diritto internazionale pubblico

Lisistrata a Lampedusa: una riflessione sul caso Sea Watch 3

Lorenzo Gradoni e Luca Pasquet (membri della redazione)

«Come posso sbagliare se obbedisco al mio stesso comando?», si domanda Creonte, al culmine della sua autoreferenzialità. In ciò l’avversario di Antigone assomiglia un poco al Ministro dell’Interno Salvini, il quale non si capacita del fatto che i suoi decreti in materia di ordine pubblico e sicurezza non siano pacificamente assunti quale metro della legalità. In effetti, la forza degli editti dell’antico sovrano di Tebe non conosceva limiti formali di sorta, né Antigone, obiettore extra ordinem, intendeva trarne dalla legge non scritta cui era devota. Quello di Salvini, tuttavia, non è un potere creonteo. Bisogna ricordarlo? Nel moderno Stato costituzionale, il comando del legislatore, o del Governo, non è la sola fonte del diritto, né la più alta. Perciò, benché il Ministro dell’Interno si atteggi a paladino della legalità, del diritto egli fa un uso spregiudicato: il discutibile ricorso alla decretazione di urgenza, la svalutazione degli obblighi internazionali e degli atti giudiziari che li evocano, l’uso disinvolto di qualificazioni giuridiche impegnative come «atto di guerra», «omicidio», ecc. (cfr. qui, qui, qui e qui). Il suo atteggiamento è quindi antitetico rispetto alla cieca, tragica adesione di Creonte al diritto della polis. Salvini, del resto, somiglia poco a Creonte anche dal punto di vista temperamentale.

«Sputale addosso come a un nemico». Questo è Creonte, colmo d’ira mentre dialoga con suo figlio Emone, promesso sposo di Antigone. Salvini, si sa, agli sputi preferisce i “bacioni”. Eppure, qui, il parallelo tutto sommato regge: il Ministro definisce Carola Rackete «ricca e viziata fuorilegge tedesca», da «mettere sul primo aereo per Berlino»; sostiene, inoltre, che l’ordinanza emanata del GIP di Agrigento, Alessandra Vella, «fa piangere gli italiani veri» (v. qui). Ma è difficile che Salvini imiti Creonte anche nella resa. Chi sarebbe, d’altronde, il suo Tiresia? «Ahimè, a fatica, sì, ma devo mutare la mia decisione; impossibile combattere la necessità», sospira Creonte. Il Ministro, invece, sembra insensibile sia alla necessità di attenersi ai parametri dello stato di diritto, tra cui il rispetto per le determinazioni del potere giudiziario, sia a quella di soccorrere i naufraghi, contemplata da un’antica norma consuetudinaria. La maschera tragica di Creonte, insomma, non c’entra nulla con quella indossata da Salvini quando arringa i suoi followers.

Se Salvini non è Creonte, tantomeno la figura della comandante Rackete è accostabile a quella di Antigone, sebbene negli ultimi giorni molti le abbiano istintivamente sovrapposte. A differenza di Antigone, che respinse il diritto della polis in nome della legge divina, la comandante della Sea Watch 3 si è scrupolosamente attenuta al diritto positivo e ciò, nonostante si sia trovata ad agire in un quadro politico e giuridico sempre più invaso da incertezze e contraddizioni, da norme collidenti ed ermeneutiche inconciliabili. E, per di più, nel bel mezzo di una “guerra”. La guerra che gli Stati europei, Italia in testa, da anni ingaggiano contro le ONG dedite al salvataggio dei naufraghi nel Mar Mediterraneo, criminalizzandone le attività. «Come matassa, quando si ingarbuglia, si prende e si dipana da una parte e dall’altra, così districheremo questa guerra, se concesso, sceverando una parte dall’altra con diplomazia». Questo non è un proposito che potrebbe appartenere all’impolitica Antigone; a parlare, infatti, è Lisistrata. Il suo motto potrebbe servire da insegna alla comandante Rackete: bisogna porre fine alla guerra che ha decimato le navi che le ONG armano a scopi di salvataggio; per riuscirvi, tuttavia, è necessario propiziare un chiarimento del quadro giuridico, che è ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi.

