diritto internazionale pubblico

Se il sospetto è uccel di bosco. Riflessioni sulla giudicabilità in absentia dei sospettati di crimini internazionali alla luce della sentenza della Corte Costituzionale Italiana n. 192(2023) relativa alla vicenda Regeni

Giampaolo Guizzardi Righetti (Università di Milano Bicocca)

Introduzione                    

In data 27 settembre 2023 la Corte Costituzionale Italiana, con la sentenza 192 (2023), pubblicata in Gazzetta Ufficiale in data 26 ottobre 2023, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del recentemente novellato Art. 420-bis(3) c.p.p. -riformato dall’ art. 23(1)(c) d.lgs. n. 150 del 2022 (c.d. Riforma Cartabia)- nella parte in cui «non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’Art. 1 comma 1 della UN Torture Convention (1984)(di seguito, UNCAT), ratificata e resa esecutiva con legge 3 novembre 1988 n. 498, quando, a causa della mancata assistenza dello stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso ad un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa».

Pur trattandosi di una pronuncia relativamente breve, nell’analisi del giudice delle leggi si possono trovare diversi spunti di riflessione per il giurista. Anzi, sono possibili diverse letture a seconda del punto di vista o dell’interesse del lettore, ben prestandosi la sentenza in epigrafe ad un ventaglio di analisi procedural-penalistiche, internazionalistiche, di diritto dell’Unione Europea, costituzionalistiche interne e comparate (tutte meritevolissime di essere vagliate e discusse nei loro profili tanto teorici quanto pratici) seppur difficilmente affrontabili unitariamente in un breve commento.

Questa analisi si focalizza pertanto unicamente sui profili internazionalpenalistici della vicenda, ed in particolare: 1) le questioni relative all’obligatio puniendi dei crimini internazionali; 2) la questione del contrasto all’impunità ed infine 3) il problema -decisamente non secondario, anche alla luce delle note vicende della Corte penale internazionale relative ad Al-Bashir (Held, pp. 54–72)e Putin (Sarkin; Vasiliev) – dell’esercizio della giurisdizione penale in absentia negli ordinamenti nazionali e presso la stessa Corte Penale Internazionale (CPI).

In tal senso dunque, questo commento sulla sentenza Regeni si interroga sulla possibilità di giudicare in absentia imputati di cui non si conosce l’ubicazione (come nel caso Regeni), pur accennando nel corso della discussione a quei casi in cui, pur conoscendosi perfettamente l’ubicazione dei sospettati/imputati, non è possibile coartarne la presenza in aula (e.g., Putin, Al Bashir, Al Assad).

Sebbene esista sul punto una certa confusione terminologica, a rigore occorrerebbe distinguere fra  processi «by default» (procedimenti contro accusati ai quali non sono state notificate le accuse e che non compaiono in tribunale) e «in absentia» stricto sensu, cioè quando l’ imputato conosce sicuramente le accuse ed il procedimento a suo carico perché gli è stato notificato personalmente l’atto d’accusa, ma sceglie di non presentarsi in tribunale per tutta la durata del processo o in alcune udienze, o viene escluso dal tribunale per intemperanze di qualche sorta (Gaeta, p. 230).

Antefatto. La vicenda Regeni e l’ordinamento egiziano

Come ampiamente noto, nel 2016, Giulio Regeni, un dottorando cantabrigiense di nazionalità italiana che si trovava in missione di ricerca sui diritti umani in Egitto, veniva bloccato all’interno della metropolitana del Cairo e tenuto prigioniero da agenti del servizio di sicurezza interno egiziano per nove giorni, dal 25 gennaio al 2 febbraio 2016, durante i quali gli venivano cagionate lesioni severe e diffuse, a distanza di più giorni, con atti crudeli e mezzi violenti, fino a provocarne la morte (vedi sul punto il minuzioso report di Walsh).

Lungi dall’essere un caso isolato, la vicenda Regeni rivela il distorto uso, da anni invalso in Egitto, di una giustizia trasformata in strumento di repressione del dissenso.  Fumose accuse di terrorismo (vedi l’ amplissima definizione di terrorista ex Articolo 1(b) della Legge antiterrorismo egiziana), inflizione di misure cautelari (anche carcerarie) prorogabili ad nutum senza limiti temporali e nei confronti dei sospettati/eterni giudicandi (un esempio per tutti quello di Patrick Zaki) si sommano a frequenti casi di enforced disappearence, torture ed altri trattamenti disumani e degradanti ad opera della Agenzia Nazionale di Sicurezza (NSA). (Amnesty International).

