diritto internazionale pubblico

La sentenza N.D. e N.T. della Corte europea dei diritti umani: uno “schiaffo” ai diritti dei migranti alle frontiere terrestri?

Francesca Mussi, Università di Trento

  1. Osservazioni introduttive

Con sentenza resa il 13 febbraio 2020 nel caso N.D. e N.T. c. Spagna, la Grande Camera della Corte europea dei diritti umani ha affrontato per la prima volta la questione dei respingimenti sommari di migranti alle frontiere terrestri che separano la città autonoma di Melilla, énclave spagnola di circa 12 km2 situata sulla costa nord-africana, dal Regno del Marocco. La pronuncia in esame rappresenta l’epilogo di una vicenda processuale iniziata il 12 febbraio 2015, con il deposito, da parte di due cittadini di nazionalità maliana e ivoriana, di due ricorsi volti ad accertare se la misura di rimpatrio immediato adottata nei loro confronti dalla Guardia civile spagnola di stanza a Melilla costituisse una violazione dell’obbligo di non respingimento, del diritto a non essere sottoposti a espulsioni collettive e del diritto a un ricorso effettivo, come affermati, rispettivamente, nell’art. 3, nell’art. 4 del IV Protocollo e nell’art. 13 CEDU.

I fatti di causa possono essere sintetizzati come segue. Nell’agosto 2014, dopo aver soggiornato vari mesi in Marocco, i due ricorrenti, insieme a circa ottanta altri migranti provenienti dall’Africa subsahariana, tentavano di fare ingresso in modo irregolare nel territorio spagnolo attraverso la frontiera di Melilla. Il valico è costituito da tre linee di recinzione successive lunghe 13 km, di forma leggermente concava, che si stagliano su due livelli diversi fino a raggiungere 6 metri di altezza, e da un sofisticato sistema di videocamere di sorveglianza a raggi infrarossi e di sensori di movimento. Le barriere sono integrate da quattro porte di sicurezza che consentono il passaggio delle guardie di frontiera da un versante all’altro del valico. I due ricorrenti, in momenti diversi, raggiungevano la sommità della terza recinzione e, dopo alcune ore, aiutati dalle autorità spagnole, riuscivano a scendere dallo sbarramento. A quel punto venivano immediatamente fermati e rimpatriati in Marocco, insieme agli altri migranti che avevano cercato invano di oltrepassare la barriera nel medesimo giorno. Il rimpatrio immediato avveniva senza che ai ricorrenti fosse data la possibilità di ricevere assistenza sanitaria, linguistica e legale, e in assenza di ogni procedura volta all’identificazione o a conoscerne le specifiche situazioni individuali. A distanza di alcuni mesi, dopo ulteriori tentativi, N. D. e N. T. riuscivano a oltrepassare la frontiera di Melilla e a entrare in territorio spagnolo, dove erano però destinatari di nuovi provvedimenti di espulsione.

Con sentenza resa il 3 ottobre 2017, la Corte europea dei diritti umani (terza sezione), dopo avere escluso la rilevanza dell’art. 3 CEDU in una precedente decisione di inammissibilità stante la mancata sottoposizione dei ricorrenti a tortura o trattamenti inumani o degradanti in Marocco o in un diverso Paese, ha riconosciuto all’unanimità che, con riferimento al primo tentativo di ingresso sul territorio spagnolo, lo Stato convenuto aveva violato sia l’art. 4 del IV Protocollo sia l’art. 13 CEDU in combinato disposto con la prima disposizione (v. i commenti di Cellamare, Moya, Pijnenburg e Salvadego). Su richiesta del Governo spagnolo, il caso è stato successivamente rinviato alla Grande Camera, che, dopo più di un anno, è pervenuta a conclusioni di diverso tenore. A parere di quest’ultima, infatti, lo Stato convenuto non ha commesso alcuna violazione del divieto di espulsioni collettive, poiché i ricorrenti si sono volontariamente posti in una situazione di illegalità nel momento in cui hanno superato il confine di Melilla senza autorizzazione, sfruttando a proprio vantaggio il fatto che il tentativo di oltrepassare le barriere fosse avvenuto in massa e scegliendo di non utilizzare un percorso regolare di ingresso.

