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PROCEDURA DI CONFINE E PROCEDURA AI CONFINI DELLA REALTÀ NEL PROTOCOLLO ITALIA-ALBANIA IN MATERIA DI MIGRAZIONE

Gabriella Carella (Università di Bari “Aldo Moro”)

1. Il vasto arsenale delle misure che gli Stati occidentali hanno elaborato ‒ con impegno e creatività degni di miglior causa ‒ al fine di aggirare il divieto di refoulement di persone che fuggono da gravi situazioni di pericolo, si è arricchito di recente di un nuovo meccanismo, introdotto con il Protocollo tra Italia e Albania in materia di migrazione del 6 novembre 2023 (Protocollo) e con la relativa legge 21 febbraio 2024 n. 14 che dispone autorizzazione alla ratifica, ordine di esecuzione e norme di attuazione (legge di ratifica) (v., in questo blog, i commenti di De Leo e Grattarola).

Come in genere accade nelle innovazioni di ultima generazione, il sistema creato fa tesoro delle esperienze precedenti e realizza quindi una sorta di sincretismo tra le varie tattiche di elusione del refoulement, dando l’impressione di riuscire ad epurarle degli aspetti suscettibili di critica. 

È anzitutto previsto che mezzi delle autorità italiane imbarchino persone «all’esterno del mare territoriale» italiano o «di altri Stati dell’Unione europea», anche a seguito di operazioni di soccorso (art. 3 n. 2 legge di ratifica). È utilizzato quindi il meccanismo delle intercettazioni preventive in alto mare, non però per una illegittima azione di push back, bensì per condurre i soggetti intercettati in un luogo ove possano presentare, e vedere esaminata, la domanda di protezione internazionale. Tale località non è in Italia, bensì in uno Stato terzo, l’Albania, che, con il Protocollo citato, consente alle autorità italiane di utilizzare due Aree demaniali (individuate nell’Allegato) «al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea» (art. 1 n. 1, lett. c) e art. 4 n. 3 Protocollo). In questo complesso ed elaborato schema si utilizza, così, anche il meccanismo della esternalizzazione dei controlli di frontiera, depurandolo però dell’aspetto più critico e criticabile alla luce del principio di non refoulement: l’assoggettamento dei richiedenti alla normativa dello Stato terzo che potrebbe non tutelare adeguatamente i loro diritti. Ed infatti, ai soggetti condotti nelle Aree si applica ‒ oltre ad alcuni decreti specificamente richiamati ‒ la sola «disciplina italiana ed europea concernente i requisiti e le procedure relativi all’ammissione e alla permanenza degli stranieri nel territorio nazionale» (art. 4 n. 1 legge di ratifica). Per le procedure previste, inoltre, «sussiste la giurisdizione italiana e sono territorialmente competenti, in via esclusiva» gli organi italiani specificamente individuati (art. 3 legge di ratifica). Non una vera e propria esternalizzazione in senso tecnico, quindi, ma neppure una piena internalizzazione. Difatti, le Aree su cui l’Italia esercita la giurisdizione a fini migratori sono equiparate alle zone di frontiera che esistono in Italia (art. 3 n. 3 legge di ratifica), di modo che i migranti in esse condotti devono considerarsi persone fisicamente, ma non legalmente presenti nel territorio italiano e in attesa di ricevere l’autorizzazione ad entrare in esso. In tal modo, in caso di respingimento della domanda, tutta la procedura risulterà svolta senza che i richiedenti abbiano messo piede, neppure per finzione giuridica, sul territorio italiano. 

Sembra la quadratura del cerchio, l’apoteosi dell’ossimoro: respingere accogliendo, chiudere il territorio aprendolo (però altrove e non del tutto); garantire i diritti umani de-umanizzando i migranti, trattati alla stregua di oggetti da prelevare e depositare come e dove si vuole.

Tale innovativa costruzione non può non attirare l’interesse del giurista, desideroso di verificare se essa sia realmente in grado di superare una analisi giuridica più approfondita. È quello che ci proponiamo di accertare nell’indagine che segue. 

2. Appare opportuno premettere all’esegesi della normativa in questione una breve descrizione dell’istituto della procedura accelerata di frontiera (procedura di frontiera), unica ammessa nelle Aree per l’esame delle domande di protezione internazionale.

La procedura di frontiera è un istituto elaborato nella prassi statale sulla base di una finzione giuridica e di una alterazione del concetto di frontiera che consentono di ritenere non ancora ammesso nel territorio lo straniero che, pur presente in esso, si trovi in una zona di confine; ciò al fine di assoggettarlo ad una disciplina più restrittiva di quella applicabile a chi sia già entrato. Sotto la pressione migratoria, quindi, gli Stati hanno trasformato la nozione di frontiera, passata da una linea definita e ristretta ad una zona più o meno ampia, estesa anche per parecchi chilometri all’interno del territorio, considerata una bolla spaziale o, addirittura, una zona non-spaziale, una nowhere zone. I tentativi degli Stati europei di assimilarla ad una vera e propria zona extraterritoriale in cui annullare le tutele interne, europee ed internazionali è stato opportunamente bloccato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) che, nel caso Amuur c. Francia, relativo allo status di richiedenti asilo in una zona di transito aeroportuale, ha precisato che «even though the applicants were not in France within the meaning of the Ordinance of 2 November 1945, holding them in the international zone of Paris Orly Airport made them subject to French law. Despite its name, the international zone does not have extraterritorial status» (par. 52). 

Anche l’Unione europea, con la direttiva di rifusione 2013/32 (direttiva procedure), ha cercato di porre alcuni limiti agli abusi cui è stata in genere finalizzata la introduzione della procedura di frontiera, pur ammettendola nella sua struttura fondamentale di istituto meno favorevole per i richiedenti protezione, fondato su un artificio (sulla procedura di frontiera nell’Unione europea, v. l’Implementation Assessment dell’European Parliamentary Research Service del 2020, in particolare, parte II, p. 39 ss.).

 Così, dal considerando 38 e dall’insieme della direttiva procedure è confermata la definizione dell’istituto risultante da due presupposti, l’uno spaziale e l’altro temporale: rispettivamente, la presentazione della domanda nella zona di frontiera e l’anteriorità di tale presentazione rispetto alla formale autorizzazione all’ingresso nel territorio. Anche la Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea (Corte di giustizia), nelle cause riunite C-924/19 PPU e C-925/19 PPU, la definisce come «admissibility and/or substantive examination procedures regarding applications for international protection made at the border or in a transit zone of a Member State prior to a decision on an applicant’s entry to its territory» (par. 236). 

La conciliazione dell’istituto con il divieto di refoulement e con l’art. 9 della direttiva procedure ‒ che garantiscono al richiedente protezione il diritto di rimanere nel territorio dello Stato durante l’esame della domanda – è ottenuta attribuendo rilievo giuridico alla distinzione lessicale tra rimanere ed entrare nel territorio. Infatti, l’art. 2 lett. p) della predetta direttiva include nella nozione di territorio le zone di frontiera, con la conseguenza che la permanenza in tali zone esaurisce il diritto a rimanere nel territorio, pur non garantendo, trattandosi di confine, il diritto di entrare.