In rapporto a un caso che inevitabilmente suscita accostamenti letterari, vale la pena di notare che anche la normativa internazionale sul salvataggio in mare, come qualsiasi altra, prevede un suo copione, nel senso che è stata scritta sul presupposto di certi comportamenti ritenuti normali, i quali – è appena il caso di precisare – non rispecchiano necessariamente le condotte effettive degli attori rilevanti. Il copione, anzi, è tipicamente ideologico e come ogni ideologia entra in crisi quando non è più in grado di celare la realtà, cioè quando la divergenza tra modello normativo e condotte effettive diviene eclatante. L’incremento dei flussi migratori passanti per il Mediterraneo e la speculare aggressiva chiusura confinaria degli Stati europei hanno contribuito a metterlo in crisi.

Nello script originario, gli Stati costieri compaiono quali soggetti in principio inclini ad assolvere le proprie responsabilità rispetto a emergenze casualmente distribuite nello spazio e nel tempo e che, nel procedervi, si avvalgono anche dell’ausilio di imbarcazioni civili che, per adeguarsi all’imperativo del salvataggio, possono essere costrette a distogliersi dalle proprie attività e interessi. Non è un caso se la normativa rilevante obbliga gli Stati a essere particolarmente solleciti nei confronti di comandanti coscienti del proprio dovere, sì, ma anche desiderosi di ritornare ai propri affari (v. Convenzione SAR, art. 3, par. 1.9; Regola SOLAS V/33, par. 1.1; nonché Linee guida dell’IMO per il trattamento delle persone salvate in mare, art. 6, par. 3). Ebbene, da un po’ di tempo a questa parte il copione è stato sovvertito. Mentre navi civili solcano il Mediterraneo allo scopo esclusivo di salvare vite umane, gli Stati, che dietro il naufrago vedono l’ombra del migrante, invece di cooperare al salvataggio e sgravare i natanti privati del loro onere, addirittura li ostacolano, spesso con mezzi drastici, al punto che ormai solo pochissime navi di ONG sono in grado di operare (v. i dati forniti dall’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali). Se si tiene conto dello stravolgimento del copione – a normativa invariata e pur sempre applicabile – si comprende meglio il significato del gesto dalla comandante Rackete.

Un aspetto che la dettagliata normativa sui salvataggi in mare non contempla – semplicemente perché non quadrerebbe con l’originario copione – riguarda la condotta che un comandante deve tenere qualora gli Stati cui si rivolge per ottenere collaborazione ignorino l’appello, o si dichiarino incompetenti, o addirittura ostacolino le operazioni di salvataggio, tipicamente nell’ultima e cruciale fase dello sbarco, sino a sanzionarle in vario modo. Si può dire, perciò, che la comandante Rackete si è trovata costretta a prendere decisioni difficili in un contesto di parziale incertezza giuridica. Quando, in apertura, abbiamo affermato che la comandante si è scrupolosamente attenuta al diritto vigente, non volevamo ritrarla nell’atto pedissequo di seguire un vademecum, bensì rilevare che il suo comportamento, nell’incertezza, è stato in definitiva orientato da un principio giuridico irrinunciabile, perché rispondente a elementari considerazioni di umanità (come affermano M. Nordquist, S. Nandan e S. Rosenne, United Nations Convention on the Law of the Sea 1982: A Commentary, vol. III, The Hague, 1995, p. 171).

