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La Corte penale internazionale e i recenti avvenimenti in Israele e nel Territorio Palestinese: quali prospettive per l’accertamento di responsabilità penali internazionali?

Luca Poltronieri Rossetti (Scuola Superiore Sant’Anna)

1. Introduzione

I violenti attacchi lanciati da Hamas il 7 ottobre 2023 contro Israele e la pesante risposta armata dello Stato ebraico dei giorni seguenti, tutt’ora in corso, sono uno degli episodi più gravi e sanguinosi nella pluridecennale storia del conflitto israelo-palestinese. Gli eventi di queste settimane, che stanno facendo registrare uno spaventoso numero di vittime, sono ancora in piena evoluzione, con l’inizio di incursioni di terra e di una più vasta invasione da parte delle forze armate israeliane nella Striscia che ha portato all’accerchiamento di Gaza City, e il rischio di un ulteriore allargamento del conflitto ai Paesi vicini.Questi drammatici eventi, che non possono essere letti in maniera isolata rispetto al quadro storico, (geo)politico, militare e giuridico venutosi a consolidare nelle fasi precedenti del più ampio conflitto israelo-palestinese, hanno suscitato, oltre allo sgomento dell’opinione pubblica internazionale, numerosi commenti tra gli esperti di diritto internazionale, tanto con riferimento ai profili di jus ad bellum (in particolare per quanto riguarda il fondamento giuridico della risposta armata di Israele agli attacchi di Hamas, v. Longobardo 2023; Schmitt 2023a, Haque), quanto a quelli di jus in bello,più immediatamente rilevanti per valutare la condotta dei belligeranti e le conseguenze del conflitto sui civili (tra gli altri, v. Goodman et al.; Sassoli; Dannenbaum; Dill).

Questo contributo mira a fornire un inquadramento dei profili di diritto internazionale penale, con particolare riferimento al ruolo della Corte penale internazionale (CPI) e dei suoi organi principali nel far luce su eventuali responsabilità individuali per crimini internazionali nel quadro del conflitto in atto. In considerazione del protrarsi degli eventi e delle difficoltà nel ricostruire in modo sufficientemente preciso molti degli avvenimenti (si pensi all’episodio della distruzione dell’ospedale di al-Ahli a Gaza, sul quale sono state avanzate ricostruzioni confliggenti; oppure agli effetti dei temporanei blackout dei servizi telefonici ed internet di Gaza durante le incursioni israeliane), va preliminarmente chiarito che l’analisi che segue procede per ipotesi di ricostruzione e qualificazione giuridica la cui plausibilità è evidentemente subordinata al puntuale accertamento dei fatti da parte di istanze indipendenti quali la Corte penale internazionale o altri organi dotati di funzioni di fact-finding.