Né la Corte EDU, né la Corte di giustizia, però, hanno depurato la procedura in esame del suo carattere repressivo derivante dalla privazione di libertà personale che ad essa regolarmente si accompagna. Difatti, l’obbligo per i richiedenti protezione di permanere nella ristretta area della zona di confine o di transito durante l’esame della domanda di protezione configura sostanzialmente una privazione di libertà che, a differenza di quel che accade durante lo svolgimento della altre procedure, risulta giustificabile, in linea di principio, sia in base alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che alla luce del diritto dell’Unione europea, in particolare della direttiva 2013/33 (direttiva accoglienza). Ricorrono infatti gli estremi della misura privativa di libertà fondata sulla necessità di impedire agli stranieri «di entrare illegalmente nel territorio» (art. 5 n. 1 lett. f) CEDU) o finalizzata a «decidere, nel contesto di un procedimento, sul diritto del richiedente di entrare nel territorio» (art. 8, paragrafo 3, primo comma, lettera c) direttiva accoglienza). Ciò è stato riconosciuto dalla Corte di giustizia per la quale la seconda disposizione citata «include il regime di trattenimento che può essere istituito dagli Stati membri quando essi decidono di attuare procedure di frontiera, ai sensi dell’articolo 43 della direttiva 2013/32» (causa C-808/18, par. 178).

Un’altra ragione del favore di cui gode la procedura di frontiera presso gli Stati consiste nella maggiore facilità di respingimento che essa consente nel caso in cui la domanda di protezione non sia accolta. Poiché, infatti, giuridicamente può ritenersi che lo straniero non sia ancora entrato nel territorio, una volta che si accerti nei suoi confronti l’inapplicabilità del divieto di refoulement, egli potrà essere respinto senza la necessità di ricorrere a complesse procedure. Ciò vale anche nel sistema europeo comune di asilo. Dispone infatti l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a) della direttiva 2008/115 (direttiva rimpatri) che gli Stati membri possono decidere di non applicare la disciplina da essa posta ai cittadini di paesi terzi sottoposti a respingimento alla frontiera, conformemente all’articolo 13 del Codice frontiere Schengen, ovvero «fermati o scoperti dalle competenti autorità in occasione dell’attraversamento irregolare via terra, mare o aria della frontiera esterna di uno Stato membro e che non abbiano successivamente ottenuto un’autorizzazione o un diritto di soggiorno in tale Stato membro». La seconda parte della disposizione si riferisce appunto a coloro che, sottoposti a procedura di frontiera, abbiano visto respinta la loro domanda di protezione: ad essi lo Stato può applicare proprie procedure nazionali di allontanamento, semplificate rispetto a quelle della direttiva rimpatri, ancorché rispettose delle garanzie fondamentali che derivano dalla tutela dei diritti umani (Cfr. Implementation Assessment , p. 9 e p. 61).

In Italia la meno garantista tra le procedure d’esame delle domande di protezione internazionale è stata introdotta, con scarso senso dell’opportunità e un pizzico di cinismo, come risposta al tragico naufragio di migranti a Cutro (94 morti, di cui 35 bambini, oltre a diversi dispersi). Solo con la conversione in legge del c.d. decreto Cutro, infatti, si è pervenuti alla disciplina di una procedura accelerata di frontiera autonoma e differenziata dalle altre procedure accelerate quanto ai soggetti cui è applicabile e al luogo in cui può svolgersi (art. 28-bis, comma 2-bisd.lgs. 25/2008, introdotto dall’art. 7-bis decreto Cutro convertito in legge), alla disciplina del ricorso giurisdizionale (articoli 35-bis, comma 3 e 35-ter d.lgs. 25/2008, introdotti dal predetto art. 7-bis) e a quella del trattenimento (art. 6-bis d.lgs. n. 142/2015, introdotto dal predetto art. 7-bis). A pochi mesi di distanza dall’introduzione della procedura, il Protocollo con l’Albania ne tenta una applicazione importante, ma estemporanea, che andiamo a considerare.

3. Passiamo ora ad analizzare giuridicamente i vari segmenti che compongono l’insolito sistema risultante dal Protocollo e dalla relativa legge di ratifica, iniziando col verificarne la compatibilità rispetto alla CEDU.

Come già visto, l’Albania consente l’uso delle Aree al solo scopo di svolgervi le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla legge italiana. Tuttavia, poiché, come già detto, possono essere assoggettati a tali procedure solo soggetti intercettati in alto mare e non persone provenienti dall’Italia – ad esempio, coloro la cui domanda di protezione sia stata respinta e che devono essere trattenuti in attesa di allontanamento ‒, le procedure di rimpatrio avranno luogo nelle Aree solo se ‒ e nei confronti di coloro rispetto ai quali ‒ la procedura di frontiera abbia dato esito negativo. È pertanto la procedura di frontiera l’unica che giustifica realmente l’esistenza e la funzione delle Aree: se non vi sono i presupposti per il suo svolgimento, l’intero meccanismo vien meno. 

Per lo svolgimento di una procedura di frontiera è necessario che lo Stato interessato abbia individuato la zona di frontiera e che persone di nazionalità straniera si affaccino o penetrino irregolarmente in detta zona al fine di entrare nel territorio. All’Italia non mancano certo i migranti che si affacciano alle frontiere, né si può dire che il nostro Stato sia carente di queste ultime che, al contrario, per mare e per terra, si sviluppano per migliaia di chilometri. Nonostante ciò, si è ritenuto di dover ulteriormente ingrandire i nostri confini estendendoli in Albania ‒ con suggestioni storiche un po’ inquietanti ‒, ma, questa volta, non per ragioni imperialistiche, bensì per una cooperazione migratoria. Si è istituita quindi nelle Aree una zona di confine italiana equiparata a quelle già dichiarate in Italia, in attuazione della direttiva procedure, con decreto 5 agosto 2019 del Ministero dell’interno (art. 3 n. 3 legge di ratifica). 

Tale zona di confine presenta inevitabilmente tratti surreali, visto che è circondata da territorio albanese e che è fisicamente impossibile l’ipotesi di qualche migrante che, autonomamente e sua sponte, riesca ad affacciarsi ad essa, per di più… con l’intento di penetrare in territorio italiano. L’impossibilità del novello confine di funzionare come tale è rafforzata dal fatto che, ai sensi dell’art. 1, lett. d) Protocollo, i migranti nelle Aree devono essere cittadini di Stati terzi, requisito che esclude gli albanesi, gli unici che sarebbero in grado di entrare nella zona di frontiera. Per neutralizzare i limiti della fisica, si è pensato bene, quindi, di procurarsi coattivamente i richiedenti protezione, andandoli a raccogliere direttamente in alto mare con mezzi delle autorità italiane (art. 3 n. 2 legge di ratifica) e trasferendoli nelle Aree, senza o contro la loro volontà, ai fini dello svolgimento della procedura.