Parallelamente -in particolare in seguito alla Riforma Costituzionale del Presidente Al-Sisi del 2019 (Long)- si assiste ad un progressivo indebolimento della  divisione dei poteri in favore del Presidente (vedi Bernard Maugiron, pp. 3-19; Sriram, pp. 219 ss.). In base all’Art. Art. 189(2) della Costituzione Egiziana (Bernard-Maugiron 2020, p. 9), in particolare, la Procura Generale risulta direttamente subordinata e funzionalmente dipendente dalla Presidenza della Repubblica(vedi, più in generale, sul sistema giudiziario egiziano, Brown), fungendo da longa manus dell’esecutivo.

La rilevanza nel caso in esame di questa dipendenza della Procura dalla Presidenza si coglie considerando le vastissime competenze della Procura Generale: alla fine dell’inchiesta principale, la Procura Generale decide se (!) introdurre il giudizio, ovvero emettere ordinanza di sospensione (non luogo a procedere) suscettibile di concludere definitivamente il caso (unica eccezione, l’invenzione di nuove prove prima della prescrizione del reato principale).

In breve, il 20 gennaio 2021 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma chiedeva il rinvio a giudizio di quattro membri dell’NSA, sospettati del rapimento, torture (tecnicamente, lesioni aggravate dall’uso di mezzi violenti e crudeli) e morte di Regeni.

Nonostante i reiterati e dispendiosi tentativi giudiziari, politici e diplomatici di ottenere la collaborazione delle autorità cairote, le autorità italiane non riuscivano a notificare ai quattro indagati la notizia della pendenza del procedimento, e principalmente degli atti assunti dal Pubblico ministero ex art. 415-bis c.p.p. (prodromici alla richiesta di rinvio a giudizio), la stessa richiesta di rinvio a giudizio e la data fissata per l’udienza preliminare. Dunque, non essendo stati raggiunti né avendo i sospettati eletto domicilio in Italia ex art. 169 c.p.p. grazie ai depistaggi della NSA, i quattro agenti egiziani venivano dichiarati irreperibili.

L’unica, per vero, laconica, risposta ottenuta dalle autorità del Paese delle piramidi era che la «Procura generale egiziana aveva già svolto indagini nei confronti degli stessi quattro odierni imputati nel procedimento italiano, conclusesi con un decreto di archiviazione».

Più precisamente, il giudice Khalaf della Direzione della Cooperazione Internazionale e della Direzione dei Diritti Umani della Procura Generale egiziana e titolare delle indagini sul caso Regeni, ripercorrendo tutti i passaggi delle indagini svolte dalle autorità egiziane e le tappe del procedimento giudiziario, dichiarava alla delegazione italiana quanto segue: «La Procura Generale egiziana:·ritiene che questo provvedimento abbia natura decisoria irrevocabile, ovvero che si tratti, con particolare riferimento alla posizione giuridica dei quattro Imputati, di una decisione giudiziaria non più suscettibile di impugnazione e che preclude la riapertura di un procedimento nei confronti degli stessi quattro indagati […] Conseguentemente, […] l’esecuzione della richiesta di assistenza giudiziaria formulata dalla Procura di Roma sarebbe [stata]preclusa dall’applicazione del principio del ne bis in idem, sancito dall’ordinamento interno egiziano e dalle Convenzioni internazionali delle quali l’Egitto è parte» (Ordinanza di remissione, pp. 7-8.).

In sintesi, come illustrato nell’ordinanza, apparivano del tutto evidenti «le volontà dell’Autorità di Governo egiziana e della Procura Generale del Cairo di non prestare alcuna collaborazione» alle autorità italiane per il caso Regeni. Come evidenziato dal giudice a quo, si tratta di un «provvedimento […] adottato dal Procuratore Generale del Cairo, e quindi non da un giudice terzo, ma dallo stesso organo [inquirente], che peraltro, nell’ ordinamento [egiziano] non è indipendente e autonomo rispetto al Governo», privo di quegli elementi di terzietà ed indipendenza propri di un genuino provvedimento giudiziario rilevante ai fini del ne bis in idem. Per metterla diversamente, non c’è proprio stato un bis nel caso Regeni, dacché i soli ed unici provvedimenti giudiziari sono quelli pronunziati dalle autorità italiane. Come giustamente notato dal giudice rimettente, «le argomentazioni dell’Autorità giudiziaria egiziana appaiono quantomeno pretestuose e significative della volontà di non far processare in Italia i quattro ufficiali della National Security egiziana» (Ibid. p. 9, enfasi aggiunta).