2. Il coinvolgimento della CPI rispetto al conflitto israelo-palestinese e la giurisdizione della Corte

Prima di esaminare il possibile coinvolgimento della CPI rispetto agli eventi attualmente in corso è opportuno ricostruire brevemente lo sviluppo storico del rapporto tra le autorità palestinesi e la Corte. Dopo l’operazione militare israeliana su Gaza denominata «Piombo Fuso», svoltasi tra il 2008 e il 2009 con drammatiche conseguenze, le autorità palestinesi hanno tentato di portare all’attenzione della Corte le possibili responsabilità penali per condotte potenzialmente integranti crimini internazionali. Ciò è stato fatto attraverso una dichiarazione con la quale le autorità palestinesi manifestavano l’intenzione di accettare la giurisdizione della Corte, in base al meccanismo di cui all’articolo 12(3) dello Statuto di Roma. Tale meccanismo consente a uno Stato non parte al trattato di accettare su basi ad hoc, assumendo al contempo gli obblighi di cooperazione di cui al Capo 9 dello Statuto, la competenza della Corte, tramite una apposita dichiarazione indirizzata alla Cancelleria. Il Procuratore della CPI, all’esito di un esame della dichiarazione di accettazione e del quadro giuridico applicabile durato oltre tre anni, era giunto alla conclusione che l’incertezza sulla statualità e l’esatta consistenza territoriale della Palestina precludeva al suo ufficio di procedere oltre nell’esame della situazione. La decisione del Procuratore è stata giustamente criticata in dottrina come giuridicamente poco fondata e “pilatesca” nella sostanza (in questo senso v. El Zeidi; Dugard; Akande; contra, a sostegno della bontà dell’approccio del Procuratore, Zimmermann, pp. 305-306). Il Procuratore aveva letteralmente rimpallato la soluzione delle questioni più controverse e politicamente sensibili agli Stati e agli organi principali delle Nazioni Unite, rinunciando a una valutazione giuridica autonoma e producendo una decisione di fatto corrispondente a un diniego discrezionale dell’azione. In seguito, dopo aver tentato invano la strada dell’ammissione all’ONU in qualità di Stato membro, le autorità palestinesi hanno richiesto la promozione della Palestina allo status di «Stato Osservatore non membro» in Assemblea generale. Tale sviluppo si è concretizzato con la risoluzione 67/19 del 29 novembre 2012, adottata ad ampia maggioranza dall’Assemblea. Questa risoluzione, oggetto di ampio dibattito in dottrina (v. Imseis; Cerone; Vidmar 2012a), per quanto difficilmente possa dirsi costitutiva di una statualità palestinese (sul punto v. Vidmar 2012b, 2013), ha senz’altro accresciuto la capacità della Palestina di entrare nel commercio giuridico internazionale, facilitando la ratifica di un gran numero di trattati internazionali caratterizzati dalla c.d. «formula Vienna» (ossia quei trattati aperti all’adesione di «all states»), nei più svariati campi del diritto internazionale, tra cui i diritti umani e il diritto internazionale umanitario. Tra questi trattati si annovera anche lo Statuto della Corte penale internazionale, il cui strumento di adesione è stato depositato dai vertici dell’Autorità nazionale palestinese presso il Segretario generale dell’ONU e da questi accettato nella sua qualità di depositario del trattato, con la conseguente entrata in vigore per la Palestina il 1° aprile 2015. Questo processo era stato accelerato dai drammatici eventi dell’estate del 2014, con la massiccia campagna delle IDF su Gaza denominata «Margine di Protezione», seguita ad alcuni atti terroristici e lanci di razzi contro Israele. Le autorità palestinesi avevano accompagnato l’adesione allo Statuto con una nuova dichiarazione di accettazione della giurisdizione della Corte (accettata dalla Cancelleria), al fine di estendere retroattivamente la competenza della Corte anche agli eventi precedenti all’entrata in vigore dello Statuto per la Palestina, così da abbracciare eventuali crimini internazionali commessi durante il conflitto del 2014.

Di lì a poco l’Ufficio del Procuratore aveva annunciato, in linea con la sua prassi consolidata, l’apertura di un esame preliminare della situazione relativa alla Palestina. Tale esame preliminare è proseguito per diversi anni, come attestano gli aggiornamenti periodici pubblicati dall’Ufficio, senza però sfociare in una richiesta di indagine formale (per un riassunto delle attività svolte, si veda il Report on preliminary examination activities 2020, pp. 55-58). Di fronte all’apparente stallo della procedura motu proprio, la Palestina ha deciso di riferire formalmente la situazione al Procuratore nel maggio del 2018. L’Ufficio ha annunciato la fine dell’esame preliminare nel dicembre del 2019, ritenendo integrati gli estremi per aprire l’indagine. Contemporaneamente, il Procuratore ha ritenuto opportuno, prima di procedere con l’indagine, chiedere alla Camera preliminare un chiarimento preventivo sulla sussistenza e l’ampiezza della giurisdizione della Corte nella situazione della Palestina, attraverso una richiesta ex articolo 19(3) dello Statuto. Essenzialmente, l’Ufficio ha domandato ai giudici di pronunciarsi in via preliminare su due questioni fondamentali, ossia: a) Se la Palestina debba ritenersi uno Stato ai limitati fini dell’adesione allo Statuto e di conseguenza se la Corte sia abilitata al pieno esercizio della propria giurisdizione al suo riguardo, e se la Palestina sia abilitata ad esercitare i poteri conferiti dallo Statuto ad uno Stato; b) In caso di risposta positiva al primo quesito, quale sia l’esatto ambito territoriale sul quale la Corte può esercitare la sua giurisdizione per i crimini previsti dallo Statuto o, detto altrimenti, quale è il territorio dello Stato di Palestina ai limitati fini dell’applicazione dello Statuto di Roma.