Senonché, le attività di intercettazione preventiva, abbordo, trasbordo di migranti e reindirizzamento e sbarco forzati di questi ultimi nel porto albanese di Shengjin (una delle Aree), prefigurate per il funzionamento del sistema, costituiscono, sul piano giuridico, esercizio di un potere di controllo continuativo su individui da parte di organi dello Stato che va giustificato. Come affermato dalla Corte EDU già a partire dai casi Medvedyev e altri c. Francia (par. 67) e Hirsi Jamaa e altri c. Italia (par. 81 s.), tale controllo continuativo è sufficiente a comportare l’applicabilità della CEDU – pur trattandosi di attività compiute in alto mare e non nel territorio ‒e, in particolare, configura, in astratto, una privazione di libertà che, ai sensi dell’art. 5 n. 1, deve essere giustificata da uno dei motivi elencati nelle lettere a)-f) (Medvedyev e altri c. Francia, par. 102). Con riferimento alla situazione in esame, solo due giustificazioni, tra quelle previste, appaiono in astratto applicabili all’operazione di enforcement: la finalità di tradurre dinanzi all’autorità giudiziaria persone sospettate di aver commesso un reato (art. 5, n. 1, lett. c), ovvero la necessità di impedire l’ingresso illegale nel territorio (art. 5 n.1, lett. f).

Quanto al primo punto, l’invocabilità della giustificazione è già in linea di principio problematica per le intercettazioni in alto mare perché, come è noto, limitatissime sono le ipotesi in cui è consentito l’esercizio di poteri di enforcement, da parte di una nave pubblica su una imbarcazione non della stessa bandiera, per la prevenzione e repressione di reati, persino nel caso di traffico di migranti, traffico di droga, tratta degli esseri umani, ecc. Non è necessario, tuttavia, entrare nel merito della questione perché ogni norma autorizzativa di poteri di enforcement che possa eventualmente rinvenirsi sarebbe sempre finalizzata all’esercizio della giurisdizione penale italiana: essa potrebbe, quindi, al più giustificare la privazione di libertà conseguente ad intercettazione e reindirizzamento verso un porto italiano. In nessun modo, invece, sarebbe legittimato il trasporto coattivo nelle Aree, visto che in queste ultime la giurisdizione italiana penale può esercitarsi solo per i delitti in esse commessi durante lo svolgimento delle procedure (art. 4 n. 6 legge di ratifica).

 Passando alla giustificazione prevista dall’art. 5 n. 1 lett. f), anch’essa è inapplicabile all’esercizio di poteri coercitivi in alto mare perché, in tal caso, non è definibile con certezza la destinazione dell’imbarcazione; di conseguenza, il pericolo di ingresso illegale nel territorio appare come una mera supposizione o illazione rispetto alla quale la privazione di libertà è sproporzionata e arbitraria. Basti pensare che la legge di ratifica autorizza il trasporto coercitivo verso le Aree persino di soggetti intercettati «all’esterno del mare territoriale di…altri Stati membri dell’Unione europea», cioè in situazioni in cui invocare l’esigenza di evitare l’ingresso in territorio italiano è chiaramente pretestuoso. Non si può certo pensare che l’art. 5 n. 1 lett. f) autorizzi gli Stati ad inviare le proprie navi pubbliche in giro per i mari a fermare imbarcazioni che si suppone, o si immagina, possano entrare illegalmente nel proprio mare territoriale. Va ricordato che la libertà personale è un diritto fondamentale e che la Corte EDU ha ribadito fermamente che le cause che ne giustificano la privazione sono di stretta interpretazione. Pertanto, nonostante non ci siano limitazioni geografiche espresse nell’art. 5 n. 1 lett. f), esse sono implicate dalla natura e dalla funzione della norma, oltre che dall’esigenza di proporzionalità tra la gravità della misura personale applicata e l’obiettivo pubblico perseguito. Il trasbordo e lo sbarco coattivo possono essere giustificati, quindi, solo se l’imbarcazione è intercettata in occasione dell’attraversamento del confine, quando la finalità di impedire l’ingresso illegale è concreta e fondata su circostanze oggettive e non su valutazioni discrezionali o arbitrarie delle autorità intercettanti. In tal caso, però, collocandosi già nel mare territoriale, l’operazione deve concludersi necessariamente in un porto italiano. 

Resta la possibilità che il trasporto verso il porto di Shengjin non sia una operazione di enforcement, bensì costituisca un legittimo intervento di salvataggio in mare. Per la verità, nel caso Khlaifia e altri c. Italia, la Corte EDU ha affermato che «the applicability of Article 5 of the Convention cannot be excluded by the fact, relied on by the Government, that the authorities’ aim had been to assist the applicants and ensure their safety … Even measures intended for protection or taken in the interest of the person concerned may be regarded as a deprivation of liberty». Tuttavia, nel caso in esame, sono proprio le caratteristiche dell’operazione di salvataggio a mancare, impedendo l’invocazione di tale circostanza.

Per accertarcene, dobbiamo rifarci alla disciplina della Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1° novembre 1974 (Convenzione SOLAS) e alla Convenzione su ricerca e salvataggio in mare del 27 aprile 1979 (Convenzione SAR). L’art. 1.3.2 dell’Allegato a quest’ultima, come modificato dagli emendamenti del 1998, nel definire la nozione di salvataggio, stabilisce che esso è: «[a]n operation to retrieve persons in distress, provide for their initial medical or other needs, and deliver them to a place of safety». Perché possa parlarsi di salvataggio, quindi, non basta che un intervento inizi per far fronte ad una situazione di emergenza, ma è necessario che esso si concluda con lo sbarco in un “place of safety” (PoS) (nello stesso senso, la regola 33/V, par. 1.1, della Convenzione SOLAS, come emendata nel 2004). 

Può ritenersi che il porto di Shengjin sia un PoS? Va ricordato che, nel tempo, la nozione di PoS si è arricchita di contenuti ulteriori rispetto al soddisfacimento dei basilari bisogni materiali dei soggetti salvati, estendendosi a ricomprendere il divieto di refoulement delle persone soccorse e la garanzia dei diritti umani fondamentali. Ci limitiamo a riportare l’art. 2, n. 12, regolamento 656/2014 in base al quale per “luogo sicuro” si intende «un luogo in cui si ritiene che le operazioni di soccorso debbano concludersi e in cui la sicurezza per la vita dei sopravvissuti non è minacciata, dove possono essere soddisfatte le necessità umane di base e possono essere definite le modalità di trasporto dei sopravvissuti verso la destinazione successiva o finale tenendo conto della protezione dei loro diritti fondamentali nel rispetto del principio di non respingimento» (v. anche la risoluzione 1821/2011 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa del 21 giugno 2011 e le Guidelinesdel Maritime Safety Commitee IMO, par. 6.12). 

