Ancora su Frontex e mitologia greca: di metafora in metafora
Di metafora in metafora, nel mito greco e poi latino, Hera o Giunone, come molte donne potenti, era anche la dea più vendicativa dell’Olimpo e spesso si serviva degli uomini per compiere il suo disegno punitivo. Hera I è il nome dell’operazione con cui Frontex ha inaugurato la propria attività nel 2006. Nell’opuscolo autocelebrativo dei successi ottenuti dall’Agenzia durante il primo quinquennio di attività si legge, in relazione alle morti dei migranti in mare: «It is very very painful to pick up dead people, to know that other people are missing. Of course we feel. Of course we have feelings» (Beyond the Frontiers. Frontex: The First Five Years, Frontex, Warsaw, 2010, p. 32). Attestazione di umanità, questa, che appare quasi come una excusatio non petita, una levata di scudi a difesa della strategia di Frontex, il cui “asso nella manica” sono i pattugliamenti congiunti con i Paesi terzi. Come chiarito dal responsabile per l’attuazione della operazione Hera I nel 2006, «[t]he close proximity of these joint maritime and airborne patrols to the coast of West Africa was crucial: it meant that the unseaworthy boats used by the irregular immigrants could be stopped and turned back to safety before the dangerous voyage to the Canary Islands could claim even more lives. […] The methodology of the organised crime people facilitating this flow of migrants was adaptable. We knew we faced a real challenge» (ivi, p. 32).
Ci sono almeno due elementi sconvolgenti in questo magnificat dei pattugliamenti congiunti. Il primo è rappresentato dalla aprioristica affermazione che consegnando i migranti intercettati in mare alle autorità del paese di origine li si riporti “back to safety”, affermazione che prescinde da qualsiasi valutazione della conformità del respingimento all’obbligo di non-refoulement, in spregio alla circostanza che tali flussi fossero chiaramente “flussi misti” e occorresse, a fortiori, consentire l’accesso alle procedure di asilo, come opportunamente previsto dal diritto dell’Unione (art. 6, par. 2 della direttiva 2005/85/CE sulle procedure: «Gli Stati membri provvedono affinché ciascun adulto con capacità giuridica abbia il diritto di presentare una domanda di asilo per proprio conto») e sancito nella giurisprudenza di Strasburgo (Hirsi et al. c. Italia, par. 204 ss.).
Il secondo riguarda il presupposto su cui si fonda la strategia di Frontex, ovvero che gli scafisti siano la principale, se non unica, causa dell’avvicendarsi delle “piroghe della morte” nel Mediterraneo, sicché la “real challenge” è rappresentata dalla comprensione della “methodology of the organised crime people facilitating this flow of migrants”. Sebbene nessuno contesti che l’attività degli scafisti sia riprovevole e vada contrastata, la strategia di Frontex denota una certa carenza di capacità analitica, che pare tradursi in una confusione delle conseguenze con le cause del problema. L’espansione delle rotte migratorie irregolari via mare non può essere ricondotta al proliferare dei commerci degli scafisti, bensì i commerci degli scafisti proliferano in quanto cresce il numero di persone che – a causa delle politiche di “non arrivo” attuate dall’Europa da oltre un decennio, che limitano i canali di accesso regolare allo spazio europeo – vede quale unica possibilità per raggiungere la “fortezza” Europa quella di affidare il proprio destino al mare.
Nel credere che per fermare la malattia si possa anche uccidere il paziente, l’Europa si allinea alle prassi in uso in contesti regionali in cui la dotazione di strumenti normativi di protezione internazionale è decisamente meno significativa. Si pensi all’accordo annunciato il 25 luglio 2011 dal governo australiano per il trasferimento dei profughi giunti via mare in Malesia, stato che da sempre considera l’obbligo di non-refoulement null’altro che un “wishful legal thinking” e che lo viola abitualmente (Amnesty International, Rapporto 2013, p. 335). L’obiettivo dichiarato dell’accordo era di “salvare” dal pericolo di morte in mare i “boat people”, scoraggiandone l’arrivo attraverso la minaccia della deportazione in Malesia. Il fattore deterrenza avrebbe, inoltre, consentito di contrastare “the people smugglers’ business model”, considerati i veri responsabili degli arrivi.