La domanda è se e quali conseguenze giuridiche possano derivare da tale prassi criminale sullo jus puniendi di altri Stati (nel caso di specie, lo stato di nazionalità della vittima) rispetto ai crimini di sequestro di persona, tortura ed altri atti disumani e degradanti ed infine omicidio, variamente aggravati.

Il crimine di tortura e la questione dell’obligatio puniendi in una prospettiva di lotta alla impunità

Tra le (relativamente) poche certezze del diritto internazionale c’è indubbiamente quella del divieto inderogabile, per stati ed individui, di commettere atti di tortura, sancito sia dal diritto internazionale dei diritti umani (Mertens) sia dal diritto penale internazionale (ex multis, ILC, Fourth report on peremptory norms of general international law, para. 60, p. 26; ICTY, Prosecutor v. Anto Furundzija (1998), paras. 143-4, pp. 54-5; 153, pp. 58-9). Da tale divieto, concepito quale limite invalicabile dall’azione degli Stati, discendono importanti conseguenze giurisdizionali in materia di repressione del crimine di tortura in termini di obligatio puniendi, imprescrittibilità ed universalità della giurisdizione. (Bassiouni, pp. 237-8).

A tal riguardo, è curioso – benché ragionevole da un punto di vista eminentemente pratico – che il giudice a quo nell’ordinanza di remissione si sia limitato ad invocare quale norma interposta l’Art. 117(1) della Costituzione Italiana (adattamento al diritto pattizio), tralasciando invece ogni discussione (per quanto desiderabile per ragioni di completezza del ragionamento) sulle regole consuetudinarie di diritto generale in vigore nello Stato per via del richiamo ex art. 10(1) Cost.

A ben vedere, tuttavia, se ci si discosta per un istante da un approccio eminentemente teorico-accademico e si ragiona in termini pratici, senza nulla togliere alla bontà (e ‘rotondità’) di una tale desiderata precisazione, si sarebbe forse trattato di un inutile overkill.

Ciò che appare dalla sentenza della Consulta è la premura di individuare un valido fondamento della giurisdizione italiana secondo parametri di economia processuale più che il desiderio di esibirsi in una sistematica ed articolata ricostruzione del fondamento consuetudinario della giurisdizione italiana.

Va quindi da sé che, procedendo per eliminazione, escluso il diritto consuetudinario e parimenti tolto l’argomento dello Statuto di Roma (di cui l’Egitto non è parte), l’unico altro possibile riferimento normativo (parallelamente agli obblighi di diritto internazionale dei diritti umani) non può che essere l’UNCAT, ratificata sia dall’Egitto (25 giugno 1986), sia dall’Italia (legge 3 novembre 1988, n. 498).

Ecco, dunque, che entra in scena la protagonista di questa sentenza ed invero quella che si ritiene essere la fonte gravitazionale della intera costruzione internazional-penalistica, l’impunità (Verrijn et al., pp. 43-4).

L’impegno della UNCAT a negare ai torturatori ogni possibile anfratto di impunità è ben visibile dalla formulazione dei suoi articoli. Significativamente, l’Art. 5, (obblighi relativi alla giurisdizione), non stabilisce alcuna gerarchia fra il principio di territorialità, bandiera, personalità attiva (Schmidt, para. 57 p. 211). L’unica previsione -non imperativa ma concessiva- è rappresentata dall’rt. 5(1)(c), laddove si stabilisce che lo stato di appartenenza della vittima «shall take such measures as may be necessary to establish its jurisdiction over the offences» «if that State considers it appropriate», mentre il successivo par. 2 stipula in termini parimenti imperativi l’obbligo di stabilire la giurisdizione universale nei termini del principio aut dedere aut judicare (secondo le procedure stabilite agli Artt. 6-7 UNCAT).