 Alla luce della nozione giuridica di PoS, deve escludersi, pertanto, che tale possa essere considerato il porto di Shengjin ove i soggetti trasportati, senza aver dato causa con il loro comportamento ad alcun tipo di pericolo (neppure a quello di ingresso irregolare nel territorio che non è stato neppure tentato), sono – come ci apprestiamo a vedere ‒ ineluttabilmente assoggettati, senza possibilità di alternative, ad un regime di isolamento totale unico nel suo genere che li priva del diritto fondamentale alla libertà personale, nonché della possibilità di definire liberamente «le modalità di trasporto…verso la destinazione successiva o finale». Quello che si vorrebbe eventualmente etichettare come salvataggio appare allora, in tutta evidenza, come una deportazione illegittima.

In conclusione, la prima parte del sistema è inattuabile perché realizza una violazione dell’art. 5 n. 1 CEDU rilevabile in sede di ricorsi ed eccezioni di incostituzionalità.

4. Passiamo a considerare la seconda parte della complessiva operazione, come configurata dal Protocollo e dalla legge di ratifica. Le persone sbarcate su territorio albanese sono condotte coercitivamente nelle Aree con la scorta armata di personale italiano e, sempre con la sorveglianza di personale italiano armato, sono costrette a rimanervi (art. 6 n. 5 e art. 7, nn. 9 e 10 Protocollo). La permanenza coercitiva è garantita anche dall’esterno grazie ad una barriera di sicurezza che cinge il perimetro delle Aree, con postazioni di controllo occupate da personale albanese; quest’ultimo impedisce l’uscita e assicura che i soggetti eventualmente sfuggiti alla sorveglianza interna siano ricondotti indietro (art. 5 n. 2 e art. 6 n. 6 Protocollo). La permanenza coercitiva non si prolunga solo per la durata della procedura, ma addirittura si trascina oltre il suo espletamento, ed indipendentemente dall’esito di esso (art. 6 n. 5 Protocollo), in quanto i trasferimenti da e per il territorio albanese devono essere effettuati solo dalle autorità italiane (art. 4 n. 3 e art. 9 Protocollo). Tale ultimo aspetto della disciplina è del tutto singolare nella sua severità. Non ci risulta infatti che si sia mai verificato prima, in qualsivoglia ordinamento, che i soggetti la cui domanda di protezione viene accolta non riacquistino la libertà personale o di circolazione eventualmente limitata nel corso della procedura. Con l’attuazione del Protocollo, invece, si verificherebbe che un soggetto a cui è già stata riconosciuta la protezione internazionale rimarrebbe soggetto a restrizioni, in modo evidentemente del tutto arbitrario, dal momento del provvedimento di accoglimento al momento in cui, ricondotto in Italia, riacquista la libertà.

Ricorrono, nella situazione complessivamente descritta, tutti gli elementi valorizzati nella giurisprudenza della Corte EDU per accertare, in generale, una privazione di libertà: l’impossibilità di lasciare lo spazio limitato, il livello di vigilanza e di controllo degli spostamenti della persona, la portata dell’isolamento e l’impossibilità di rapporti sociali con la comunità esterna (Guzzardi c. Italia, par. 95; H.M. c. Svizzera, par. 45; H.L. c. Regno Unito, par. 91; e Storck c. Germania, par. 73). Va sottolineata, in particolare, l’esistenza, nella situazione in esame, dei fattori specifici cui la Corte EDU ha dato rilievo per stabilire una violazione dell’art. 5 n. 1 rispetto a soggetti trattenuti nelle zone di transito e di frontiera (quali sono le Aree per la qualificazione che ne dà la legge di ratifica). Tra tali fattori ‒ ricapitolati nella decisione della Grande Camera nel caso Ilias e Ahmed c. Ungheria, par. 217 ‒, rileva anzitutto il fatto che i migranti non sono entrati nella zona di loro iniziativa e libera volontà (par. 220-223). Altro elemento di giudizio importante è la verifica del livello di libertà ed autonomia dei migranti nel decidere di abbandonare la zona verso l’esterno, cioè verso il territorio di provenienza. In un’area di frontiera creata ai confini terrestri, ad esempio, si dà rilievo alla circostanza – del tutto inapplicabile nel caso di specie ‒ che essa sia adiacente alla zona di transito verso il Paese confinante e possa quindi essere lasciata autonomamente dai migranti, senza dover dipendere dall’autorizzazione delle autorità a salire su qualche mezzo (par. 236), che si tratti di un aereo con il quale abbandonare una zona di transito internazionale (Amuur c. Francia par. 48), oppure di una nave (Ilias e Ahmed c. Ungheria, par. 240). 

La mancanza di autodeterminazione dei migranti ad entrare nelle Aree e la dipendenza dalle autorizzazioni e dal trasporto delle autorità per qualsiasi movimento, anche verso l’esterno, rendono insuperabile la configurazione della situazione concreta come privazione di libertà arbitraria perché senza giustificazione. Difatti, invocare in questo caso il pericolo di ingresso nel territorio italiano corrisponde ad una inammissibile finzione, inaccettabile sempre, ma ancor più se con essa si voglia giustificare la privazione di libertà. 

La Corte EDU è sempre stata attenta ad evitare che gli Stati possano giustificare violazioni dei diritti umani servendosi della “truffa delle etichette” e tale può considerarsi la qualificazione delle Aree – cioè, di una enclave in territorio straniero lontana centinaia di chilometri dal territorio nazionale ‒ come zona di confine allo scopo di giustificare lo svolgimento della procedura di frontiera e il connesso trattenimento dei richiedenti. Ogni Stato può usare i nomi di fantasia che desidera, ma non può pretendere di farne derivare conseguenze giuridiche lesive di diritti fondamentali. Nel sistema di tutela dei diritti umani, improntato ad effettività, può ritenersi con certezza che, rispetto a soggetti intercettati in alto mare e trattenuti in una enclave in territorio albanese, il rischio di ingresso illegale in territorio italiano non sussiste né ex ante ‒ quando è una mera illazione inammissibile ‒, né ex post, quando scompare del tutto. 

Per legittimarsi, in pratica, il sistema creato deve far scaturire da una finzione di confine una finzione di ingresso illegale nel territorio italiano, con ciò introducendo un nuovo tipo di procedura di frontiera: la procedura ai confini della realtà. Tale innovativo, ma surreale meccanismo, però, è strutturalmente e radicalmente incompatibile con la CEDU in tutte le fasi della sua attuazione (e lo stesso varrebbe se lo si confrontasse con altri atti di tutela internazionale dei diritti umani che ci esimiamo dall’esaminare). 

