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Un gioco delle parti sulla pelle delle persone. L’insostenibilità delle ragioni greche, turche ed europee nella crisi migratoria in corso.

Andrea Spagnolo, Università di Torino, Membro della Redazione

1. L’epidemia da Coronavirus ha giustamente catalizzato tutta l’attenzione mediatica delle ultime settimane, impedendo agli organi di stampa di dedicare spazi adeguati alla nuova ‘crisi dei migranti’ in corso al confine greco-turco.

Cionondimeno, la vicenda, per sommi capi, può essere così riassunta. L’intervento militare turco nel nord della Siria, che, iniziato a gennaio, ha raggiunto il suo culmine a inizio marzo 2020, secondo l’OCHA, avrebbe causato, dal suo inizio, circa novecentomila sfollati, che sono andati ad aggiungersi ai circa quattro milioni di rifugiati siriani presenti in Turchia (sull’operazione militare turca v. una descrizione qui).

Il Governo turco ha fatto transitare i potenziali richiedenti asilo (stimati in centomila dal Ministro degli Interni) per il proprio Paese, permettendo loro di giungere al confine (anzi: ai confini) con la Grecia. Quest’ultima ha deciso di ‘militarizzare’ le aree di confine, dichiarando di non accettare ulteriori richieste di asilo, respingendo potenziali richiedenti con ogni mezzo, e invocando l’art. 78, comma 3, del TFUE, il quale stabilisce che il Consiglio può adottare misure temporanee a beneficio di uno Stato membro dell’Unione che affronti una situazione di emergenza.

Nel frattempo, gli individui che hanno tentato di attraversare il confine greco-turco sono stati oggetto di violenze inaccettabili (per un resoconto, v. l’articolo di Annalisa Camilli su Internazionale) e – notizia di tre giorni fa – trattenuti in località segrete e sottoposti a trattamenti inumani e degradanti.

Sebbene tale ultimo aspetto sia il più drammatico e l’attenzione della società civile sia giustamente rivolta ad assicurare il rispetto dei diritti umani e della Convenzione di Ginevra del 1951 (v. ad esempio il richiamo di ECRE), il presente contributo ha l’obiettivo di fare chiarezza su alcuni aspetti generali della vicenda. Dal punto di vista del diritto internazionale e del diritto dell’Unione europea, infatti, le posizioni dei tre attori coinvolti – Grecia, UE e Turchia – sollevano pesanti interrogativi in ordine alla legittimità delle rispettive azioni e reazioni.

A tal fine, il post si concentrerà, analizzandole criticamente, sulle dichiarazioni ufficiali rese dai tre attori appena menzionati, in particolare: la dichiarazione del Primo ministro greco del 3 marzo 2020; la dichiarazione dei Ministri degli affari esteri dell’UE del 6 marzo 2020 e quella del Governo turco, rilasciata lo stesso giorno.

Dopo aver brevemente scorso le dichiarazioni appena elencate, il post offrirà alcune brevi riflessioni utili ad isolare e a confutare alcuni degli argomenti giuridici sollevati dalle parti nella prospettiva del diritto internazionale.

2. Il 3 marzo scorso il Primo Ministro greco, al termine di un incontro con i Presidenti del Consiglio europeo, della Commissione e del Parlamento europeo, ha esordito dichiarando che la condotta del Governo turco consistente nel ‘lasciar passare’ (o addirittura incoraggiare il transito de)i richiedenti asilo verso i confini con la Grecia costituirebbe una «full breach of the EU-Turkey statement». Il richiamo alle possibili violazioni dello statement del 18 marzo 2016 è presente in vari punti del discorso, ma assume un particolare interesse quando si traduce nelle seguente affermazione: «Turkey blatantly violates the EU-Turkey statement, according to which Turkey must retain refugees in its territory, while preventing illegal pathways to Greece». Sembra che il Primo Ministro greco si riferisca anzitutto alla parte dello statement in cui la Turchia si impegna a prevenire la creazione di nuove rotte illegali verso l’UE (punto 3 dello statement).

Non è tutto. L’ingresso ‘illegale’ (sic!) di individui sul territorio greco viene tratteggiato dal Premier come una violazione della sovranità («a breach of our sovereign territory, with people of unknown origin and unknown purposes at the forefront, who don’t hesitate to blatantly use violence to enter Greek territory») riconducibile, in ultima istanza, al Governo turco; collegamento provato – o provabile – dall’uso da parte dei migranti di gas lacrimogeno normalmente in dotazione all’esercito turco.