Nel tentativo, invero non completamente riuscito, di evitare ogni potenziale vuoto giurisdizionale, la Convenzione prevede dunque un sistema pluristratificato di giurisdizioni concorrenti – in questo caso, giurisdizione territoriale e personalità attiva, dell’Egitto; nazionalità della vittima, dell’Italia – in base al quale, anche se uno Stato non fosse eccessivamente intenzionato a procedere contro i sospettati, altri Stati potrebbero riempire l’ipotetico gap.

In teoria. L’anello debole di questa costruzione è facilmente identificabile: con una alternativa secca e che non ammette (apparentemente) eccezioni, l’Art. 9(1) UNCAT chiama tutti gli stati a prestarsi la più ampia collaborazione per assicurare che i colpevoli di tale atroce delitto non rimangano impuniti, ed in particolare sono tenuti ad assicurare «the supply of all evidence at their disposal necessary for the proceedings» (Schmidt, ibid., para. 8, p. 304).

Il problema, come emblematicamente rappresentato dalla vicenda Regeni, è che se gli Stati non collaborano non c’è molto da fare. Sì, è sempre possibile invocare la responsabilità dello Stato recalcitrante, ma intanto mentre gli Stati si sparano poco penetranti cartucce giuridiche il caso (e i relativi sospettati) scompaiono fra le sabbie del tempo (ibid. para. 11).

Impunità, diritti delle vittime ed absentia: la prassi italiana e la Corte penale internazionale fra contrapposti diritti ed ardite triangolazioni

Come riconosciuto dalla Consulta (para. 8), l’impunità non svuota solamente di significato la norma penale, ma l’impunità stessa viene a costituire un – ulteriore –  vulnus inferto alle vittime (e ai loro congiunti) in quanto diniego del loro fondamentale diritto alla giustizia e verità. (ex multis HaqueBilsky; Carlson; MELA). D’altro canto, gli stessi sospettati/imputati sono titolari di una serie di diritti non necessariamente e non sempre in perfetta armonia con i primi.

La vicenda Regeni, come già la farsesca cronaca dei travagli giudiziari del deposto presidente Al-Bashir (Meloni) prima di lui e le attuali traversie dello Zar (Ronzitti) costituiscono emblematici esempi di questa diabolica tensione ed antinomia.

Questo punto è stato ben illustrato dalla Consulta: vi è una«irrisolta tensione tra il diritto fondamentale dell’imputato a presenziare al processo (vedi Zappalà), l’obbligo per lo Stato di perseguire crimini che consistano in atti di tortura e il diritto – non solo della vittima e dei suoi familiari, ma dell’intero consorzio umano – all’accertamento della verità processualesulla perpetrazione di tali crimini» (par. 3).

Dato il comune dilemma giuridico, è interessante ed utile vedere – brevissimamente – come la CPI risolva (o almeno, tenti di risolvere) questa diabolica antinomia fra diritti di giustizia, vittime ed accusati prima di procedere con l’esame della normativa italiana, siccome novellata dalla c.d. Riforma Cartabia.

L’Art. 63(1) dello Statuto di Roma prevede, che l’imputato – a garanzia del suo diritto di difesa ex Art. 67(1)(d) – sia presente durante il giudizio. La formulazione inglese del testo è nettissima: «[t]he accused shall be present during the trial».

Questa regola, come affermato dalla CPI in Ruto e Sang, è soggetta solamente a temporanee e limitatissime deroghe,: «(i) the absence of the accused can only take place in exceptional circumstances […] any absence must be limited to that which is strictly necessary; (iv) the accused must have explicitly waived his or her right to be present at trial; […] (vi) the decision as to whether the accused may be excused […] must be taken on a case-by-case basis, with due regard to the subject matter of the specific hearings that the accused would not attend during the period for which excusal has been requested» (ICC, Prosecutor v. William Samoei Ruto and Joshua Arap Sang (2013), par. 62, p. 26).

Per metterla diversamente, per evitare di essere processatiè sufficiente ai sospettati fare uccel di bosco e starsene in Paesi (non di rado gli stessi da loro governati) con scarse simpatie per l’Aja, o comunque avere mezzi ed influenza sufficienti a garantirsi l’impunità anche in stati membri della Corte (vedi per tutti Gurmendi).