Tornando alla nostra Europa, a sette anni di distanza dall’operazione Hera I, un rovesciamento di questa prospettiva appare di là da venire. La ragione è chiara e chiaramente politica. Tale revirement presupporrebbe l’adozione di una strategia globale che intenda gestire i flussi migratori nel Mediterraneo e che abbandoni la chimera di invertire la tendenza in atto, prima serrando le porte dell’Europa con lo strumento del refoulement e poi rimestando le acque attraverso una non chiara ripartizione delle responsabilità nelle operazioni congiunte di pattugliamento e di interdizione (Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, Lives Lost in the Mediterranean Sea: Who is Responsible?, 5 aprile 2012). E l’adozione di una strategia globale che contemperi le esigenze di contrasto dell’immigrazione irregolare con la tutela dei diritti umani dei migranti, secondo l’antico adagio di Tampere, presupporrebbe, à son tour, una «equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri», ispirata al principio di solidarietà (art. 67, par. 2 e art. 80 TFUE) e al “burden-sharing” (art. 78, par. 3 TFUE).
Al contrario, ciò che la Commissione è riuscita recentemente a proporre – in risposta alle dichiarazioni rese nel luglio 2013 dal Primo Ministro maltese sull’intenzione di respingere i profughi giunti via mare in segno di protesta contro l’indifferenza dell’Unione europea ai suoi sforzi di accoglienza, ai nuovi episodi di refoulement in mare verso la Libia che hanno coinvolto l’Italia e Malta nell’agosto 2013 e alla tragedia delle centinaia di migranti morti a pochi metri dalla riva dell’isola di Lampedusa nell’ottobre 2013 – è stata una nuova missione Frontex, questa volta estesa a tutto il Mediterraneo (vd qui).
Il rischio insito in questa risposta, che è una “non risposta”, è la regressione del sistema europeo di protezione internazionale. Peraltro, l’adozione del nuovo pacchetto di strumenti normativi non pone un argine a questa tendenza securitaria, che anzi appare riflessa in talune delle nuove disposizioni. Ad esempio, dall’articolo 6 della direttiva 2013/32/UE sulle procedure è stato espunto il richiamo al diritto di presentare la domanda (v. supra, art. 6, par. 2 della direttiva 2005/85/CE). Nella nuova formulazione si parte dallo step successivo, prevedendo che “[g]li Stati membri provvedono affinché chiunque abbia presentato una domanda di protezione internazionale abbia un’effettiva possibilità di inoltrarla” e, qualora ciò non avvenga (magari perché lo straniero non è stato informato delle modalità attraverso le quali agire?), si consente agli Stati membri di equiparare gli effetti della mancata presentazione della domanda a quelli che conseguono al ritiro implicito o alla rinuncia alla stessa (art. 28 dir. 2013/32/UE). Analogamente, ai sensi dell’articolo 8 della stessa direttiva, gli Stati membri sono tenuti a informare gli stranieri che si trovano nei centri di trattenimento e ai valichi di frontiera sulla possibilità di presentare la domanda di protezione internazionale soltanto “[q]ualora vi siano indicazioni” che essi desiderino avvalersi di tale possibilità. Insomma, l’esatto contrario di quanto sostenuto dalla Corte europea in numerose occasioni e, con particolare intensità, nel caso Hirsi (par. 133: “[T]he fact that the parties concerned had failed to expressly request asylum did not exempt Italy from fulfilling its obligations under Article 3”).
Che la Corte di Strasburgo, nella veste di paladina dell’obbligo di non-refoulement, sia ancora in grado di arginare questa deriva è dimostrato dal fatto che un suo ordine interinale di sospensione della misura di refoulement adottata nel luglio 2013 dal governo maltese sia stato sufficiente a distogliere Malta dall’esecuzione dei respingimenti (ECRE, ECtHR Blocks Pushback of Somali Migrants from Malta to Libya following Outcry from Civil Society, 12 luglio 2013). Tuttavia, per ritornare alla mitologia greca e chiudere il cerchio, occorre sperare (ma basterà solo sperare?) che questo instancabile baluardo contro le politiche europee di “deterritorializzazione” dei controlli migratori non si trasformi, a lungo andare, in una sventurata Cassandra.
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