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I risultati del Consiglio europeo straordinario sull’emergenza umanitaria nel Mediterraneo: repressione del traffico di migranti o contrasto all’immigrazione irregolare?

Francesca De Vittor, Università Cattolica Milano

Nelle reazioni che hanno agitato il mondo politico immediatamente dopo i gravissimi naufragi della scorsa settimana uno degli argomenti centrali è quello della prevenzione del traffico di migranti e della sanzione nei confronti dei trafficanti. La sensazione che si ha leggendo la gran parte delle dichiarazioni rilasciate alla stampa è che i trafficanti siano la causa dell’ecatombe di migranti nel Mediterraneo.

Il contrasto al traffico dei migranti, perseguito in primo luogo con la cattura e la distruzione delle imbarcazioni utilizzate, è peraltro la prima azione in merito alla quale i membri del Consiglio europeo straordinario del 23 aprile hanno trovato un accordo (Dichiarazione; v. anche il documento intitolato «Remarks by President Donald Tusk following the special European Council meeting on migratory pressures in the Mediterranean»). La repressione del traffico appare addirittura prioritaria rispetto all’adozione di misure idonee di soccorso in mare. Sebbene infatti un risultato importante dell’incontro sia l’aver triplicato le risorse dell’operazione Triton, rendendola quindi equiparabile all’operazione Mare Nostrum dal punto di vista dei mezzi impiegati, non se ne è modificato il mandato: l’operazione resta un’operazione di controllo delle frontiere dispiegata normalmente entro le trenta miglia dalle coste italiane, e i mezzi impiegati si sposteranno in acque internazionali avvicinandosi alle coste libiche solo qualora ricevano una richiesta di soccorso, in ciò distinguendosi radicalmente dall’operazione Mare Nostrum, per la quale il soccorso in mare era il mandato principale e che dispiegava le proprie forze fino alle acque internazionali adiacenti le acque territoriali libiche, garantendo così un intervento molto più rapido (si veda il post di Chiara Favilli su questo blog per le differenze tra le due operazioni). La terza questione, sicuramente quella più delicata, sulla quale i membri del Consiglio europeo erano chiamati a discutere era quella relativa alla creazione di canali legali di accesso all’Unione europea e alle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale, ed è questo il punto in merito al quale i risultati della riunione sono senza dubbio i più deludenti: non si prevede alcun “corridoio umanitario”, e il sostegno dell’Unione europea ai Paesi maggiormente esposti al flusso migratorio si riduce al coordinamento di programmi di ristabilimento tra gli Stati membri su base volontaria.

L’accento quasi esclusivo sulle responsabilità dei “trafficanti di uomini” si spiega facilmente in base alla sua efficacia politico-mediatica: i trafficanti sono indiscutibilmente criminali responsabili di gravissimi reati che meritano di essere sanzionati in modo estremamente serio, offrono quindi un perfetto capro espiatorio anche per responsabilità che vanno ben oltre le loro. L’argomento secondo il quale arrestare i trafficanti e distruggere le imbarcazioni utilizzate per il traffico sarebbe un modo efficace per risolvere il problema di centinaia di migliaia che cercano di trovare asilo in Europa, in fuga dai conflitti che insanguinano il Nord Africa, appare tanto irragionevole che nemmeno meriterebbe attenzione se su di esso non si concentrasse il consenso della comunità politica europea. É proprio al fine di cercare di interpretare le ragioni strumentali di tale consenso che sembra utile offrire qualche spunto di riflessione sui principali strumenti giuridici che nell’ordinamento internazionale, europeo ed italiano sono dedicati alla prevenzione e alla repressione del traffico di migranti.