Si tratta a ben vedere di un potenziale elemento di fragilità nella architettura della Corte, suscettibile di limitare la sua effettività, come recentemente riconosciuto in Gbagbo: «the proper aim of the provision is to deny legality to the trial of a person who wants to be present at his or her trial and participate in good faith, but was unable to attend due to no fault of his or her own. There is a perversion of that legitimate aim, if article 63(1) of the Statute is pleaded in aid of an accused person who wants to prevent his or her own trial by deliberate absence in circumstances of contumacy» (ICC, Decision on Mr Gbagbo’s request for reconsideration (2020, para. 69). Vedi anche sul punto Wheeler, p. 116).

Se in Kony (2023, paras. 27-39) si stabilisce la possibilità di procedere alla udienza per la c.d. confirmation of charges (vedi Lanza, pp. 5-7) anche in assenza di un sospettato irrintracciabile, la Corte dell’Aja nega nettamente che i loro processi possano essere celebrati in loro assenza (ibid., paras. 66 e 70). Tale vulnus viene espressamente riconosciuto dagli stessi giudici di Oude Waalsdorperweg che auspicano che gli Stati parte della Corte riconsiderino la disciplina dei procedimenti in absentia davanti alla Corte per superare le attuali limitazioni statutarie.

Passando all’Italia e al caso Regeni, l’art. 420-bis c.p. à la Cartabia prevedeva che «Se l’imputato, libero o detenuto, non è presente all’udienza, il giudice procede in sua assenza: a) quando l’imputato è stato citato a comparire a mezzo di notificazione dell’atto in mani proprie o di persona da lui espressamente delegata al ritiro dell’atto; b) quando l’imputato ha espressamente rinunciato a comparire o, sussistendo un impedimento ai sensi dell’articolo 420-ter, ha rinunciato espressamente a farlo valere. 2. Il giudice procede in assenza dell’imputato anche quando ritiene altrimenti provato che lo stesso ha effettiva conoscenza della pendenza del processo e che la sua assenza all’udienza è dovuta ad una scelta volontaria e consapevole».

In base all’art. 420-quater(1) c.p., «[f]uori da questi casi [420-bis e -ter c.p., ndr.], se l’imputato non è presente, il giudice pronuncia sentenza inappellabile di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato».

I successivi par. 3 e 6, per scongiurare il rischio di processi-zombie – quelli degli eterni (in)giudicabili, per intenderci – stabiliscono quindi che una volta superato un arco di tempo pari a due volte il termine di prescrizione del reato senza che la persona nei cui confronti è stata emessa sia stata rintracciata, la sentenza di non doversi procedere [ex Art. 420-quater(1) c.p.] diviene irrevocabile».

Per metterla più chiaramente, se non si trovano gli imputati e non vi è certezza che essi siano informati della pendenza di un processo a loro carico, questo è destinato ad arenarsi in uno stato di quiescenza per un arco di tempo pari al doppio della prescrizione, al termine del quale la vicenda si conclude irrevocabilmente con un pugno di mosche.

Tutte le ipotesi previste dal novellato art. 420-bis c.p. facevano perno, tuttavia, sul fatto che vi fossero evidenze che gli imputati avessero fatto uccel di bosco, ovverosia che si fosseroloro – consapevolmente e volontariamente rifiutati, per qualsivoglia ragione, di prendere parte ai procedimenti a loro carico. L’idea, neanche troppo celata, era quella che ci potessero essere dei tentativi di ‘sabotare’ i processi, trascinandoli ad una lenta morte ex Art. 420-quater c.p.

Per rimanere nella metafora silvestre, diversa questione dagli uccelletti che si rifugiano nei boschi è quella del bosco che attivamente – esso stesso – nasconde i volatili a prescindere dalla loro consapevolezza o inconsapevolezza, come nel caso Regeni!

Sottolinea in proposito la Consulta: «l’ordinanza di rimessione descrive la fattispecie dedotta nell’incidente di legittimità costituzionale come “mancata assistenza giudiziaria” o “rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato”, [rifiuto integrato dal]l’assunto della già avvenuta e irrevocabile chiusura delle indagini da parte della Procura generale egiziana nei confronti dei quattro agenti della [NSA] […] opposto alla delegazione ministeriale italiana – come questa stessa ha riferito – finanche per negare il rilascio degli indirizzi dei funzionari, dove notificare gli atti di avvio del processo penale in Italia» (Consulta, para. 5.4).