5. L’analisi sin qui condotta con riferimento alla CEDU è già di per sé sufficiente ad escludere la legittimità del sistema in esame. È utile, tuttavia, anche il confronto con il diritto dell’Unione europea, in particolare con la direttiva procedure, attuata in Italia con il d.lgs. 25/2008. Tale esame viene svolto di seguito perché riteniamo che la direttiva procedure sarebbe applicabile alle domande di protezione internazionale se queste, per ipotesi, potessero essere presentate nelle Aree. È vero, infatti, che l’art. 3 della direttiva stessa ne limita l’applicazione alle domande presentate nel territorio, ma è anche vero che in quest’ultimo vengono incluse, dalla stessa disposizione, anche le zone di frontiera e di transito che gli Stati liberamente individuano e, quindi, anche le Aree che l’art. 3 n. 3 legge di ratifica equipara alle zone di frontiera esistenti nel territorio italiano proprio in applicazione della direttiva procedure (art. 28-bis, comma 4, d.lgs. 25/2008). Se la qualificazione delle Aree fatta dal governo italiano ha un senso giuridico, essa trascina con sé l’applicazione della direttiva procedure e del sistema europeo comune di asilo (a meno di volerla considerare una boutade). Peraltro, avvertiamo sin d’ora che un ulteriore esame dell’applicabilità del diritto dell’Unione europea verrà compiuto più avanti, nella diversa prospettiva che valorizza l’esercizio pieno della potestà di governo italiana nelle Aree per assimilarle al territorio (v., oltre, par. 7).

La prima verifica di compatibilità con la direttiva procedure riguarda le categorie di migranti da trasferire nelle Aree perché esse devono essere necessariamente ricomprese tra quelle espressamente previste nell’art. 43 direttiva procedure. Difatti, la procedura di frontiera deve considerarsi di natura speciale, di stretta interpretazione e applicabile ai soli casi di ammissibilità e di merito tassativamente indicati dall’art. 43, mediante rinvio agli articoli 33 e 31 n. 8 della stessa direttiva. La natura speciale deriva dall’artificiosa scissione tra rimanere ed entrare nel territorio che ha carattere eccezionale rispetto alla regola generale in cui permanenza e ingresso coincidono. Inoltre, come precisato, la procedura in esame si accompagna regolarmente ad una privazione di libertà che, pur consentita, in linea di principio, dall’art. 8, par. 3, primo comma, lett. c) direttiva accoglienza, tuttavia deve essere limitata strettamente ai casi e alle modalità previste dall’art. 43 (in tal senso, la Corte di giustizia nella causa C-808/18, par. 186). La specialità e tassatività risultano, inoltre, dal considerando 38 della direttiva procedure che ne limita l’applicazione a «circostanze ben definite», da identificarsi con i presupposti elencati nell’art. 43; tali caratteri sono inoltre riconosciuti oltre che, come visto, dalla Corte di giustizia, anche dalla Commissione nel documento COM(2011) 319 final ANNEX (p. 11, ove si legge che «the list of cases that can be accelerated or examined at the border remains exhaustive») e dal Parlamento europeo nella Relazione sull’attuazione dell’art. 43, p. 4.

Nel nostro ordinamento l’art. 28-bis, n. 2-bisd.lgs. 25/2008, di attuazione della direttiva procedure – la cui applicazione nelle Aree è espressamente disposta ‒ limita l’esame del merito nella procedura di frontiera ai casi del richiedente che abbia presentato domanda «dopo essere stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i relativi controlli» (art. 28-bis n. 2, lett. b) e al richiedente proveniente da un paese di origine sicuro, sempre che si trovi nella zona di frontiera perché, se sia già entrato nel territorio, gli andrà applicata semplicemente la procedura accelerata (art. 28-bis n. 2, lett. b-bis e lett. c).

 Ora, l’ipotesi del soggetto intercettato dopo aver eluso i controlli di frontiera corrisponde sostanzialmente, pur nella differente formulazione letterale, al caso di chi, entrato illegalmente nel territorio, «senza un valido motivo non si è presentato alle autorità», previsto all’art. 31 n. 8, lett. h) direttiva procedure. Si tratta quindi di un presupposto della procedura di frontiera legittimamente contemplato, ma ictu oculi inapplicabile nel caso dei richiedenti che si trovano nelle Aree i quali vi sono stati trasportati coercitivamente dall’alto mare, senza aver avuto la possibilità di presentarsi spontaneamente alle autorità di frontiera o di eluderne i controlli.

L’altra ipotesi applicativa prevista, cioè il caso dei richiedenti provenienti da Paese di origine sicuro, corrisponde all’art. 31, n. 8, lett. b) direttiva procedure e, sulla base di una lettura superficiale della norma, sembrerebbe applicabile anche ai migranti trasportati nelle Aree. La procedura di frontiera, pur limitata solo a tali soggetti, sarebbe utilmente prevista, considerato che, tra i Paesi di origine considerati sicuri nell’ultimo elenco (p. 14), ve ne sono molti che risultano fonte di flussi migratori nel Mediterraneo (Algeria, Tunisia, ecc.). L’interpretazione è tuttavia errata alla luce della lettera e della ratio complessiva dell’art. 31 n. 8 direttiva procedure. Per la comprensione di detta disposizione, è centrale e determinante l’ipotesi, prevista alla lettera h), dello straniero che «è entrato illegalmente nel territorio dello Stato membro o vi ha prolungato illegalmente il soggiorno e, senza un valido motivo, non si è presentato alle autorità o non ha presentato la domanda di protezione internazionale quanto prima possibile rispetto alle circostanze del suo ingresso». Per interpretazione a contrario, da tale previsione deriva che lo straniero, entrato nella zona illegalmente, che si presenti subito e spontaneamente alle autorità di frontiera non deve essere assoggettato a procedura di frontiera, a meno che non ricorrano le ipotesi previste nell’art. 31 n. 8, lettere a)-j). Tali ipotesi, tra cui quella del proveniente da paese di origine sicuro, assumono quindi rilievo autonomo solo in caso di presentazione volontaria alle autorità dopo l’ingresso illegale, restando altrimenti assorbite nella lettera h). Se ne conclude che la norma in esame prevede solo i casi di chi si presenti spontaneamente alle autorità di frontiera, ovvero di chi sia intercettato, all’ingresso o poco dopo e, in entrambi i casi, presuppone che il richiedente sia entrato volontariamente nel territorio.

 È estranea, invece, alla normativa considerata l’ipotesi di chi sia stato intercettato prima dell’ingresso e, per di più, condotto nel territorio senza o contro la sua volontà. Tale fattispecie non solo non figura nel testo della lettera h), ma sovverte l’intero sistema della direttiva. In primo luogo, infatti, l’intercettazione anteriore all’ingresso impedisce di sapere se lo straniero si sarebbe presentato alle autorità di frontiera o non lo avrebbe fatto e, quindi, priva di motivazione l’applicazione della procedura più restrittiva, rendendola arbitraria. Si pensi al caso dello straniero senza documenti, ma che fornisce motivi coerenti e veritieri per la richiesta di protezione: costui, se si presenta spontaneamente alle autorità, deve essere sottoposto alla procedura ordinaria, mentre, se sia intercettato prima dell’ingresso, si vede preclusa tale possibilità e applicata automaticamente la procedura più sfavorevole.