A livello internazionale gli strumenti più importanti sono, come è noto, i due accordi addizionali della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale adottati dalla Conferenza di Palermo nel dicembre 2000, il Protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria e il Protocollo per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e bambini. All’art. 2 del Protocollo sul traffico si legge che «[l]o scopo del presente Protocollo è di prevenire e combattere il traffico di migranti, nonché quello di promuovere la cooperazione tra gli Stati Parte a tal fine, tutelando al contempo i diritti dei migranti oggetto di traffico clandestino» (corsivo mio). Ancora più chiaro è l’art. 2 del Protocollo sulla tratta, ai sensi del quale «[g]li obiettivi del presente Protocollo sono: a) prevenire e combattere la tratta di persone, prestando particolare attenzione alle donne e ai bambini; b) tutelare e assistere le vittime di tale tratta nel pieno rispetto dei loro diritti umani; e c) promuovere la cooperazione fra gli Stati Parte al fine di realizzare detti obiettivi». Appare evidente quindi che entrambi i Protocolli sono strumenti, facilmente qualificabili nell’ambito dei trattati sui diritti umani, volti alla tutela delle vittime del traffico e della tratta, e non alla prevenzione o alla repressione dell’immigrazione irregolare nei territori degli Stati parte. Siffatta affermazione è peraltro confermata dall’art. 5 del Protocollo sul traffico, laddove si esclude esplicitamente che il migrante possa essere sanzionato per essere stato oggetto del traffico, ovvero per essersi rivolto ai trafficanti al fine di poter varcare illegalmente la frontiera. Sembra inoltre opportuno menzionare la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 2005 (ratificata da quasi tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, tra cui tutti gli Stati membri dell’Unione europea), che all’art. 5, tra le misure volte alla prevenzione della tratta impone alle parti contraenti di «adott[are] le misure appropriate e necessarie, affinché gli immigrati si stabiliscano nel Paese legalmente, in particolare attraverso la diffusione d’informazioni accurate, da parte degli uffici interessati, sulle condizioni che permettono l’ingresso e la permanenza legale sul proprio territorio» (corsivo mio); se la norma non impone agli Stati alcun obbligo di accoglienza essa denota comunque la consapevolezza che garantire ai migranti modalità di accesso e permanenza regolare sia uno dei modi più efficaci per evitare lo sviluppo di organizzazioni criminali.

Dalle informazioni apparse sulla stampa in merito al modo in cui è gestito ed organizzato il «traffico» dei migranti che si imbarcano dalle coste libiche risultano alcuni elementi che permetterebbero forse di qualificare quell’attività criminale come «tratta». La «tratta di persone» è infatti definita all’art. 3 del Protocollo sulla tratta come «il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento»; la stessa norma precisa poi che «il consenso di una vittima della tratta di persone allo sfruttamento di cui alla lettera a) del presente articolo è irrilevante nei casi in cui qualsivoglia dei mezzi usati di cui alla lettera a) è stato utilizzato». Ora, sebbene non sia stato dimostrato lo sfruttamento dei migranti dopo lo sbarco, la situazione di estrema vulnerabilità in cui si trovano migranti e rifugiati in Libia, la confisca dei loro passaporti prima dell’imbarco, le pratiche estremamente violente utilizzate dagli scafisti per ottenere obbedienza, l’influenza dell’organizzazione anche dopo lo sbarco in Italia grazie alla presenza di trafficanti anche nei centri di accoglienza, sono tutti elementi che permetterebbero di qualificare quei migranti come vittime di tratta, con rilevanti conseguenze in termini di tutela.

La scelta delle istituzioni nazionali ed europee di parlare esclusivamente di traffico di persone e di repressione dei trafficanti piuttosto che di tratta, si spiega probabilmente anche in ragione delle conseguenze che tale diversa qualificazione comporta dal punto di vista dell’ordinamento interno. Se infatti gli accordi internazionali sia sulla tratta sia sul traffico si caratterizzano per avere come scopo la tutela dei migranti, e quindi anche il bene giuridico protetto dalle norme repressive è la vita e la dignità dell’essere umano vittima del comportamento criminale, ciò non appare altrettanto evidente nella normativa italiana ed europea. Il Protocollo di Palermo impone agli stati di sanzionare penalmente il traffico di migranti definito come «il procurare, al fine di ricavare, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o materiale, l’ingresso illegale di una persona in uno Stato Parte di cui la persona non è cittadina o residente permanente» (corsivo mio). Il fine di ricavare profitto costituisce quindi dolo specifico della fattispecie, mentre nessuna sanzione è prevista nel caso in cui il supporto all’ingresso illegale sia fornito gratuitamente, per esempio per ragioni di solidarietà. Questa considerazione appare un’ulteriore conferma del fatto che il contrasto all’immigrazione irregolare non è tra gli scopi perseguiti dal Protocollo relativo al contrasto al traffico di migranti. Certo, «i controlli alle frontiere necessari per prevenire e individuare il traffico di migranti», previsti dall’articolo 11 del Protocollo, avranno presumibilmente come effetto secondario anche il contrasto all’immigrazione irregolare, ma non sono a tale scopo preposti.