Da ultimo – ma è forse il punto più interessante del discorso – il Primo Ministro greco sembra voler offrire una giustificazione alla condotta dei propri organi affermando che «It is my responsibility to safeguard the integrity and sovereignty of my country, and I intend to do that. It is the duty of the EU to assist Greece and they will do that. So, we respond in order to protect our borders and to ensure the safety of all of Europe» e invocando la conformità delle proprie azioni al diritto europeo e internazionale.

Lo stesso giorno, i Presidenti delle tre istituzioni europee presenti all’incontro hanno rilasciato dichiarazioni volte ad affermare la necessità di rispettare il diritto europeo, internazionale e i diritti umani, in particolare la dignità umana. Dal punto di vista giuridico, merita sottolineare il richiamo del Presidente del Consiglio europeo e di quello del Parlamento europeo al rispetto da parte della Turchia dell’accordo (sic!) del 2016: «Indeed we have an agreement with Turkey on migration and indeed it’s very important to implement this agreement», sostiene Michel; «We are also here for a third reason: to let Turkey know that we are here to talk. Turkey should respect the agreements!», dichiara Sassoli.

Di contenuto assai simile risulta la dichiarazione congiunta dei Ministri degli affari esteri dell’UE, rilasciata a seguito di una riunione straordinaria del Consiglio tenutasi il 6 marzo 2020, dove tuttavia viene fatto un passo ulteriore, che sembra accomodare la posizione del Governo greco. Infatti, dopo aver chiarito che «This situation at the EU external border is not acceptable. The EU and its Member States remain determined to effectively protect EU’s external borders. Illegal crossings will not be tolerated», la dichiarazione paventa il ricorso a tutte le misure necessarie nel rispetto del diritto europeo e internazionale e chiude (la parte relativa alla crisi migratoria) con un richiamo alla Turchia al rispetto del Joint Statement (cit.) del 2016.

La ‘replica’ del Governo turco non si è fatta attendere. Nello stesso giorno – il 6 marzo – veniva rilasciata una nota con cui Ankara evidenziava due punti forti e lasciava intuire una possibile risposta alle ‘accuse’ congiunte greco-europee.

Anzitutto il Governo turco imputa alla Grecia e all’UE la violazione dei diritti degli individui che, ancora in questi giorni, stanno tentando l’attraversamento del confine, richiamando al rispetto delle norme relative alla protezione dei rifugiati (Convenzione di Ginevra del 1951) e delle stesse norme del Sistema europeo comune di asilo.

In secondo luogo, e in chiusura, anche il Governo turco si appella esplicitamente al rispetto – questa volta da parte dell’UE – dello statement del 18 marzo del 2016.

Più in filigrana sembra potersi leggere una forma di giustificazione, che prima abbiamo definito risposta, alle accuse rivolte dalla Grecia. Nella parte iniziale della nota, infatti, viene affermato che «the EU has still not been able to comprehend the extraordinary burden stemming from migration and security challenges that Turkey has been encountering, as well as the efforts we have made», lasciando intuire quali siano le ragioni che hanno indotto il Governo turco ad adottare certe condotte.

3. Una superficiale analisi delle tre dichiarazioni nel loro complesso suggerisce tre elementi intorno a cui svolgere un’iniziale riflessione: a) il valore giuridico dello statement del 2016; b) la qualificazione della vicenda, da parte del Governo greco, come una violazione della propria sovranità e la titolarità di questo Stato e/o dell’UE ad agire in contromisura nei confronti di individui; c) la giustificazione del Governo turco.

a) Un punto che accomuna tutte e tre le dichiarazioni riguarda il valore giuridico del più che noto accordo-dichiarazione congiunta tra UE e Turchia del 18 marzo 2016 (su cui vedasi in generale il post di Emanuela Roman su SIDIBlog). È altresì noto che il Tribunale ha, nel 2017, nella causa NF c. Consiglio europeo, avvalorato la tesi di quest’ultima istituzione: che la dichiarazione congiunta non sia attribuibile all’Unione, bensì ai propri Stati membri a prescindere dalla sua qualificazione giuridica come trattato o come mera dichiarazione politica, suscitando reazioni critiche (per tutti v. Cannizzaro).

Ora, le dichiarazioni in esame sembrano anzitutto conferire allo statement del marzo 2016 un valore giuridico che, quanto meno, può dar luogo a proteste sul piano internazionale. Infatti, se è vero che, secondo alcuni (su tutti v. Kolb, p. 83), anche mere dichiarazioni politiche che indicano certe condotte possano essere oggetto di proteste sul piano internazionale, le veementi posizioni del Governo greco e dell’UE lasciano pensare che questi intendessero sin da subito lo statement del 2016 come un atto giuridico internazionale vincolante. D’altronde solo così si spiegherebbe il ricorso a espressioni quali ‘full breach’ e ‘blatant violation’, impiegate dal Premier greco.