In secondo luogo, l’intercettazione anteriore all’ingresso impedisce di sapere se lo straniero sarebbe effettivamente entrato nel territorio e, a maggior ragione, in quale località si sarebbe presentato spontaneamente o sarebbe stato intercettato. Si pensi proprio al caso del proveniente da Paese di origine sicuro che, entrato irregolarmente, superi la zona di confine e si presenti alle autorità nel territorio: in tal caso, gli dovrebbe essere applicata la procedura ordinaria. Se c’è intercettazione preventiva, la determinazione della procedura meno favorevole e garantista dipende quindi dall’arbitrio delle autorità intercettanti, cioè dalla scelta di queste ultime di far approdare i migranti nel territorio o in una zona di frontiera. Ciò è evidentemente inammissibile. Diversa sarà la situazione con l’entrata in vigore del nuovo Patto europeo su migrazione e asilo in quanto l’assoggettamento alla procedura di frontiera dei soggetti salvati in operazioni di search and rescue sarà espressamente previsto e non dipenderà più dalla scelta discrezionale sul luogo dello sbarco. Non c’è da sperare, però, che tra un paio d’anni si potranno popolare le Aree albanesi con tale categoria di migranti. Difatti, l’art. 43 n. 1 lett. c) del regolamento sulla procedura comune di protezione internazionale dell’Unione, che sostituirà la direttiva procedure, approvato dal Parlamento europeo con risoluzione del 10 aprile 2024,applica la procedura di frontiera, oltre che nei casi di chi sia stato intercettato o si sia presentato volontariamente, anche nell’ipotesi di sbarco «a seguito di un’operazione di ricerca e soccorso» precisando, però, che detto sbarco deve avvenire «nel territorio di uno Stato membro».

Arriviamo quindi alla conclusione che i soggetti intercettati in alto mare da navi pubbliche non rientrano attualmente nell’ambito di applicazione dell’art. 43 direttiva procedure e che, non essendo possibile una interpretazione estensiva o analogica della disposizione, ad essi, indistintamente, non può essere applicata la procedura di frontiera (in tal senso, prima del decreto Cutro, anche la circolare n. 8560 del 16 ottobre 2019 del Ministero dell’interno). Essi, pertanto, devono essere sbarcati nel territorio italiano e non nelle Aree dove l’unica procedura applicabile è proprio quella di frontiera. A questo punto, però, si verifica un cortocircuito perché non sono ammesse nelle Aree ulteriori categorie di migranti, diversi da quelli che non devono esservi portati perché non assoggettabili all’unica procedura consentita in quella zona. In conclusione, l’intero sistema è un assurdo giuridico.

 Se, nonostante tutto, gli venisse data attuazione, in sede di convalida del trattenimento, rilevata la violazione di una norma dell’Unione europea dal carattere completo e incondizionato per la sua tassatività, in applicazione del principio del primato del diritto dell’Unione, le norme interne contrastanti non devono essere applicate e devono quindi essere ordinati la liberazione e il trasferimento immediato in Italia dei migranti.

 In altri tempi, per rispetto verso i lettori del blog, ci saremmo fermati alle conclusioni appena espresse, dato il carattere basilare, ultracinquantennale ed indiscusso del principio del primato del diritto dell’Unione. Tuttavia, considerate alcune recenti, inaspettate e sorprendenti affermazioni di origine governativa per le quali «non può esistere una verifica diffusa della conformità delle leggi alla normativa europea», risulta evidentemente utile ribadire il principio del primato facendo parlare proprio la Corte di giustizia e scegliendo, tra le innumerevoli decisioni, quella adottata, nella materia che ci interessa, nelle cause riunite C-924/19 PPU e C-925/19 PPU. Afferma la Corte: «A tal riguardo, occorre rilevare che poiché l’articolo 33 della direttiva 2013/32 elenca in maniera esaustiva, come è stato ricordato al punto 149 della presente sentenza, i casi in cui una domanda di protezione internazionale può essere respinta in quanto inammissibile, tale articolo enuncia una norma il cui contenuto è incondizionato e sufficientemente preciso per poter essere invocato da un singolo ed applicato dal giudice. Ne consegue che tale articolo è munito di un effetto diretto… L’obbligo di disapplicare, se del caso, una disposizione nazionale contraria ad una disposizione di diritto dell’Unione munita di effetto diretto incombe non solo sui giudici nazionali, ma anche su tutti gli organismi dello Stato, ivi comprese le autorità amministrative, incaricati di applicare, nell’ambito delle rispettive competenze, il diritto dell’Unione» (par. 182-183).

6. La procedura di frontiera che si vorrebbe svolgere nelle Aree, oltre ad essere priva dei necessari requisiti soggettivi di applicazione, risulta anche sprovvista del suo presupposto spaziale. Abbiamo visto all’inizio (par. 2) che elemento essenziale della definizione dell’istituto, risultante dalla direttiva procedure e ribadita dalla Corte di giustizia, è la presentazione della domanda di protezione internazionale in una zona di frontiera. La direttiva rimette alla discrezionalità e libertà degli Stati la determinazione di tali zone, senza fissare requisiti stringenti. Tuttavia, l’interpretazione che si è ritenuto di poter dare di tale libertà trascende i limiti dell’ammissibile. 

La zona di frontiera – lo abbiamo visto – è fondata su una finzione, ma un conto è fingere che una fascia spaziale più o meno ampia, a ridosso del confine e in continuità con esso, non sia ancora territorio interno, ai fini dell’autorizzazione all’ingresso degli stranieri, altro è inventarsi che il territorio di uno Stato terzo, neppure contiguo alle frontiere italiane e collocato a centinaia di chilometri da esse, possa considerarsi una zona di frontiera italiana. Lo sforzo di fantasia è ardito e, se giustificato, aprirebbe possibilità sconfinate, probabilmente allettanti per gli Stati. Se l’Italia può costituire un’area di confine in Albania, non vi sarebbero ostacoli in futuro, quando la colonizzazione dello spazio atmosferico lo consentirà, a mandare “in orbita” i migranti in senso fisico, costituendo zone di confine su piattaforme spaziali o colonie lunari. La differenza con la zona di frontiera proclamata in Albania sarebbe solo quantitativa, relativa alla distanza in chilometri, non certo qualitativa, perché in entrambi i casi mancherebbe qualsiasi reale e ragionevole collegamento con i confini italiani.

