Attacchi ‘alla Carta’: considerazioni a caldo sui recenti bombardamenti degli USA in Iran

Diego Mauri (Università di Palermo, Membro della Redazione); Andrea Spagnolo (Università di Torino, Membro della Redazione)
Introduzione
Dopo ore di apparenti tentennamenti, gli Stati Uniti d’America hanno fatto il loro «spettacolare» ingresso nel conflitto tra Israele e Iran, divampato il 13 giugno 2025 (su cui v. Santini). Nella notte tra il 21 e il 22 giugno 2025, l’aeronautica statunitense ha colpito i siti di arricchimento nucleare di Natanz (già oggetto di diversi attacchi cibernetici, l’ultimo dei quali nel 2021) e Fordow (probabilmente il più strategico e ‘nascosto’, trovandosi ad almeno 80 metri di profondità sotto uno spesso strato roccioso), nonché il centro scientifico di Isfahan (v. qui). Gli USA hanno fatto ricorso a bombe idonee a distruggere installazioni sotterranee sganciate da bombardieri e a missili da crociera lanciati da un sottomarino.
Stando al Dipartimento della difesa, i tre siti avrebbero subito danni gravi.
Commentare quanto accaduto – e quanto ancora sta accadendo – dal punto di vista del diritto internazionale, e segnatamente delle norme che regolano l’uso della forza nelle relazioni internazionali (il c.d. jus ad bellum), richiede meno sforzi di quanto ci si potrebbe attendere. L’azione statunitense si qualifica come un uso illecito della forza armata contro lo Stato iraniano, avvenuto tramite l’impiego dei mezzi militari sopra descritti. L’impiego di una forza di tale natura – in una con la sua semplice minaccia – è oggetto di un divieto espresso e lapidario contenuto all’art. 2, par. 4, della Carta delle Nazioni Unite e corrispondente a una norma consuetudinaria e cogente di pari contenuto.
La chiarezza di tale conclusione, come si leggerà, è ulteriormente rafforzata dalla critica delle possibili giustificazioni delle azioni statunitensi. Lungi dall’essere un mero esercizio teorico, l’analisi che segue vuole contribuire a fare chiarezza sulle ragioni dell’illiceità dell’attacco contro l’Iran, in uno scenario teso, in cui alcuni Stati sembrano volerlo condonare e financo approvare, non negando supporto agli USA nell’eventualità in cui il conflitto dovesse prolungarsi.
Il terreno su cui si svolgerà l’analisi è quello delle regole e dei principi che regolano l’uso della forza armata, in particolare per il tramite della causa di giustificazione normalmente invocata in questi casi, ovvero la legittima difesa. Accertata l’impossibilità di invocare tale causa, si affronteranno le conseguenze dell’illiceità dell’operazione statunitense nei confronti di Stati terzi e dei futuri (?) negoziati sul programma nucleare iraniano.
Una difesa non legittima
La Carta ONU, com’è noto, nell’art. 51 (e cioè, in chiusura al noto Capitolo VII, che tratta le azioni che l’Organizzazione può intraprendere in caso di aggressione, violazione della e minaccia alla pace e sicurezza internazionali) stabilisce che nulla può impedire a uno Stato, laddove stia subendo un «attacco armato», di far ricorso al diritto «naturale» (inherent nel testo inglese) di difendersi, sia individualmente sia collettivamente. E tale difesa presuppone, tipicamente, l’impiego di forza armata. È nell’ambito di tale norme che possono essere discusse due possibili giustificazioni per l’attacco:
- Gli USA stanno ricorrendo alla legittima difesa individuale, poiché essi stessi destinatari di un attacco armato da parte dell’Iran;
- Gli USA stanno ricorrendo alla legittima difesa collettiva, e cioè stanno aiutando Israele a difendersi da un attacco armato da parte dell’Iran
In entrambi i casi – e cioè, sia che ipotizzassimo un intervento ‘autonomo’ degli USA sia che ipotizzassimo un loro intervento a lato di Israele, ipotesi, quest’ultima, che parrebbe trasparire dalle dichiarazioni rese dal Presidente Trump nella mattina del 22 giugno («we [gli USA e Israele] worked as a team […] and we’ve gone a long way to erasing this horrible threat to Israel») – occorre, affinché sia lecita una reazione in legittima difesa, che i presupposti per l’esercizio di un tale diritto siano soddisfatti. Si tratta di presupposti oramai sedimentati nel diritto consuetudinario:
- Qualificazione delle condotte dello Stato ‘attaccante’ come «attacco armato»
- Imminenza dell’attacco
- Necessità e proporzionalità della reazione in legittima difesa rispetto all’attacco in corso
Ci concentreremo sui primi due requisiti perché, all’evidenza, ‘assorbenti’: se non vi è attacco armato in corso, nemmeno ha senso valutare se la reazione in legittima difesa è necessaria o proporzionata (mancando, a monte, l’attacco da neutralizzare e sulla base del quale valutare gli ultimi due requisiti).