Diversamente, nell’ordinamento dell’Unione europea le norme repressive pertinenti sono quelle previste dalla Direttiva 2002/90/CE del 28 novembre 2002 volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali, che prevede l’adozione di «sanzioni appropriate: a) nei confronti di chiunque intenzionalmente aiuti una persona che non sia cittadino di uno Stato membro ad entrare o a transitare nel territorio di uno Stato membro in violazione della legislazione di detto Stato relativa all’ingresso o al transito degli stranieri» (art. 1, par. 1). La direttiva si limita ad autorizzare gli Stati membri a «non adottare sanzioni riguardo ai comportamenti di cui al paragrafo 1, lettera a), applicando la legislazione e la prassi nazionali nei casi in cui essi abbiano lo scopo di prestare assistenza umanitaria alla persona interessata» (art. 1, par. 2) (si noti che la risoluzione 2013/2827(RSP) del Parlamento europeo del 23 ottobre 2013 sui flussi migratori nel Mediterraneo, con particolare attenzione ai tragici eventi al largo di Lampedusa invitava «la Commissione a rivedere la direttiva 2002/90/CE del Consiglio volta a definire le sanzioni in caso di favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali, al fine di chiarire che la prestazione di assistenza umanitaria ai migranti che si trovano in pericolo in mare va considerata positivamente e non costituisce in alcun modo un’azione sanzionabile»; non risulta però che tale invito abbia fino ad ora avuto seguito). La definizione della fattispecie, priva di qualsiasi riferimento allo scopo lucrativo e volta quindi a sanzionare anche coloro che favoriscono l’ingresso illegale per ragioni di mera solidarietà con il migrante, nonché la previsione di una facoltà e non di un obbligo di non sanzionare l’assistenza umanitaria, appaiono indicativi del fatto che il rapporto tra beni giuridici tutelati sia diametralmente invertito rispetto al Protocollo relativo al traffico di migranti: scopo della direttiva è il contrasto all’immigrazione irregolare, non la tutela dei migranti oggetto del traffico. Tale conclusione non sembra confutata dalla Decisione quadro del Consiglio, del 28 novembre 2002, relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali (2002/946/GAI), che indica i tipici elementi qualificanti il traffico (scopo di lucro, organizzazione criminale, messa in pericolo delle vittime) come aggravanti dei reati di favoreggiamento dell’immigrazione illegale e non come definitori di una diversa fattispecie.

Un discorso del tutto analogo deve essere proposto con riferimento all’ordinamento italiano. Non è infatti previsto nell’ordinamento italiano uno specifico reato di traffico di persone, ma solo quello di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. L’art. 12, 1° co., del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e successive modifiche) punisce con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa di € 15.000 per ogni persona «chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente». Anche in questo caso il bene giuridico protetto dalla norma è l’integrità della frontiera rispetto all’ingresso irregolare di stranieri, la sanzione è infatti imposta indipendentemente dagli scopi e dai modi in cui il favoreggiamento dell’ingresso irregolare è realizzato. La tutela del migrante “trafficato” traspare solo nella definizione delle circostanze aggravanti previste dai commi 3 e seguenti del medesimo articolo.

Alla luce della normativa applicabile appare pertanto che il discorso volto a proporre come principale misura di prevenzione delle quotidiane tragedie nel Mar Mediterraneo il contrasto al traffico di migranti non solo è del tutto inadeguato, ma nasconde una radicale inversione del paradigma valoriale: il riferimento linguistico richiama una normativa (quella internazionale sul traffico di persone) volta a tutelare i diritti umani delle persone trafficate e quindi unanimemente riconosciuta come meritevole, mentre la normativa che costituisce il quadro giuridico delle azioni che effettivamente saranno adottate contro i trafficanti è destinata a proteggere gli Stati membri dell’Unione dagli ingressi irregolari. Una tale inversione di paradigma sembra peraltro confermata dal fatto che sotto il titolo «prevenzione dei flussi migratori illegali» sono rubricate ben otto delle diciassette lettere che compongono l’intera dichiarazione finale del Consiglio europeo straordinario.

La repressione delle organizzazioni criminali transnazionali che lucrano sulla disperazione di persone che fuggono dalla guerra è senza dubbio una delle azioni necessarie per impedire che migliaia di persone paghino cifre esorbitanti per imbarcarsi su natanti inadeguati alla traversata, ma si tratta di un’azione del tutto inutile e potenzialmente dannosa se non si interviene sulle reali cause del traffico: la situazione nei Paesi dai quali queste persone fuggono e l’assenza di vie legali di accesso all’Europa per rifugiati e persone bisognose di protezione internazionale.

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