più ristretta (e quindi vertice rovesciato) di giovani lavoratori, ai quali toccherà occuparsi di una base sempre più larga di anziani non lavoratori e bisognosi di assistenza.

Per invertire rapidamente la china, i Paesi europei a più basso tasso di natalità (come l’Italia) non hanno che quattro strade maestre (puntualmente elencate nelle raccomandazioni contenute nelle citate raccomandazioni del Consiglio dello scorso 5 giugno, sempre disponibili qui): la prima è quella di incrementare il livello e la qualità dell’istruzione e di incentivare massicciamente la ricerca scientifica; la seconda è fornire alle donne strumenti di welfare che consentano di abbassare l’età media in cui hanno il primo figlio, che è in costante aumento ed incide in maniera dominante sulla natalità complessiva. La terza è quella di avviare provvedimenti indirizzati ad aumentare l’età pensionabile. La quarta è quella investire nell’integrazione dei migranti lavoratori e/o titolati a ricevere protezione. Il lettore giunto pazientemente fin qui valuti se i provvedimenti in commento e, più in generale, quelli degli ultimi mesi, siano o meno coerenti con le autoproclamate visioni da statista che guarda, per decreto, all’interesse delle nuove generazioni.

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