Ora, che i quattro membri della NSA egiziana si siano verosimilmente giovati – è persino paradossale esprimerlo in forma dubitativa – del rifiuto della Procura di collaborare con le autorità italiane è in rebus ipsis. Da un punto di vista meramente formale tuttavia non sono stati loro adarsi alla macchia, ma è stato il loro governo ad impedire, grazie all’inchiesta-farsa, che gli imputati fossero notificati dalle autorità italiane.

Rigirandola diversamente, fermo restando il palese beneficio per gli agenti della NSA, il muro opposto alle autorità italiane non lo hanno costruito loro, ma il loro Stato, e che questo ha creato de facto una situazione di inammissibile impunità per gli agenti, ma – occorre ripeterlo, pur essendo al di là di ogni dubbio beneficiari del teatrino posto in essere dalla Procura Generale egiziana – non sono stati loro a farsi uccel di bosco!

Come affermato dalla Corte Costituzionale, «non può negarsi che si siano determinate obiettivamente le condizioni di una fattuale immunità extra ordinem, incompatibile con il diritto all’accertamento processuale, quale primaria espressione del divieto sovranazionale di tortura e dell’obbligo per gli Stati di perseguirla. [a] prescindere dalle ragioni che l’hanno ispirata, la mancata comunicazione da parte dello Stato egiziano degli indirizzi dei propri dipendenti ha impedito finora, ed è destinata a impedire sine die, la celebrazione di un processo viceversa imposto dalla Convenzione di New York contro la tortura, in linea con il diritto internazionale generale.» (ibid., paras. 9-9.1).

Come visto in precedenza, una tale immunità è un autentico abominio che si pone in contrasto, virtualmente, con ogni principio morale o giuridico consacrato a livello internazionale e nella Costituzione, ed in particolare «[tale] lacuna normativa viola l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla [UNCAT];[…] l’art. 2 Cost., in quanto, impedendo sine die la celebrazione del processo per l’accertamento del reato di tortura, annulla un diritto inviolabile della persona che di tale reato è stata vittima [e] viola [pure] il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.Tale lacuna apre infatti irragionevolmente unospazio di immunità penale, quale si riscontra in unquadro normativo che impedisce di compiere quegli stessi accertamenti giudiziali che sono stati previsti in sede pattizia; accertamenti tanto più necessari in quanto lo Stato italiano, in sede di ratifica della CAT, ha optato per l’esercizio della giurisdizione penale sui reati di tortura commessi all’estero in danno dei propri cittadini» (paras. 9.2-3; nello stesso senso vedi anche para. 13.2).

La soluzione della Consulta e prospettive evolutive in materia di processabilità in absentia

Sulla scorta di queste argomentazioni, la Consulta ha dunque dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis(3) c.p.c., per violazione degli artt. 2, 3 e 117(1) Cost., quest’ultimo in relazione alla [UNCAT] nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza [per i crimini di tortura ex Art. 1 UNCAT] quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenzadell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo,pur consapevole del procedimento, sia statomesso a conoscenza della pendenza del processo» (para. 18).

Per non vulnerare il diritto di difesa dell’imputato, garantendo ad un tempo il rispetto dell’obligatio puniendi in materia di crimini internazionali (e i relativi diritti delle vittime), la Consulta opera quindi un riassetto delle garanzie partecipative dell’imputato. Un riassetto non qualitativo, né quantitativo, ma esclusivamente temporale, saldamente collocato nell’alveo della disciplina dell’assenza.

«Tenuto all’oscuro della vicenda processuale da un factum principis (la condotta non cooperativa del proprio Stato di appartenenza), l’imputato, pur a conoscenza del procedimento, deve presumersi senza sua colpa ignaro delle cadenze del processo, e ha quindi libero accesso alla reintegrazione nelle facoltà processuali che ritenga di esercitare.»  Come spiegato dalla Corte, «[l’imputato] irrintracciabile dalle autorità procedenti nonostante i loro «ragionevoli sforzi», può essere oggetto di un processo in assenza, ma può far valere «direttamente» il diritto a un nuovo processoche conduca al riesame del merito della causa in presenza, mentre è onere delle autorità stesse, che intendano negare la riapertura del processo, allegare «indizi precisi e oggettivi» dai quali risulti che l’imputato, nonostante l’atteggiamento non cooperativo del proprio Stato di appartenenza, «ha ricevuto informazioni sufficienti per essere a conoscenza del fatto che si sarebbe svolto un processo nei suoi confronti e, con atti deliberati e al fine di sottrarsi all’azione della giustizia, ha impedito alle autorità di informarlo ufficialmente di tale processo» (para. 15.).