Partendo dunque dal primo: può dirsi che l’Iran stesse conducendo un «attacco armato» nei confronti degli USA (ipotesi sub a) o di Israele (ipotesi sub b)? Non è nemmeno il caso di ricordare come la nozione di«attacco armato» costituisca un termine giuridico, dotato di un certo significato e suscettibile di produrre determinati effetti.
Occorre iniziare da quella che può sembrare un’ovvietà: se l’attacco armato presuppone un certo impiego di forza armata (suscettibile di produrre, di regola, certi effetti cinetici), non ogni uso di forza armata si qualifica come «attacco armato». Immaginiamo il tipico caso di spari al confine tra due Stati (c.d. ‘incidenti di frontiera’) o di colpi di avvertimento sparati tra navi militari in alto mare o, ancora, manovre coercitive tra velivoli militari: ancorché implicanti un certo impiego di forza, queste condotte non sono sufficienti per integrare la categoria di «attacco armato». Lo chiarisce, in modo inequivoco, la giurisprudenza della Corte internazionale giustizia (Attività militari e paramilitari in e contro il Nicaragua (Nicaragua c. Stati Uniti d’America, sentenza del 27 giugno 1986, par. 195; più di recente, e per un caso riguardante proprio gli USA e l’Iran, Piattaforme petrolifere (Repubblica Islamica dell’Iran c. Stati Uniti d’America), sentenza del 6 novembre 2003, parr. 51 ss.). Nel diritto consuetudinario accertato dalla Corte (e riprodotto in talune dichiarazioni dell’Assemblea Generale), la nozione di «attacco armato» corrisponde dunque a un uso particolarmente grave e intenso della forza; al di sotto di tale soglia, l’uso della forza costituisce comunque un illecito, e segnatamente una violazione dell’art. 2, par. 4, della Carta ONU.
Questa interpretazione preserva lo ‘spirito’ (o, detta secondo i termini ermeneutici propri del diritto pattizio, «l’oggetto e lo scopo» della Carta ONU) del divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali: se ogni uso della forza giustificasse una reazione armata a titolo di legittima difesa, l’art. 2, par. 4 si troverebbe svuotato di ogni senso. È lo stesso articolato normativo della Carta a imporre un’interpretazione delle norme dello jus ad bellum secondo una logica che potremmo definire ‘anti-escalatoria’: lo Stato che subisce un uso (o minaccia) della forza non è autorizzato a rispondere con la forza, ma con gli altri strumenti di attuazione coattiva di cui l’ordinamento internazionale dispone; solo e soltanto in caso di attacco armato, e nel rispetto dei limiti imposti dal diritto internazionale, si può reagire in legittima difesa. Per quanto possa sembrare contro-intuitivo, solo su queste premesse si può reggere, come in effetti si regge da ottant’anni esatti, l’ordinamento internazionale contemporaneo.
Ciò premesso, l’argomento degli USA a sostegno del proprio attacco – che fa il paio con quello speso, pochi giorni prima, da Israele per l’avvio della nuova fase delle ostilità con l’Iran – si riduce all’asserita (e, ad oggi, indimostrata) preparazione, da parte dell’Iran, di armi di distruzione di massa, segnatamente di armi nucleari. Vale la pena ricordare come, solo nel 2024, esponenti del governo iraniano abbiano sottolineato la volontà dell’Iran di non dotarsi di armi nucleari, in linea con la fatwa della guida spirituale Khamenei del 2004 (qui, in farsi, qui una traduzione in inglese).