La nave Sea Watch 3 ha soccorso i naufraghi il 12 giugno, a circa 50 miglia nautiche dalla costa libica. Per ragioni umanitarie il comandante ha disatteso la direttiva delle autorità libiche, che invitavano a far rotta su Tripoli, porto che lo stesso Ministro degli Esteri italiano considera non sicuro. Ciò nonostante le autorità italiane fornivano subito un segnale di indisponibilità a cooperare, dichiarandosi incompetenti in ragione del luogo del soccorso e omettendo dunque ogni indicazione circa «places of safety» alternativi. La nave giungeva in prossimità delle acque territoriali italiane il 14 giugno, poche ore prima della promulgazione del decreto detto “Salvini bis”, sulla cui base, il giorno dopo, un provvedimento interministeriale interdiceva le acque territoriali alla Sea Watch 3. Nelle due settimane successive, cioè sino al 28 giugno, i contatti tra le autorità italiane e la nave battente bandiera olandese – che il 26 giugno era penetrata nelle acque territoriali in violazione del decreto – sono proseguiti non per organizzare la conclusione del salvataggio, ma per trasportare a terra, in più occasioni, persone con gravi problemi di salute, oltre che per consentire alla polizia giudiziaria italiana di compiere indagini su ipotesi di reato a carico della comandante. Nella notte del 29 giugno, poiché l’autorizzazione allo sbarco non appariva imminente, la Sea Watch 3 vi procedeva in via autonoma, urtando una piccola imbarcazione della Guardia di Finanza impegnata in confuse manovre a ridosso della banchina nel tentativo di ostacolare un attracco ormai inevitabile (qui il video). L’episodio, com’è noto, è stato fantasiosamente descritto come «speronamento» ed è costato alla comandante Rackete una sommaria condanna per tentato omicidio pronunciata dal Ministro dell’Interno.

L’inconcludente navigazione dalla Sea Watch 3 in prossimità delle acque territoriali italiane ha spinto qualcuno a sostenere che, se lo scopo era portare al sicuro i naufraghi, la comandante, di fronte all’ostinato diniego delle autorità italiane, avrebbe dovuto cercare riparo presso un altro Stato costiero. Le due settimane trascorse vicino alle (poi nelle) acque territoriali italiane sarebbero bastate per raggiungere qualsiasi altro porto del Mediterraneo. Questo comportamento è valso alla comandante Rackete l’accusa di fare politica sulla pelle dei naufraghi (durante il question time alla Camera del 3 luglio, il Ministro Salvini ha parlato di «sporca battaglia politica»). Tuttavia, adempiere un dovere giuridico in una situazione d’incertezza come quella sopra descritta richiede necessariamente un agire politico, cioè impone di compiere scelte difficili e rischiose, per sé e per gli altri, per i naufraghi affidati alle proprie cure e per chiunque altro si trovi in difficoltà analoghe. È la sconnessione del quadro normativo di riferimento, unita alle tensioni politiche che lo attraversano – oggi particolarmente forti in Italia – a produrre il rischio. Accettare di correrlo, al possibile prezzo di un arresto, di una condanna, di una sconfitta processuale che potrebbe fare giurisprudenza, è un atto politico.

La comandante è stata posta di fronte a un dilemma: tenersi in prossimità delle acque territoriali italiane in attesa che il Governo italiano rivedesse la propria decisione per rispondere a esigenze umanitarie (puntualmente segnalate dall’equipaggio) oppure cercare di raggiungere un porto sicuro non italiano? Carola Rackete, tenendo conto di varie circostanze, inclusa l’assoluta prossimità del porto di Lampedusa e l’auspicabile cessazione del fatto internazionalmente illecito commesso dall’Italia, ha, come sappiamo, scelto di restare e, quando lo stato di necessità si è fatto ancor più pressante, ha deciso di ignorare gli ordini delle autorità italiane che le avrebbero impedito di compiere il suo dovere in base al diritto internazionale e, di riflesso, come chiarisce in modo esemplare l’ordinanza del GIP di Agrigento, secondo il diritto interno.