Curiosamente, forse per un lapsus, sia il Presidente del Consiglio europeo, sia il Presidente del Parlamento europeo, nelle loro dichiarazioni del 3 marzo 2020 impiegano addirittura il termine ‘agreement’, riferendosi alla dichiarazione del 2016.

Queste posizioni sembrano dunque avvalorare la tesi di chi sostiene il carattere giuridicamente vincolante della dichiarazione fondando le proprie ragioni sulla definizione di trattato nel diritto internazionale. Fin da subito è parso difficile caratterizzare la dichiarazione come un mero atto politico e dunque è possibile sin d’ora, nel corso del post, definirla come ‘accordo’.

Inizialmente, la protesta giunge dal Governo greco, ciò che potrebbe indurre a ritenere che il Tribunale avesse ragione nell’attribuire l’accordo agli Stati membri dell’UE. Le proteste manifestate su un piano ufficiale da rappresentanti di alto livello delle istituzioni dell’Unione, d’altro canto, fanno invece propendere per una soluzione di segno opposto: a che titolo il Presidente del Consiglio europeo e il Presidente del Parlamento europeo, nonché, tre giorni dopo, i Ministri degli affari esteri dell’Unione riuniti nel Consiglio potrebbero invocare la violazione e/o chiedere il rispetto di un accordo sottoscritto dai soli Stati membri?

In tal senso, la dichiarazione di Michel appare chiara, non foss’altro perché il Presidente del Consiglio europeo si riferisce all’accordo con la Turchia impiegando la prima persona al plurale…

A ciò si aggiunga il contenuto della nota rilasciata dal Governo turco, dove questo Stato richiede all’UE – e non ai suoi Stati membri – il rispetto dell’accordo del 2016.

In conseguenza di ciò, sembra potersi concludere che siano gli stessi attori a ritenere che l’accordo con la Turchia sia a tutti gli effetti un trattato internazionale sottoscritto dall’UE, suscettibile di essere oggetto di proteste in caso di mancato rispetto.

b) Spostando l’analisi dall’accordo UE-Turchia al diritto internazionale generale, occorre porre la giusta attenzione alla parte della dichiarazione del Primo Ministro greco in cui l’intera vicenda viene qualificata come una violazione della sovranità territoriale.

Occorre domandarsi a quale soggetto il Premier stia imputando la violazione della sovranità territoriale: gli individui in quanto tali o in quanto espressione del Governo turco?

Dalle indicazioni che emergono dalla sua dichiarazione, sembra che il Primo Ministro voglia ‘internazionalizzare’ la vicenda («what happens in the Greek borders is an international political issue of the utmost importance, and it must be addressed as such») attribuendo alla Turchia la violazione («Greece do not accept this situation which is demonstrated by all kinds of evidence: public statements by President Erdogan threatening to open the gates to allow the entry of migrants into Europe, videos showing Turkish buses transferring thousands of people for free accompanied by Turkish gendarmerie, testimonies of those who arrived in Evros, as well as messages from smugglers who talk about allegedly open borders»).

Appare altresì dalla dichiarazione che il Primo Ministro qualifichi il rifiuto di nuovi ingressi come una ‘reazione’ della Grecia alla pretesa violazione della propria sovranità territoriale.

Non è qui possibile indugiare troppo sulla qualificazione giuridica della condotta della Turchia – che potrebbe essere oggetto di altro post – ma una breve riflessione appare utile per introdurre i successivi argomenti. Il punto è il seguente: è possibile che la Turchia stia violando la sovranità territoriale della Grecia permettendo, consapevolmente, che potenziali richiedenti asilo stanziati sul proprio territorio transitino verso i confini greci?

Il Governo greco potrebbe lamentare la violazione del proprio diritto a esercitare una giurisdizione esclusiva sul proprio territorio, così come formulato nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sulle relazioni amichevoli del 1970 (questa possibilità è sostenuta convintamente da Garvey, p. 494; Garry, p. 105-106). Secondo Tomuschat (p. 71-72) l’illecito si configurerebbe quando lo Stato consapevolmente trasferisca verso un altro Stato individui che non hanno prima facie diritto d’ingresso sul territorio di quest’ultimo.