Tuttavia, com’è noto, pur formalmente parte del Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), l’Iran è stato ‘accusato’ di violarlo, conducendo, dall’inizio del XXI secolo, attività secrete ritenute prodromiche alla costruzione di armamenti nucleari. Il Joint Comprehensive Plan of Action del 2015 (su cui v. Sossai), cioè l’accordo con cui l’Iran si è impegnato a limitare a soli scopi pacifici lo sviluppo nucleare – consentito dall’art. IV del TNP – e ad accettare le ispezione della Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (secondo l’acronimo inglese, IAEA), aveva risolto quelle controversie, prima che nel 2018 gli USA decidessero di abbandonarlo, minandone di fatto il funzionamento.
È in tale contesto che va letta la risoluzione del 12 giugno 2025 con cui il Consiglio dei Governatori della IAEA stigmatizzava la violazione, da parte dell’Iran, dei propri obblighi di cooperazione con l’Agenzia stessa, sostanziati dalla mancata rivelazione di diverse informazioni relative al programma nucleare.. In un passaggio cruciale, il Consiglio richiedeva espressamente l’intervento del Consiglio di sicurezza: «the Director General’s inability […] to provide assurance that Iran’s nuclear programme is exclusively peaceful gives rise to questions that are within the competence of the United Nations Security Council».
Esattamente il giorno successivo, Israele avviava le proprie operazioni militari contro l’Iran, nell’asserito esercizio di un diritto alla legittima difesa già ampiamente (e rapidamente) stigmatizzato da taluni commentatori (v. Santini, Milanović). Le ragioni sono presto dette: pur assegnando massimo valore ai sospetti della IAEA sul programma nucleare iraniano appena esposti e alle numerose minacce di distruzione di Israele e di attacchi contro gli USA (come lo stesso Trump ricorda: «[f]or 40 years, Iran has been saying: “Death to America, death to Israel”») da parte dell’Iran, è però vero che non vi era alcun «attacco armato» in corso, sia al momento della reazione israeliana sia al momento della reazione statunitense.
Si può però obiettare che, per quanto non in corso un attacco armato da parte dell’Iran, tale attacco – così ampiamente ‘anticipato’ dagli elementi appena ricordati – sia comunque considerabile ‘imminente’? L’evoluzione degli armamenti – sia per capacità distruttiva, dal lato dell’attaccante, sia per capacità di intercettazione e prevenzione, dal lato dell’attaccato – è stata tale, negli ultimi decenni, da spingere a una rimodulazione del requisito dell’imminenza (il secondo di quelli ricordati sopra): può uno Stato dover attendere di subire un attacco missilistico su larga scala, magari nucleare, prima di impiegare la forza o per intercettare la minaccia o per bloccarla ‘sul nascere’? Una risposta di segno negativo sarebbe tutt’altro che accettabile. Ma se è così, allora è chiaro che bisogna stabilire un limite temporale prima del quale attaccare per neutralizzare futuri attacchi è vietato, ciò che richiede uno sforzo interpretativo giustamente definito come il «più controverso» di tutto lo jus ad bellum.
Non possiamo ora ripercorrere per intero la parabola che – specialmente all’indomani degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 – ha irrobustito e diffuso una tendenza, specialmente ad opera di taluni Stati (sul punto torneremo più sotto), a ‘estendere’ le nozioni di «attacco armato» e, per quel che ci interessa, di «imminenza» (O’Meara). Va però detto che, nel caso che ci occupa, considerare come imminente un futuro attacco armato (nucleare) da parte dell’Iran va ben oltre una qualsiasi interpretazione, ancorché a maglie larghe, del requisito.
Detto altrimenti, sviluppare un programma nucleare che potrebbe, in futuro, portare alla realizzazione di un’arma nucleare costituisce senz’ombra di dubbio una violazione del diritto internazionale: ci si può limitare a ricordare che l’Iran è parte di un trattato, per l’appunto il TNP, che, segnatamente all’art. II, vieta agli Stati non in possesso di ordigni nucleari l’acquisizione o lo sviluppo di tali armamenti. Ma quanto precede di per sé non integra una minaccia o uso della forza internazionale, né a più forte ragione, sulla base di quanto detto sopra, un «attacco armato» capace di legittimare risposte (israeliane e statunitensi) implicanti l’uso della forza.