Tale dovere, infatti, stante la sua natura incondizionata, persiste sino alla conclusione dell’operazione di salvataggio, indipendentemente dalle scelte fino a quel punto compiute dal comandante. Analogamente, eventuali errori di valutazione da questo commessi nell’individuazione del porto sicuro più vicino non esimono lo Stato, cui tale porto appartiene, dall’obbligo di facilitare il salvataggio. L’eventuale responsabilità del comandante è altra questione e va trattata a operazione conclusa. Com’è stato giustamente notato, il rifiuto dello Stato di cooperare (o peggio…) sarebbe ancor meno giustificabile a titolo di reciprocità, cioè come risposta a una generalizzata tendenza degli altri Stati a disattendere obblighi dello stesso genere. Se, come pare, l’esigenza di salvare la vita del naufrago proietta un obbligo erga omnes a carico degli Stati, non è certo accusandosi reciprocamente di omesso soccorso che questi possono esimersi dalle proprie responsabilità. In circostanze in cui il dispositivo di attuazione dell’obbligo erga omnes si incaglia sul piano delle relazioni interstatali, il dovere del comandante di trarre in salvo i naufraghi e le sue decisioni relative all’individuazione del porto vicino più sicuro assumono carattere dirimente, nel senso che vincolano lo Stato del porto a cooperare affinché l’obbligo di salvataggio si attui per conto della comunità internazionale.

«Afferrala e legale le mani dietro», ordina il probulo (la pubblica autorità) irrompendo sulla scena e additando Lisistrata. Per fortuna, l’arresto del comandante Rackete è durato poco.

«È giusta pietà salvare i naufraghi (onorare i defunti, nel dramma originale), ma il potere, per chi ha caro il potere, non ammette trasgressione; la tua ira, che decide da sé, ti ha perduta», scandisce il Coro rivolto ad Antigone. Ancora una volta, la comandante Rackete con Antigone non condivide né i gesti né il destino. Non agisce d’impeto, come in preda a una forza irresistibile, bensì con sagacia e prudenza. «Nessun senno è nel compiere gesta oltre misura», suggerisce Ismene a sua sorella Antigone, ma il rimprovero non potrebbe riguardare il comandante Rackete, la quale non si contrappone al potere, tout court, ma spinge un potere dello Stato ad accertare la trasgressione del diritto commessa da un altro potere dello Stato.

La prima notevole conseguenza del suo agire politico è un possibile, prezioso chiarimento del quadro giuridico rilevante, che la motivazione dell’ordinanza del GIP di Agrigento potrebbe del resto prefigurare, già a pochi giorni dallo sbarco. L’elemento-cardine di questo chiarimento consiste nella repressione di quel monstrum giuridico, il cui capo ha preso ad affiorare in acque mortifere, che è il «soccorso in mare di immigrazione» (per citare l’espressione impiegata dalla direttiva del 15 maggio 2019 con cui il Ministro dell’Interno ha ingiunto alle autorità competenti di vigilare sui comportamenti della nave Sea Watch 3). Si può essere migranti e naufraghi nello stesso tempo, ma, dal punto di vista giuridico, si è solo una cosa alla volta. Prima il soccorso in mare, quindi la gestione dei flussi migratori.

Offrendo la sua libertà agli aguzzini, la comandante Rackete ha accelerato un primo scioglimento del dramma. Le oscenità sessiste con cui la plebaglia digitale ha reagito al suo arresto e alla sua liberazione sono un’eco lugubre della sovreccitazione maschile che permise a Lisistrata di trionfare. Insieme alla dottoressa Vella, giudice ad Agrigento, Carola Rackete contribuisce a dissipare l’ombra che, proiettata dall’ostilità nei confronti del migrante, tende a eclissare il naufrago. Di lei e della dottoressa Vella sembra giusto dire che «in loro c’è vita, incanto e pretesa, c’è esperienza ed amore intelligente della città» – così il Coro delle Donne rivolgendosi a Lisistrata e alle sue sodali.

Nota – I brani citati sono tratti da Sofocle, Antigone, trad. M. Cacciari, Torino, 2007; Aristofane, Lisistrata, trad. G. Greco, Milano, 2016. Siamo grati a Francesca De Vittor e Cesare Pitea per le informazioni che ci hanno fornito e a Pasquale De Sena per un interessante commento.

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