La pronuncia in esame è stata accolta nei primi commenti a caldo come una “shockante” legittimazione dei respingimenti sommari di coloro che tentano di raggiungere le énclaves spagnole di Ceuta e Melilla in modo irregolare (v., in tal senso, Pichl-Schmalz), tale da infliggere un vero e proprio “schiaffo” alla tutela dei diritti fondamentali dei migranti (v. Oviedo Moreno).

Attraverso l’analisi delle controverse considerazioni svolte dai giudici di Strasburgo, in questa sede ci si propone di mettere in luce come la sentenza resa nel caso N.D. e N.T. c. Spagna, pur non rappresentando, in linea di principio, una legittimazione dei respingimenti collettivi di stranieri alle frontiere terrestri in quanto tali, di fatto finisce per prevedere una tanto ampia quanto inspiegabile eccezione al divieto di cui all’art. 4 del IV Protocollo CEDU, rappresentando così uno sconcertante precedente attraverso il quale spostare a favore degli Stati il punto di equilibrio nel bilanciamento tra la tutela dell’interesse degli stessi alla protezione delle proprie frontiere rispetto all’ingresso irregolare di migranti.

  1. La nozione di giurisdizione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani

La prima questione posta all’esame della Grande Camera riguarda la possibilità di stabilire la giurisdizione della Spagna rispetto ai fatti oggetto del giudizio. Al riguardo, la Corte richiama la nozione consolidata di giurisdizione elaborata in relazione all’art. 1 CEDU, ribadendo che gli Stati parti devono riconoscere le libertà e i diritti enumerati nella Convenzione a tutti gli individui sottoposti alla loro giurisdizione (nella giurisprudenza, v. per tutte Banković e altri c. Belgio e altri [GC], ricorso n. 52207/99, decisione del 12 dicembre 2001, par. 66; in dottrina, v. ampiamente De Sena) e che il suo esercizio costituisce una condizione preliminare e necessaria affinché sia configurabile la responsabilità di uno Stato parte per le condotte o le omissioni a esso imputabili (v. per tutte Ilaşcu e altri c. Moldavia e Russia [GC], ricorso n. 48787/99, decisione dell’8 luglio 2004, par. 311). Pur confermando che la nozione di giurisdizione ha carattere essenzialmente territoriale (v. ancora Banković [GC], cit., par. 59; Ilaşcu [GC], cit., par. 312; Güzelyurtlu e altri c. Cipro e Turchia [GC], ricorso n. 36925/07, decisione del 29 gennaio 2019, par. 178) ed è normalmente presunta nell’intero territorio dello Stato, la Grande Camera ricorda che eventuali limiti sussistono solo in via d’eccezione, laddove vi siano aree dello Stato sottratte al suo effettivo controllo (così Assanidze c. Georgia [GC], ricorso n. 71503/01, decisione dell’8 aprile 2004, paragrafi 137-39; Ilaşcu [GC], cit., paragrafi 312-313 e 333).

Nell’applicazione dei summenzionati criteri al caso di specie, la Corte parte dal presupposto dell’incontestabilità della collocazione dei fatti di causa in territorio spagnolo (par. 104) per poi esaminare se lo Stato convenuto possa invocare la sussistenza di circostanze eccezionali idonee a escludere la propria giurisdizione (par. 105). A tale proposito, i giudici di Strasburgo ricordano sì di avere in precedenza riconosciuto che gli Stati che si trovano alle frontiere esterne dell’area Schengen stanno incontrando notevoli difficoltà nella gestione dei copiosi flussi migratori (v. M.S.S. c. Belgio e Grecia [GC], ricorso n. 30696/09, decisione del 21 gennaio 2011, par. 223; Hirsi Jamaa e altri c. Italia [GC], ricorso n. 27765/09, decisione del 23 febbraio 2012, par. 122; Sharifi e altri c. Grecia e Italia, ricorso n. 16643/09, decisione del 21 ottobre 2014, par. 176), ma di non averne mai tratto ulteriori conseguenze in merito a eventuali eccezioni rispetto all’esercizio della giurisdizione da parte di questi Stati (par. 106). In effetti, anche nel caso sottoposto a decisione, lo Stato convenuto ha fatto riferimento alle criticità connesse alla gestione del fenomeno migratorio in prossimità dell’énclave di Melilla, tentando di dimostrare come tale circostanza abbia ivi impedito l’esercizio della sua piena autorità, senza però riuscire a persuadere la Grande Camera, la quale ha peraltro evidenziato che le autorità spagnole erano le uniche operanti nella parte di territorio interessata (par. 107).