La soluzione della Consulta, dunque, segue due linee parallele. Se, da un lato, liberal’ordinamento da un insensato ed inaccettabile ostacolo all’esercizio della azione penale, semplicemente limitandosi a spostare lungo la linea temporale la (eventuale) partecipazione dell’imputato, d’altro canto evita di riproporre la vecchia e giustamente vituperata presunzione di conoscenza prevista dalla disciplina contumaciale. Anzi, rispetto ad essa vi è un completo ribaltamento di presunzione con una inversione dell’onere probatorio.

Ora, per negare la riapertura del processo, è lo stato, a dover dare prova che l’imputato, a dispetto degli artifizi e dalla mancata cooperazione delle autorità straniere, sapeva del processo a suo carico e ha deliberatamente fatto uccel di bosco – avvantaggiandosi dunque del loro comportamento omertoso o comunque dilatorio delle proprie autorità.

Al di là delle peculiarità del caso Regeni e della legislazione italiana, la questione di come contemperare esigenze difensive e perseguimento della giustizia resta un punto caldissimo e dolente a livello internazionale (vedi Conti).

Sebbene la Consulta limiti la propria riflessione al solo crimine di tortura, non può palesemente negarsi la rilevanza della giurisdizione in absentia al di là della limitata questione della tortura, del resto espressamente riconosciuta dal giudice a quo (para. 14). Come visto nelle richiamate, altri individui, stati e sospetti crimini si trovano in situazioni se non del tutto analoghe, caratterizzate da profili di similarità con quelle dei quattro presunti responsabili delle violenze e morte del dottorando cantabrigiense.

Conclusioni

Pensando a Putin, può sostenersi – applicando in via del tutto ipotetica il paradigma elaborato dalla nostra Corte Costituzionale – che il Presidente russo ignori di essere desiderato all’Aja, visto l’amplissimo spazio (che da youtube ai siti web della Corte passando per ogni canale di informazioni via stampa, internet, televisione al mondo) dedicato al mandato d’arresto emesso nei suoi confronti? Può ritenersi che – ad esempio – un capo di Stato (lasciando perdere i suoi trascorsi biografici nel KGB) non sappia di un procedimento penale a proprio carico e sia dunque leso nei suoi diritti difensivi?

Certo, il modello presentato dalla Consulta nel caso Regeni non è che una delle molte possibili soluzioni alla nostra diabolica antinomia, ma in questo contesto non manca di un certo pregio (vedi la simile soluzione adottata dalla CPI nel caso Kony con riguardo agli «all reasonable steps» per notificare al sospettato la fissazione della udienza per la confirmation of charges, ibid., paras. 56-7). Oltretutto la sentenza 192 (2023), lungi dal riguardare complessivamente la questione del giudizio in absentia, verte sulla più limitata questione della processabilità di ufficiali stranieri resi irrintracciabili dalla mancata cooperazione delle medesime autorità estere. Ciò detto, la sentenza Regeni tocca – quantomeno come obiter – la più vasta questione della giudicabilità in absentia e molti dei punti sollevati dalla Consulta appaiono almeno indirettamente applicabili ad essa.

In anni recenti le innumerevoli crisi nel vicino Oriente e in Russia hanno riportato l’attenzione della dottrina e della giurisprudenza sul problema della sostanziale impunità derivante dalla frequente impossibilità – per molteplici cause – di procedere in praesentia contro ufficiali di stati stranieri ritenuti responsabili di crimini internazionali, questione aggravata – al di là del dato normativo – dal complicato bilanciamento fra le opposte esigenze di vittime e colpevoli, del diritto di difesa dei sospettati/imputati e del diritto alla verità e giustizia delle vittime e dei loro congiunti.

Non esistono soluzioni ovvie ed universali per risolvere questa gravosa antinomia, come riconosciuto dalla CPI in Kony e dalla Consulta nel caso Regeni. Ciò non toglie che, procedendo prudentemente con valutazioni caso per caso, l’assenza dei sospettati/imputati appaia sempre meno un argine insuperabile sul corso della giustizia.

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Giampaolo Guizzardi Righetti

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