Non vi è dunque, sulla base della Carta dell’ONU, alcuna giustificazione all’utilizzo della forza armata, contro l’Iran, da parte degli USA (e di Israele), dal momento che non opera l’esimente della legittima difesa, né – ed è banale ricordarlo – l’azione degli USA (e di Israele) ha ricevuto una qualsivoglia «autorizzazione» al ricorso a misure implicanti l’uso della forza da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ai sensi del Capitolo VII. I gravi fatti che si stanno consumando dal 21-22 giugno (e dal 13 giugno) 2025 si qualificano dunque come attacco armato nei confronti dell’Iran. Il Ministro degli Esteri iraniano Araghchi, nel corso di una conferenza stampa a Istanbul, ha impiegato poche parole per inchiodare la responsabilità internazionale degli USA, peraltro appoggiandosi alla Carta ONU, più volte menzionata nel discorso.
Le dichiarazioni rese dal Segretario della Difesa statunitense Hegseth puntano invece in tutt’altra direzione: si magnifica il concetto di «deterrenza americana», che gli attacchi del 21-22 giugno avrebbero contribuito a realizzare nei confronti dello Stato «bullo» (non più ‘canaglia’) del Medio-Oriente. Attacchi chirurgici, notoriamente annunciati, che non hanno comportato la perdita di vite umane né tra membri delle forze armate iraniane né tra la popolazione civile (sempre secondo Hegseth). Ma se questo è lo scopo della (re-)azione americana – e cioè, impedire a uno Stato ‘ostile’ di sviluppare in futuro armi di distruzione di massa – allora siamo totalmente al di fuori di quello che la Carta ONU, e con essa lo jus ad bellum come venutosi a consolidare negli ultimi otto decenni, ammette come lecito. Detto altrimenti, la Carta non è un ‘menù’ che ammette qualsiasi scelta di impiego della forza – anzi, è l’esatto opposto, in ossequio alla logica anti-escalatoria che la anima sin dal principio, come già ricordato.
Non è difficile tracciare paragoni col passato. Mantenendo la lente sugli USA (ma sarebbe facile citare, come del resto fa Milanović, il più recente ed eclatante esempio dell’aggressione russa all’Ucraina), tradizionalmente affetti da «eccezionalismo» (e quindi, à la Anghie, da frequenti doppi standard di sapore imperialista) quando si parla di legittima difesa praticata con tanta disinvoltura, il ricordo va quasi spontaneamente alla ‘coalizione dei volenterosi’ di iniziativa e a trazione USA contro l’Iraq, nel 2003. Tale coalizione operò in assenza di una specifica autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza e sulla base di presunte prove (‘prodotte’ al Consiglio di Sicurezza con modalità ormai divenute ‘pop’ e poi rivelatesi totalmente false) relative allo sviluppo, da parte del regime di Saddam Hussein, di armi di distruzioni di massa. Diverse sono le analogie, diverse le differenze. Di rischio di attacchi futuri e ‘a sorpresa’ contro gli USA, ad esempio, si parlava nell’atto con cui il Congresso statunitense (ecco una prima differenza rispetto al caso iraniano) autorizzava il Presidente ad avviare la campagna militare. E se alcuni alleati tradizionali degli USA – il Regno Unito, che giocò un ruolo attivo nella coalizione fin dai primi momenti – trovarono argomenti a sostegno dell’azione americana, diverso fu il caso di altre potenze, tra cui Germania e Francia, che sin da subito affermarono l’illegalità tout court della campagna militare.
L’illiceità dell’attacco degli USA e gli Stati terzi
L’illiceità della condotta statunitense induce a riflettere sulle condotte degli Stati terzi, in particolare per ciò che ci riguarda, degli Stati alleati degli USA, soprattutto quelli, come l’Italia, legati da accordi di carattere militare.