 Il diritto, tuttavia, impedisce tali realizzazioni e vincola a soluzioni più ordinarie e rigorose. Infatti, sebbene non venga data una definizione della zona di frontiera, l’art. 43 direttiva procedure impone molto chiaramente che quest’ultima si trovi nelle immediate vicinanze del confine perché sia legittimo svolgervi le procedure di frontiera. Dispone infatti l’art. 43 n. 3 che, in caso di arrivi in massa di migranti che rendano difficile trattenerli tutti nella zona di confine, la procedura di frontiera potrà essere svolta eccezionalmente anche nelle zone ove i migranti vengono trasferiti, purché però queste si trovino «nelle immediate vicinanze della frontiera o della zona di transito». Se la zona, diversa rispetto a quella di frontiera, in cui lo Stato è autorizzato a svolgere la procedura in esame a titolo del tutto eccezionale deve collocarsi «nelle immediate vicinanze della frontiera o della zona di transito», a maggior ragione l’ordinaria zona di frontiera dovrà distaccarsi di pochissimo dal confine, inoltrandosi verso l’interno del territorio nazionale per qualche centinaio di metri o qualche chilometro al massimo. L’istituzione di una zona di frontiera in Albania costituisce quindi violazione della direttiva procedure.

 È utile aggiungere che l’illegittimità di simili proclamazioni sarà ancora più chiara con l’entrata in vigore del nuovo Patto europeo su migrazione e asilo. Difatti, nel testo del regolamento sulla procedura comune di protezione internazionale dell’Unione, che sostituirà la direttiva procedure, approvato dal Parlamento europeo con risoluzione del 10 aprile 2024, l’art. 54, dedicato specificamente alla definizione dei luoghi deputati allo svolgimento della procedura di frontiera, stabilisce che essi devono trovarsi «alla frontiera esterna o in prossimità della stessa ovvero in una zona di transito, o in altri luoghi designati sul proprio territorio». È previsto, inoltre, un controllo della Commissione a cui deve essere comunicata l’individuazione di tali luoghi ed ogni successiva modifica di essi.

In conclusione, poiché le Aree non sono zone di frontiera ai sensi della direttiva procedure, in esse non può svolgersi la procedura di frontiera disciplinata da detta direttiva e dal decreto italiano di attuazione, espressamente richiamato nel Protocollo. Se, nonostante tutto, si procedesse all’applicazione della normativa illegittima, dato il carattere completo, incondizionato e tassativo dell’art. 43 quanto ai presupposti della procedura, in sede di richiesta di convalida del trattenimento, va disposto il trasferimento in Italia dei richiedenti protezione e l’assoggettamento ad altra procedura, non in stato di trattenimento.

Non possiamo tuttavia considerare conclusa la nostra indagine sulla compatibilità della normativa in esame con il diritto dell’Unione europea senza dar conto di una autorevole interpretazione: in base ad essa, il regime giuridico creato dall’Italia nel territorio ottenuto in uso da uno Stato extraeuropeo non sarebbe sottoposto al ‒ né potrebbe essere confrontato con il ‒ sistema comune europeo di asilo perché ciò realizzerebbe una inammissibile applicazione extraterritoriale del diritto dell’Unione. L’obiezione rileva soprattutto per la sua fonte e, nel paragrafo successivo, ne esamineremo l’attendibilità, anche in considerazione degli effetti dirompenti che potrebbe avere sulla effettività del diritto dell’Unione in generale.

7. L’affermazione per la quale il sistema europeo comune di asilo non è applicabile al di fuori del territorio dell’Unione è contraddetta da norme che ne impongono l’applicazione extraterritoriale in situazioni assimilabili a quella oggetto del nostro interesse, cioè quando organi di uno Stato membro esercitano all’estero la piena ed esclusiva giurisdizione in materia di controlli migratori. Viene in considerazione, anzitutto, la disciplina dei valichi di frontiera condivisi situati nel territorio di uno Stato terzo ed istituiti in base ad accordi bilaterali che autorizzano le guardie di frontiera dello Stato membro ad esercitare le proprie funzioni. In base all’Allegato VI, art. 1.1.4.3. lett.a) Codice frontiere Schengen, lo straniero che chieda protezione alle guardie di frontiera dello Stato membro «è autorizzato ad accedere alle pertinenti procedure degli Stati membri conformemente all’acquis unionale in materia di asilo», sebbene la domanda risulti presentata nel territorio di uno Stato terzo (per questo e per i successivi esempi, v. l’utile approfondimento di Sinha, p. 91 ss.).

Può citarsi ancora, sempre in materia di controlli migratori, il regolamento 2019/1240, sulla creazione di una rete di funzionari di collegamento incaricati dell’immigrazione, il quale prevede che tali funzionari, se impiegati in uno Stato terzo da uno Stato membro, dalla Commissione o da una agenzia europea, assolvono i loro compiti «conformemente alle disposizioni, incluse quelle relative alla protezione dei dati di carattere personale, stabilite nel diritto dell’Unione e nazionale e negli accordi o nelle intese eventualmente conclusi con paesi terzi o con organizzazioni internazionali» (art. 3 n. 1).

Come si vede, nei casi in cui, sulla base di accordi con Stati terzi, gli organi degli Stati membri competenti in materia migratoria sono autorizzati ad esercitare pienamente e incondizionatamente la loro potestà, il diritto dell’Unione vuole essere applicato, prescindendo dalla collocazione del controllo in territorio extraeuropeo. 

Per la sua specifica pertinenza all’applicazione territoriale del diritto dell’Unione in materia migratoria, è utile ricordare anche il parere del servizio giuridico del Parlamento europeo in base al quale i migranti imbarcati su navi militari di Stati membri, a seguito di operazioni di search and rescue in alto mare, sono da considerare già di per sé presenti nel territorio dello Stato membro di bandiera e sotto la protezione del diritto dell’Unione. A tale conclusione il parere perviene richiamando espressamente la decisione della Corte EDU nel caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia e, quindi, sulla base dell’esercizio del potere di controllo esclusivo e continuativo su individui da parte degli organi dello Stato di bandiera sulla nave militare che giustifica l’assimilazione di quest’ultima a una porzione di territorio (paragrafi 51-53). 

Anche quando l’applicazione extraterritoriale del diritto dell’Unione europea non risulta espressamente prevista da una norma, la Corte di giustizia l’ha ammessa interpretativamente fondandosi sull’esercizio di poteri di giurisdizione esclusiva di uno Stato in aree al di fuori del proprio territorio. Già nella causa C-214/94 la Corte afferma che «L’ambito di applicazione del Trattato viene definito dall’art. 227 (attuale 335 TFUE) del medesimo. Orbene, questo articolo non esclude che le norme comunitarie possano esplicare effetti al di fuori del territorio della Comunità» (par. 14). Nonostante l’affermazione riguardi una fattispecie internazionalprivatistica e possa essere intesa alla luce della peculiarità del diritto internazionale privato, ne sono state fatte applicazioni anche in altri ambiti. 