Alla luce di quanto sopra, la Corte riconosce la sussistenza della giurisdizione della Spagna rispetto ai fatti di causa (par 108).  A suo parere, infatti, sebbene la pressione migratoria rappresenti una peculiarità dell’attuale contesto politico, tale contingenza non può comunque giustificare l’istituzione di aree sottratte al rispetto degli obblighi di tutela previsti in capo agli Stati parte della Convenzione nei confronti di tutti gli individui sottoposti alla loro giurisdizione (par. 110; v., mutatis mutandis, Hirsi Jamaa [GC], cit., par. 178).

  1. Il divieto di espulsioni collettive di stranieri e il diritto a un rimedio effettivo

Dopo avere rigettato le due eccezioni preliminari sollevate dal Governo spagnolo con riguardo alla pretesa assenza della qualità di vittima dei ricorrenti e al mancato esaurimento dei mezzi di ricorso interni, la Corte passa all’esame di merito, al fine di verificare se i fatti dedotti in giudizio dai ricorrenti integrino una espulsione collettiva di stranieri, ai sensi dell’art. 4 del IV Protocollo CEDU.

Per rispondere a tale quesito, la Corte prende in analisi una pluralità di questioni. In primo luogo, essa considera la possibilità di sussumere la non ammissione di un cittadino straniero alla frontiera nella nozione di espulsione. A tale proposito, sulla scorta dell’ampia definizione contenuta all’art. 2 del Progetto di articoli sull’espulsione degli stranieri elaborato dalla Commissione di diritto internazionale nel 2014 e della nota giurisprudenza precedente (v. per tutte Khlaifia e altri c. Italia [GC], ricorso n. 16483/12, decisione del 15 dicembre 2016, par. 243 ss.; Hirsi Jamaa [GC], cit., par. 173 ss.; in dottrina, sul caso Khlaifia, v. Saccucci), la Grande Camera interpreta il termine “espulsione” secondo il significato generico attualmente in uso (“allontanare da un luogo”), comprensivo di qualsiasi misura di allontanamento forzato di uno straniero dal territorio di uno Stato, indipendentemente dalle specifiche circostanze del caso, quali, per quanto di rilievo in questa sede, il carattere regolare o meno del soggiorno e la condotta tenuta durante l’attraversamento del confine (par. 185). In effetti, tale approccio sembra imporsi anche in forza del combinato disposto con l’art. 1 della medesima Convenzione (v. nel medesimo senso Hirsi Jamaa [GC], cit., paragrafi 175-180). Analogamente alla nozione di giurisdizione, anche quella di espulsione ha carattere essenzialmente territoriale, nel senso che tale misura, nella maggior parte dei casi, assume la forma dell’allontanamento di uno straniero dal territorio dello Stato. Tuttavia, nulla esclude che, in via eccezionale, essa possa concretizzarsi in un respingimento alla frontiera. A parere della Corte, infatti, attribuire alla nozione di espulsione carattere strettamente territoriale comporterebbe una discrepanza tra l’ambito di applicazione della CEDU e quello dell’art. 4 del IV Protocollo (ibid., par. 178).

Alla luce di tali premesse, la Corte ritiene sussistente un’espulsione di stranieri, posto che i ricorrenti sono stati forzatamente allontanati dal territorio spagnolo verso il Marocco, a opera di agenti della Guardia civile, sotto la cui esclusiva giurisdizione si trovavano (par. 191).