Per dirla con Franck, «che succede ora»? Se, come appena detto, all’indomani dell’invasione dell’Iraq da parte della coalizione dei volenterosi diverse erano state le voci che, anche dalle principali Cancellerie europee, si erano levate contro la legalità dell’intervento, colpisce, oggi, la pressoché totale assenza di voci dissonanti tra gli alleati degli USA. Le prime invocazioni di «negoziati» e «dialoghi di pace» – che, nelle intenzioni di chi le formula, dovrebbero riprendere proprio dopo l’abbandono del tavolo negoziale degli USA e il precipitare degli eventi verso la forza armata – da parte dei principali leader europei sui social media (Francia, Finlandia, Unione europea) sono sempre accompagnate dal monito secondo il quale l’Iran non dovrà mai avere accesso all’arma nucleare, evitando accuratamente di spendere la benché minima parola di condanna nei confronti dell’attacco statunitense (e, prima, israeliano). In particolare, le parole del Primo Ministro del Regno Unito Starmer suonano, al momento, come le più ‘concilianti’ con l’azione intrapresa dagli USA, giustificata proprio per «alleviare» la minaccia dell’arma nucleare iraniana. La Russia e la Cina hanno condannato l’azione statunitense con termini simili a quelli impiegati dall’Iran (citando espressamente la Carta ONU), mentre i Paesi arabi – tra cui Arabia Saudita e Qatar – hanno adottato una posizione più ‘morbida’ rispetto a quella espressa con riferimento agli attacchi condotti da Israele (v. qui per una panoramica).
Al di là di ciò che gli Stati dicono – ciò che comunque rileva, al netto della mera valenza politica, sul piano della prova di un’eventuale acquiescenza rispetto alla pretesa legittimità della condotta statunitense – sarà interessante vedere ciò che taluni di loro, e in particolare l’Italia, faranno. Se è vero che, come dichiaratodal Ministro degli Affari Esteri Tajani, le basi italiane non sono state coinvolte negli attacchi, è però noto (e innegabile) il valore tattico di talune di queste basi, in particolare Aviano o Sigonella (che da anni ospita droni armati statunitensi, regolarmente impiegati in operazioni di intelligence e, secondo taluni, pure di targeted killings; v. ad es. qui e qui). Cosa succederebbe se l’Italia, in ipotesi, mettesse il proprio spazio aereo o comunque porzioni del proprio territorio a disposizione di eventuali azioni armate statunitensi contro l’Iran? A nostro avviso, si configurerebbe una violazione sia del diritto internazionale sia, sul piano interno, del diritto costituzionale.
Appurato che gli attacchi degli USA costituiscono violazioni gravissime e ingiustificate della Carta dell’ONU e delle norme dello jus ad bellum, corre l’obbligo, in capo a ogni Stato di non aiutare né assistere lo Stato autore di tali violazioni. Si tratta di una regola ricavabile dal Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati (Progetto) e, segnatamente, dall’art. 40, potendo la condotta statunitense qualificarsi come violazione grave di norme imperative di diritto internazionale generale, in cui, come detto in apertura, si possono includere le rilevanti regole dello jus ad bellum. Ciò vale anche laddove l’assistenza o l’aiuto che l’Italia sarebbe chiamata a fornire sia imposta da accordi di varia natura con gli USA, a partire dal Trattato istitutivo della NATO (che, fornisce la cornice di riferimento di questo tipo di cooperazione) e sino al più ‘tecnico’ degli accordi finalizzati a dare esecuzione al primo. Con queste premesse, la Repubblica italiana, se fornisse assistenza a future azioni aggressive degli USA, sarebbe complice della commissione di un (grave) illecito internazionale, ai sensi dell’art. 16 del Progetto. Sarebbe infatti difficile negare la sussistenza dei due presupposti della norma: la consapevolezza che con il proprio aiuto si agevola la commissione del fatto illecito altrui e la circostanza che tale attacco violi l’art. 2, par. 4, della Carta dell’ONU che, con tutta evidenza, obbliga anche l’Italia.
Sul piano interno, invece, è lecito ritenere che l’art. 11 della Costituzione – che enuncia il principio pacifista al cuore dell’assetto repubblicano – vieti qualsiasi forma di compartecipazione a campagne militari in contrasto con il diritto internazionale, in nome del ripudio della guerra «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Se vi sono voci discordanti circa l’idoneità, da parte dell’art. 11, a vietare anche forme di assistenza a favore di Stati che stiano subendo un attacco armato (v. qui e qui), non vi è invece dubbio che, di fronte a un attacco condotto in spregio alle regole dello jus ad bellum quale quello del 21 giugno 2025, il divieto condensato all’art. 11 sia destinato ad operare, e quindi a vincolare, tutte le articolazioni della Repubblica. Né il rispetto di impegni convenzionalmente assunti e immessi nel nostro ordinamento, né a maggior ragione argomenti di opportunità politica sono suscettibili di giustificare, sul piano interno (prima ancora che su quello internazionale), eventuali azioni dell’Italia a sostegno degli USA.