Se da un lato rientra nel novero delle possibilità la configurazione di una violazione della sovranità territoriale greca, dall’altro viene da chiedersi se sia possibile ritenere che la reazione di Atene – consistente nell’esercizio di violente attività di polizia e militari nei confronti di individui – sia legittima dal punto di vista del diritto internazionale e qualificabile eventualmente come contromisura così come lascia intendere il Governo ellenico?

Due circostanze suggeriscono una risposta negativa.

Anzitutto, le misure messe in atto dal Governo greco sono rivolte verso gli individui, non verso il Governo turco; dunque, o Atene sta ritenendo che gli individui al confine siano agenti di Ankara, oppure non si può parlare di contromisure. Inoltre – e questa è la seconda circostanza – l’adozione di contromisure incontra il limite della tutela dei diritti fondamentali; nel caso di specie, appare di tutta evidenza che le condotte del Governo greco siano difficilmente compatibili con le norme pattizie e generali poste a tutela dei diritti umani.

In questa prospettiva non sembra nemmeno giustificabile la decisione del Governo greco di non accettare più domande d’asilo.

c) Da ultimo occorre brevemente concentrarsi sulla posizione del Governo turco. Allo stato la condotta del Governo turco è qualificata come una violazione dell’accordo UE-Turchia del 2016 e come una violazione della sovranità territoriale della Grecia.

Detto che quest’ultima tesi non appare del tutto insensata, è interessante osservare come la Turchia si sia ‘giustificata’ invocando una situazione straordinaria, che solleva questioni di sicurezza nazionale.

Se valutassimo la giustificazione nell’ambito dell’accordo UE-Turchia potremmo forse pensare che la Turchia stia giustificando il mancato rispetto dell’accordo sulla base di un’impossibilità sopravvenuta. Tuttavia, la categoria in parola richiede la scomparsa dell’oggetto del trattato oppure di una ‘legal situation’ necessaria per la sua attuazione. Non sembra questo il caso; così come non sembra potersi configurare l’ipotesi di un mutamento fondamentale delle circostanze, non foss’altro perché tale mutamento sarebbe stato causato dalla stessa Turchia.

Sul piano del diritto internazionale generale, la situazione è più sfumata. L’invocazione di esigenze di sicurezza nazionale è spesso ricondotta nell’ambito dell’eccezione dello stato di necessità (art. 25, Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati). Tre condizioni debbono sussistere affinché una simile eccezione possa essere sollevata con successo: 1) che non vi sia altro mezzo per proteggere un interesse essenziale da un pericolo grave ed imminente; 2) che non si pregiudichi così un interesse essenziale dello Stato o degli Stati nei confronti dei quali l’obbligo esista, ovvero della comunità internazionale nel suo complesso; 3) che lo Stato che lo invochi non abbia contribuito a creare la situazione di necessità.

Quanto al primo aspetto, è ragionevole ritenere che, se è vero che tutte le parti concordano sull’esistenza di un accordo vincolante tra UE e Turchia, quest’ultima avrebbe potuto ricorrere ai meccanismi in esso previsti, oppure chiedere una ri-negoziazione dei termini dello stesso. Venendo alla seconda condizione, si è già visto che la condotta della Turchia è suscettibile di violare un interesse essenziale della Grecia – il rispetto della sovranità territoriale – e financo contribuire alla violazione di obblighi erga omnes, cioè la tutela dei diritti umani. Con riferimento all’ultima condizione, è necessario sottolineare che l’ingente afflusso di potenziali richiedenti asilo è stato causato dall’intervento militare turco in Siria, la cui legittimità è quantomeno dubbia.

In conclusione, la possibilità per la Turchia di giustificare le proprie azioni sul piano dello stato di necessità appare debole.

4. Questo breve post ha voluto mettere in luce le ambiguità e le contraddizioni delle giustificazioni addotte da Grecia, UE e Turchia per il trattamento dei migranti/richiedenti asilo ammassati ai confini greci. Si è visto che tutti e tre gli attori coinvolti hanno provato, esplicitamente o implicitamente, a giustificare le proprie azioni sul terreno del diritto internazionale. Tali giustificazioni non tengono, per le ragioni esposte, ma forse per una più generale, che non era oggetto specifico del post, ma che potrà e dovrà essere ripresa: le condotte in essere costituiscono con ogni probabilità gravi violazioni dei diritti fondamentali.

Le dichiarazioni che hanno accompagnato le azioni dei due Governi e i silenzi quasi assordanti dell’UE, lungi dal costituire solide basi giuridiche per le loro condotte od omissioni assumono la drammatica veste di un gioco delle parti condotto sulla pelle delle persone.

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