La Corte passa, quindi, a considerare il carattere collettivo della misura, che, come noto, esiste con riferimento a ogni azione statale che costringe degli stranieri in quanto gruppo a lasciare un Paese, senza che la stessa sia posta in essere sulla base di un esame obiettivo e ragionevole della particolare situazione in cui si trova ciascuno degli individui che compongono il gruppo (v. Khlaifia [GC], cit., par. 237 ss.). Quanto alla nozione di gruppo, essa non è definita né in funzione del numero dei membri né in base a specifiche caratteristiche comuni, quali origine o nazionalità (paragrafi 194-195).

Nello sviluppo delle sue argomentazioni, la Corte prende in esame un ulteriore elemento, vale a dire la condotta del ricorrente (par. 200). Secondo giurisprudenza ritenuta consolidata dalla Grande Camera, non è infatti configurabile una violazione dell’art. 4 del IV Protocollo CEDU se la mancata adozione di un provvedimento di espulsione individuale è, in qualche misura, attribuibile alla condotta propria del richiedente (Khlaifia [GC], cit., par. 240; Hirsi Jamaa [GC], cit., par. 184). Il suddetto modus procedendi trova applicazione anche nel caso di un gruppo di migranti che attraversano in massa un confine terrestre in modo non autorizzato, facendo ricorso alla forza, allo scopo di creare una situazione difficilmente controllabile e tale da mettere in pericolo la sicurezza pubblica (par. 201). A parere dei giudici di Strasburgo, una situazione come quella delineata impone, però, di considerare inoltre se lo Stato convenuto abbia effettivamente fornito un canale di accesso ai mezzi legali di ingresso, in particolare in corrispondenza dei valichi di attraversamento della frontiera terrestre. Se tale canale esistesse e i ricorrenti non se ne fossero avvalsi, la Corte valuterebbe la sussistenza di giustificate ragioni, tali da ritenere lo Stato convenuto comunque responsabile per la mancata identificazione individuale ai punti di accesso al confine (par. 201).

Applicando questo ragionamento al caso in esame, dopo avere respinto la tesi prospettata dallo Stato convenuto secondo cui non sussisterebbe il carattere collettivo dell’espulsione perché la vicenda processuale è stata portata avanti da due soli ricorrenti (par. 203), la Corte procede a valutare la condotta degli stessi. Essa non ritiene configurabile una violazione del divieto di espulsioni collettive come previsto all’art. 4 del IV Protocollo CEDU, poiché i ricorrenti si sono colpevolmente posti in una situazione di illegalità nel momento in cui hanno deciso di superare il confine di Melilla in massa e in modo non autorizzato, anziché scegliere di utilizzare uno dei percorsi regolari di ingresso resi effettivamente disponibili dall’ordinamento dello Stato convenuto. Alla luce di tali considerazioni, la mancata adozione di provvedimenti individuali di allontanamento da parte delle autorità spagnole altro non rappresenta che una conseguenza della condotta dei ricorrenti (par. 231).

Così facendo, i giudici di Strasburgo hanno accolto integralmente la tesi prospettata dallo Stato convenuto, in base alla quale l’ordinamento spagnolo prevede numerosi canali regolari di ingresso sul proprio territorio, mediante l’accesso alle procedure per la richiesta di protezione internazionale e di asilo, disponibili sia presso il valico di frontiera di Beni-Enzar, in prossimità del luogo dell’assalto alle recinzioni, sia presso le rappresentanze diplomatiche e consolari spagnole site negli Stati di origine e di transito dei ricorrenti, sia, infine, in Marocco (par. 212). Inoltre, la Grande Camera evidenzia che, a partire dal 1° settembre 2014, poco dopo il verificarsi dei fatti di causa, le autorità spagnole avevano istituito un apposito ufficio per la presentazione delle domande di asilo, sito in prossimità della frontiera di Beni-Enzar (par. 213). Peraltro, anche prima dell’istituzione del suddetto ufficio, era comunque disponibile un canale regolare di accesso al territorio spagnolo, come attestato dalla presentazione di ventuno richieste di asilo tra gennaio e agosto 2014, delle quali 6 inoltrate proprio in corrispondenza della suddetta frontiera (ibid.). Da ultimo, la Grande Camera prende atto delle statistiche prodotte dallo Stato convenuto, secondo le quali le domande di asilo presentate a Beni-Enzar nel periodo compreso tra settembre e dicembre 2014 erano aumentate a 404. Alla luce di tali circostanze, la Corte europea ravvisa l’insussistenza di giustificati motivi che, in concreto, abbiano impedito ai ricorrenti di avvalersi dei suddetti mezzi. Ciò trova conferma nel fatto che gli stessi non hanno dimostrato di avere quantomeno esperito un tentativo in tal senso, limitandosi, invece, a fare riferimento a generiche difficoltà di accesso di natura pratica, peraltro mai imputate direttamente alle autorità spagnole (par. 220).