Il ritorno della diplomazia?
Come rilevato in apertura del paragrafo precedente, non mancano prese di posizione di Stati che puntano alla necessità che l’Iran «torni a sedersi al tavolo dei negoziati» per discutere dei limiti al proprio programma nucleare. Pare piuttosto forte la presa di posizione congiunta di Francia, Germania e Regno Unito di poche ore fa (ndr 22 giugno 2025): «[w]e call upon Iran to engage in negotiations leading to an agreement that addresses all concerns associated with its nuclear program».
Posto che, come già osservato, l’Iran, in quanto Stato parte del TNP, ha l’obbligo di non sviluppare o acquisire armi nucleari (art. II) e il diritto di effettuare ricerche in ambito nucleare per finalità pacifiche (art. IV), non è chiaro, oggi, su cosa debbano o possano vertere tali negoziati.
In ogni caso, l’attacco militare israeliano e quello statunitense modificano radicalmente la portata di tali inviti nella prospettiva del diritto internazionale e, in particolare, del diritto dei trattati.
A suggerirlo è l’art. 52 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, che prescrive l’invalidità di un trattato internazionale la cui conclusione sia stata procurata dalla minaccia o dall’uso della forza armata in contrasto con la Carta dell’ONU. In altri termini, tale norma riguarda il caso di uno Stato che viene ‘costretto’ da un altro o da altri a concludere un trattato con la minaccia o con l’uso della forza armata. Il precedente storico solitamente citato è l’accordo di Monaco del 1938, attraverso cui la Cecoslovacchia cedette parte del proprio territorio alla Germania Nazista, costretta alla firma dalla minaccia di essere invasa proprio da quest’ultima.
Si tratta di una disposizione che ‘lega’ a doppio filo la Convenzione di Vienna e la Carta di San Francisco. Il senso è semplice: se l’ordinamento giuridico internazionale fondato sulla Carta non prevede la risoluzione delle controversie attraverso la minaccia o l’uso della forza armata, allora tutti i trattati conclusi in violazione di tale presupposto non possono essere validi.
È un’invalidità assoluta, che lo Stato costretto può sanare solo attraverso un nuovo accordo, formato sulla base di un consenso genuino, diverso da quello precedentemente estorto con la minaccia o l’uso della forza armata.
Fanno eccezione i trattati di pace, gli armistizi o gli accordi per il cessate il fuoco nel contesto di conflitti armati, per la semplice ragione che sono strumenti convenzionali finalizzati al ristabilimento della pace.
Qui si colloca il conflitto in corso tra Iran e Israele e tra Iran e USA. Il ritorno al tavolo dei negoziati, in questa fase, potrà essere funzionale soltanto a far cessare le ostilità in corso. Eventuali accordi sui limiti all’arricchimento dell’uranio, sulle ispezioni internazionali o su qualsiasi altro aspetto del programma nucleare iraniano che preveda obblighi a carico dell’Iran non potranno essere conclusi ‘pendente’ la minaccia dell’uso della forza armata e, a fortiori, gli attacchi armati cui stiamo assistendo.
Conclusioni
Di fronte alla scelta di Israele, prima, e degli USA, poi, di violare, in modo plateale (o forse meglio ‘spettacolare’), norme fondamentali della Carta dell’ONU, sulla base di ragioni difficilmente ricavabili da essa, è compito degli altri Stati che compongono la comunità internazionale riconoscere l’illegalità di tale comportamento e ricondurre all’obbedienza delle regole che fondano il sistema di sicurezza collettiva, innanzitutto omettendo di cooperare o supportare in qualsiasi modo chi che viola il diritto internazionale e poi evitando di reiterare le stesse minacce quando si tratta di auspicare il ritorno della diplomazia.
Chi non può attaccarsi alla Carta dell’ONU finisce – come le ultime due decadi insegnano – per attaccare… la Carta, e a ‘bullizzare’, con essa, le norme dello jus ad bellum e della convivenza pacifica tra gli Stati.
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