Può ricordarsi, ad esempio, la causa C-6/04 che ha deciso un ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione contro il Regno Unito per non aver esteso l’applicazione della direttiva habitat alla zona economica esclusiva. Il Regno Unito si difendeva sostenendo che l’art. 2 della direttiva citata pone come obiettivo la salvaguardia della biodiversità «nel territorio europeo degli Stati membri al quale si applica il Trattato» e che, di conseguenza, l’estensione alla zona economica esclusiva avrebbe costituito una inammissibile applicazione extraterritoriale. La Corte accolse il ricorso condividendo invece l’interpretazione della Commissione, avallata anche dall’Avvocato generale, per la quale gli Stati devono conformarsi al diritto comunitario anche nella zona economica esclusiva nella misura in cui vi esercitano poteri di controllo e jurisdiction (par. 115 ss.).

È utile ricordare anche la decisione nella causa C-347/10; in essa veniva in considerazione il regolamento n. 1408/71 la cui applicazione è espressamente limitata allo svolgimento di una attività di lavoro subordinata sul territorio di uno Stato membro (art. 13, paragrafo 2, lettera a). Si trattava di decidere se tale regolamento potesse essere applicato anche al di là del territorio di uno Stato membro, inteso in senso stretto, in particolare alle attività svolte su installazioni artificiali collocate sulla piattaforma continentale. La Corte ammise l’applicazione extraterritoriale argomentando dai poteri di giurisdizione esclusiva che vengono riconosciuti allo Stato costiero su installazioni artificiali oltre il mare territoriale, ai sensi degli articoli 60 n. 2 e 80 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (ulteriori casi in Sinha, p. 103 ss.). È di particolare interesse, ai nostri fini, considerare che il citato art. 60 n. 2 riconosce sulle installazioni artificiali in alto mare una giurisdizione esclusiva «in materia di leggi e regolamenti doganali, fiscali, sanitari, di sicurezza e di immigrazione». Pertanto, se il nostro governo, anziché stipulare l’accordo con l’Albania, avesse costruito un’isola artificiale su cui trasferire i migranti, sarebbe certa, alla luce della decisione ora indicata, l’applicabilità della direttiva procedure, sebbene anche in tal caso la domanda di protezione non possa considerarsi presentata nel territorio nazionale, inteso in senso restrittivo e formale.

In conclusione, da quanto sin qui esposto risulta che, anche a voler ritenere che l’estensione alle Aree del diritto dell’Unione realizzi una applicazione extraterritoriale, si tratterebbe di un caso di applicazione extraterritoriale ammissibile in quanto in tali Aree l’Albania ha limitato la propria sovranità, escludendo la presenza di propri organi e l’applicazione delle proprie leggi, mentre l’Italia si vede riconosciuta una giurisdizione esclusiva esercitata dai propri organi e sulla base delle proprie leggi. 

L’interpretazione logico-sistematica è rafforzata dall’esigenza di salvaguardare l’effettività del diritto dell’Unione. Difatti, pur manifestando rispetto verso la Commissione e le sue preliminari conclusioni, non possiamo fare a meno di rilevare che la libertà riconosciuta agli Stati membri di sottrarsi unilateralmente all’osservanza degli obblighi dell’Unione nelle circostanze in esame ci richiama alla mente l’impossibile prodezza del barone di Münchhausen che riuscì ad emergere da una palude in cui era caduto sollevandosi dal suo codino. Non vi è da pensare, infatti, come sembra ritenere la Commissione, che gli obblighi dell’Unione sarebbero salvaguardati dall’applicazione della normativa italiana ad essi conforme. Abbiamo già dimostrato, nei precedenti paragrafi, che il sistema creato è già di per sé in radicale e strutturale contrasto con atti del sistema europeo comune di asilo. La posizione della Commissione consentirebbe quindi all’Italia l’impossibile impresa di sottrarsi a piacimento all’osservanza dei propri obblighi. Se si pensa che, controllando le proprie frontiere esterne, l’Italia controlla anche le frontiere europee e che i soggetti a cui venisse attribuita la protezione nelle Aree verrebbero trasferiti in Italia e circolerebbero nel territorio dell’Unione, si delinea un pregiudizio non trascurabile all’armonizzazione delle procedure nel sistema europeo comune di asilo. 

Ma c’è di più. Per comprendere la pericolosità del precedente che si viene a creare, immaginiamo che, una volta ottenuto il fiat dell’Unione per la realizzazione delle Aree a fini di controllo migratorio, l’Italia pensi di estendervi anche la propria giurisdizione in materia di controlli doganali; potrebbe davvero ritenersi, in tal caso, che, ad esempio, il regolamento 608/2013 ‒ di applicazione territoriale perché limitato alle merci in entrata o in uscita dal territorio doganale dell’Unione (art. 1.1 lett. b) ‒ non sarebbe applicabile alle merci scaricate nel porto di Shengjin e che, di conseguenza, la garanzia del rispetto dei diritti di proprietà intellettuale per tali merci sarebbe rimessa esclusivamente alla normativa italiana?

 I pericoli da noi delineati dovevano essere ben presenti alla Commissione quando, come già visto, adottando una interpretazione diversa da quella attualmente sostenuta, nella causa C-6/04, propose ricorso per inadempimento contro il Regno Unito a tutela di habitat naturali e specie minacciate. Poiché non possiamo pensare che le sorti dei cetacei (sicuramente meritori di tutela) stiano a cuore alla Commissione più dei migranti, ci auguriamo che, res melius perpensa, essa pervenga a conclusioni differenti rispetto a quelle forse troppo precocemente manifestate.

In ogni caso, anche se non verrà presentato dalla Commissione un ricorso per inadempimento contro l’Italia, c’è sempre la possibilità che sia la magistratura a sollevare – com’è auspicabile ‒ la questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia per chiarire, una volta per tutte, la portata dell’applicazione territoriale delle direttive in materia migratoria e i limiti entro i quali può invocarsene una applicazione extraterritoriale.

La nostra indagine si è limitata ad una valutazione complessiva, in astratto e di struttura del nuovo congegno di controllo migratorio, prescindendo dall’esame delle concrete, specifiche e molteplici problematiche applicative che richiedono una trattazione a parte, ma che ci auguriamo non si debba neppure arrivare ad esaminare, data l’insostenibilità delle premesse. Quello che è stato annunciato come un accordo di portata storica e un modello per l’Europa, infatti, non è una costruzione razionale che definisce ed inquadra i problemi con rigorosa e geometrica precisione, alla maniera di un’opera di Mondrian. Esso ci appare, piuttosto, come una di quelle costruzioni impossibili di Escher, apparentemente di perfetta complessità, ma che poi si scopre essere il frutto di illusioni ed inganni di prospettiva, con scale che non portano da nessuna parte e pavimenti che non potrebbero mai reggere qualcuno. L’auspicio è che non si dia avvio al meccanismo esaminato per evitare che esso si trasformi in una novella rappresentazione della Zattera della Medusa di Géricault, cioè in un totale naufragio, con considerevole spreco di pubblico danaro, affollamento di tribunali nazionali, internazionali e sovranazionali e spregio della vita di povere persone. 

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Gabriella Carella

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