Pur ritenendo le summenzionate circostanze sufficienti a escludere una violazione dell’art. 4 del IV Protocollo 4, la Corte dà conto anche dell’ulteriore possibilità che i ricorrenti avrebbero avuto di accedere alle ambasciate e ai consolati spagnoli, ove chiunque può presentare una richiesta di protezione internazionale. Al riguardo, essa osserva che il consolato spagnolo di Nador si trova a 13,5 km da Beni-Enzar, una distanza che avrebbe agevolmente consentito loro di raggiungerlo (par. 227). Al contrario, i ricorrenti non hanno fornito alcuna argomentazione al riguardo e non hanno neppure dimostrato che tale possibilità fosse stata concretamente preclusa.

Sulla scorta delle valutazioni che precedono, la Corte non riconosce nemmeno la violazione dell’art. 13 CEDU in combinato disposto con l’art. 4 del IV Protocollo CEDU. A suo avviso, infatti, l’assenza di ogni possibilità concreta per i ricorrenti di accedere a un mezzo di ricorso interno a carattere effettivo ai sensi dell’art. 13 CEDU al fine di contestare la legittimità dell’allontanamento altro non rappresenta che una conseguenza della condotta degli stessi ricorrenti, volta a ottenere un ingresso irregolare sul territorio spagnolo (par. 242).

  1. Il ragionamento della Grande Camera: quando la prassi vanifica la teoria

Alla luce dell’attuale contesto politico, in cui un numero crescente di Governi europei costruisce barriere all’ingresso dei propri confini terrestri, la decisione in commento assume particolare rilievo poiché si caratterizza per un inedito intreccio di elaborazioni giurisprudenziali di contrastante tenore. In un’(apparente) ottica di tutela dei diritti dei migranti, esse sembrano, in linea di principio, porsi nel solco della precedente giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani a favore di un’interpretazione estensiva della nozione di “espulsione”. Tuttavia, in concreto, le indicazioni dei giudici di Strasburgo finiscono per consentire agli Stati, in presenza di specifiche condizioni, di allontanare simultaneamente dalla frontiera un gruppo di stranieri senza prima aver esaminato la situazione personale di ciascuno (in tal senso, v. anche le considerazioni svolte da Wissing, p. 4).

Nella prima direzione, è opportuno evidenziare che lo Stato convenuto non è riuscito a sovvertire l’interpretazione del divieto di espulsioni collettive elaborata dalla Corte europea dei diritti umani nel caso Hirsi, che aveva fatto della (fino ad allora) “misteriosa” norma prevista all’art. 4 del IV Protocollo CEDU una delle principali disposizioni a tutela dei diritti fondamentali dei migranti. Otto anni fa, infatti, i giudici di Strasburgo hanno stabilito che il divieto in esame trova applicazione anche con riferimento ai casi di allontanamento avvenuti al di fuori del territorio statale. Nonostante la Spagna, supportata da altri Stati esposti alla pressione migratoria, in primis l’Italia, abbia sostenuto l’inapplicabilità dell’art. 4 del IV Protocollo CEDU ai casi di mancato ingresso alla frontiera, la Grande Camera ha riaffermato con forza le posizioni precedentemente espresse (sul punto, v. Thym, p. 2). Attraverso la pronuncia resa nel caso in esame, la Corte europea non legittima, dunque, le pratiche dei respingimenti collettivi in quanto tali (in tal senso, v. ancora Wissing, p. 4), sebbene, alla prova dei fatti, essa sembri comunque riconoscere come tale la prassi messa in atto dalle autorità spagnole alla frontiera terrestre tra Melilla e il Marocco.

Peraltro, l’interpretazione del divieto di espulsione collettive ribadita dalla Grande Camera assume, nell’affare N.D. e N.T., un importante valore pratico. Come noto, infatti, il disposto letterale del divieto in esame non contiene alcuna espressione in grado di limitarne l’applicazione a particolari categorie di stranieri – ad esempio, quelli che, se allontanati, correrebbero il rischio di essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti negli Stati di origine o transito –, essendo l’art. 4 del IV Protocollo CEDU applicabile indistintamente a tutti gli stranieri. Si può, dunque, affermare che la suddetta disposizione rappresenta una garanzia procedurale indipendente e ulteriore rispetto alla tutela sostanziale riconosciuta dal principio di non respingimento, soprattutto quando, come nel caso in esame, non sussista una violazione di quest’ultimo (v., in tal senso, Pichl-Schmalz, p. 3; Thym, p. 2).

A un primo esame, l’approccio interpretativo adottato dalla Corte sembra, dunque, ispirato a un rafforzamento degli standard di tutela dei diritti dei migranti. Tuttavia, tale sforzo giurisprudenziale è in concreto vanificato dall’ingiustificata previsione di un’ampia eccezione che esclude dall’ambito di applicazione dell’art. 4 del IV Protocollo CEDU i migranti che, in assenza di giustificate ragioni, abbiano “colpevolmente” deciso di attraversare il confine terrestre in modo irregolare, pur potendo avvalersi di effettivi canali di accesso ai mezzi legali di ingresso.

La Grande Camera dichiara di basarsi su di una nozione di “condotta colpevole” del ricorrente consolidata nella propria precedente giurisprudenza (par. 200), dando così l’impressione di non volersi discostare rispetto agli orientamenti già adottati. In realtà, nel caso in esame, i giudici di Strasburgo interpretano la suddetta definizione alla luce di criteri del tutto nuovi. In passato, infatti, la Corte ha, ad esempio, identificato tale condotta nel rifiuto opposto dai due ricorrenti di mostrare i propri documenti di identità agli agenti di polizia, che, di conseguenza, non erano stati materialmente in grado di redigere i decreti di espulsione a carico degli stessi (v. per tutte Berisha e Haljiti c. ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, ricorso n. 18670/03, decisione del 16 giugno 2005). Come correttamente osservato in dottrina (in tal senso, v. ancora Pichl-Schmalz, p. 2), nel caso N.D. e N.T., i giudici di Strasburgo sembrano, invece, innalzare una nozione che in precedenza era stata inquadrata nell’ambito degli obblighi di cooperazione con le autorità statali al rango di criterio generale atto a individuare comportamenti idonei a escludere l’operatività del divieto di espulsioni collettive.

L’interpretazione elaborata dalla Corte risulta alquanto discutibile sul piano giuridico. Essa, infatti, aggiunge una limitazione in nessun modo prevista dal disposto letterale dell’art. 4 del IV Protocollo CEDU e in contrasto con lo scopo della disposizione stessa. Nella pronuncia in esame, la Grande Camera sembra quasi confondere questioni di fatto che poco hanno a che vedere con gli obblighi degli Stati parti della CEDU con le garanzie procedurali derivanti dal divieto di espulsioni collettive di stranieri. La semplice “possibilità” che i ricorrenti avevano di recarsi in luoghi diversi per presentare la propria richiesta di protezione internazionale o di asilo non può, infatti, sollevare la Spagna dall’obbligo di esaminare la situazione individuale di ciascuno di essi.

Inoltre, vale la pena di considerare in termini più ampi il ripetuto riferimento che la Corte europea opera all’utilizzo di percorsi regolari di ingresso sul territorio dello Stato di destinazione. Le considerazioni svolte dai giudici di Strasburgo sono caratterizzate dall’impiego di un linguaggio non sempre lineare (v. in tal senso Thym, p. 4). Da un lato, infatti, essi chiedono agli Stati parti di rendere effettivamente disponibili canali legali che consentano a tutti di presentare una domanda di protezione o di asilo. Dall’altro, però, la Corte sembra valutare la pertinente prassi spagnola in termini puramente astratti, limitandosi a insistere sul fatto che i ricorrenti avrebbero dovuto inoltrare la propria richiesta presso il posto di frontiera di Beni-Enzar (par. 213). I giudici di Strasburgo sembrano, dunque, ignorare le criticità evidenziate dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa e dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Al tempo del verificarsi degli eventi di causa, non era, infatti, previsto alcun meccanismo per identificare le persone e individuare i migranti che si trovavano nelle condizioni di poter accedere alla protezione internazionale o formulare una richiesta di asilo. Inoltre, l’ufficio di Beni-Enzar era comunque accessibile ai soli richiedenti asilo siriani (e non ai migranti provenienti dall’Africa subsahariana, spesso esposti a profilazione razziale e controlli più severi da parte delle autorità marocchine) (paragrafi 215-218). Un approccio siffatto sembra attribuire ai canali legali di ingresso sul territorio statale un carattere meramente illusorio (in tal senso v. Oviedo Moreno, p. 3; Thym, p. 4), che contrasta apertamente con l’affermazione della Corte in base alla quale “[…] the Convention is intended to guarantee not rights that are theoretical or illusory but rights that are practical and effective” (paragrafi 171 e 221).

  1. Osservazioni conclusive

Il sentimento di sconcerto con cui parte della dottrina (v. per tutti Oviedo Moreno, p. 1) ha accolto la pronuncia della Grande Camera nel caso N.D. e N.T. c. Spagna sembra dipendere  principalmente dall’errata convinzione che, tramite la sentenza in esame, i giudici di Strasburgo hanno in qualche misura legittimato le espulsioni collettive di stranieri alle frontiere terrestri tout court. L’analisi sopra condotta ha dimostrato che tale assunto non è condivisibile. Tuttavia – sebbene l’esito apparentemente favorevole in misura esclusiva allo Stato convenuto nasconda, in realtà, qualche spiraglio a favore della tutela dei diritti dei migranti – lo sconcerto per le conclusioni raggiunte dalla Corte nel caso di specie permane. Attraverso interpretazioni discutibili – quando non addirittura puramente teoriche – delle garanzie procedurali derivanti dal divieto di espulsioni collettive di stranieri, essa è, infatti, pervenuta all’elaborazione di un’ampia eccezione che, in concreto, consente di escludere dall’ambito di applicazione del suddetto divieto l’allontanamento simultaneo di stranieri i quali, in assenza di giustificate ragioni, abbiano “colpevolmente” deciso di attraversare il confine terrestre in modo irregolare, pur potendo avvalersi di effettivi canali di accesso ai mezzi legali di ingresso.

Da ultimo, vale la pena di evidenziare che allo sconcerto suscitato dalle conclusioni raggiunte sul piano strettamente giuridico, si accompagna quello derivante dal linguaggio utilizzato dalla Grande Camera nella pronuncia. Facendo in più occasioni riferimento a masse di stranieri che tentano di penetrare le frontiere terrestri europee in modo irregolare, attraverso operazioni pianificate e mediante il ricorso alla forza (paragrafi 201, 210-211, 231), i giudici di Strasburgo sembrano cedere alla retorica dell’invasione, propria delle forze politiche europee più autoritarie. La speranza è che ciò non rappresenti una concessione della Corte alle pressioni esercitate dagli Stati maggiormente impegnati nella gestione dei flussi migratori (v. in tal senso Riemer) e, pertanto, più inclini alla realizzazione di forme repressive di respingimenti alle frontiere terrestri (v., ad esempio, quanto sta avvenendo, nel momento in cui si scrive, al confine tra Grecia e Turchia; in tema, v. Spagnolo). Se così fosse, il giudizio in esame rappresenterebbe non solo uno “schiaffo” alla tutela dei diritti dei migranti alle frontiere terrestri, ma, più in generale, il punto di avvio di un percorso che porterebbe inesorabilmente la Corte europea dei diritti umani incontro a una perdita di credibilità come organo giurisdizionale preposto alla tutela dei diritti fondamentali.

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