La Corte, all’esito di una procedura che ha visto l’intervento in qualità di amici curiae di numerosi Stati (su cui v. Williams e Woolaver), organizzazioni ed esperti (tra cui illustri internazionalisti come Schabas, Shaw, Falk e Benvenisti), ha adottato a maggioranza la sua decisione il 5 febbraio 2021 (si vedano anche l’opinione dissenziente del giudice Kovács e l’opinione separata del giudice Perrin de Brichambaut). I giudici preliminari hanno confermato che il processo di adesione della Palestina allo Statuto si era svolto regolarmente, secondo le forme previste dal trattato e nel rispetto della prassi del depositario. Pertanto, pur rimanendo impregiudicata (in quanto esorbitante rispetto alla competenza della Corte) la questione della statualità della Palestina per il diritto internazionale in senso lato, la Palestina deve ritenersi uno Stato ai limitati fini dell’adesione allo Statuto e delle conseguenze giuridiche che ne discendono (par. 100-113 della decisione). Per quanto riguarda l’estensione territoriale della Palestina ai fini della giurisdizione della Corte, la maggioranza ha sostanzialmente richiamato gli atti delle Nazioni Unite e la pressoché unanime prassi internazionale che fanno riferimento ai confini pre-1967, dichiarando che la Corte ha competenza a conoscere dei presunti crimini internazionali – da chiunque commessi – sul Territorio Palestinese occupato da Israele dal 1967, ossia Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est (par. 114-123 della decisione).

La decisione è stata oggetto di ampia discussione in dottrina (v. Pertile 2021; Riccardi; Ambos 2021) e ad essa sono seguite numerose reazioni statali e di organizzazioni internazionali governative e non, sia favorevoli sia critiche. In particolare, com’era prevedibile, la decisione è stata fortemente criticata non soltanto da Israele ma anche dagli USA (si veda la posizione ufficiale della Casa Bianca, successivamente confermata), che avevano nel frattempo instaurato un regime sanzionatorio nei confronti della Corte e dei suoi più alti funzionari (su cui v. Poltronieri Rossetti). Tali atteggiamenti ostili si sono fatti ancora più intensi dopo che il Procuratore ha formalmente annunciato l’apertura dell’indagine. Va, peraltro, ricordato che anche alcuni importanti Paesi occidentali, come la Germania, che nulla avevano obiettato al momento dell’adesione della Palestina allo Statuto, hanno pubblicamente contestato la decisione della Corte (sulla posizione tedesca, si vedano le dichiarazioni dell’allora Ministro degli esteri Heiko Maas e il commento di Talmon). Il Canada, in linea con il suo voto contrario alla risoluzione dell’Assemblea generale del 2012 sull’upgrade della Palestina, aveva in precedenza addirittura formalmente obiettato alla validità dell’accessione della Palestina allo Statuto, mantenendo questa posizione durante la procedura ex articolo 19(3) e dopo l’adozione della decisione della CPI sulla giurisdizione.

In sintesi, il Procuratore può indagare su ogni condotta – da chiunque posta in essere – che possa costituire un crimine secondo lo Statuto di Roma, a partire dal 13 giugno 2014 (data indicata nel referral palestinese) e senza limiti di tempo, posta in essere sul Territorio Palestinese occupato secondo le linee del 1967, corrispondente a Gaza, alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est. La giurisprudenza della Corte ha precisato che affinché una condotta possa considerarsi compiuta sul territorio dello Stato Parte è sufficiente che almeno un elemento costitutivo della condotta tipica abbia avuto luogo in tale Stato, per poi eventualmente proseguire, perfezionarsi o produrre i suoi effetti sul territorio di un altro Stato, che potrebbe essere anche uno Stato terzo, come lo Stato d’Israele (v. la decisione preliminare sulla giurisdizione nella situazione Bangladesh/Myanmar relativa ai crimini “transfrontalieri” a danno dei Rohingya, par. 72). Per quanto concerne le condotte di cittadini palestinesi sul territorio di Israele, la Corte è comunque abilitata ad esercitare la sua giurisdizione anche sulla base del principio di personalità attiva, secondo quanto disposto dall’art. 12(2)(b) dello Statuto.

Nonostante la situazione riguardante la Palestina sia all’attenzione del Procuratore ormai da diversi anni, non sembrano fino ad ora essere state destinate all’esame preliminare e all’indagine adeguate risorse ed energie. Per fare un esempio, solo in tempi molto recenti e sotto l’impulso del terzo procuratore della Corte – il britannico Karim Khan – è stata assegnata l’analisi della situazione palestinese a un team d’indagine dedicato, come accaduto per altre situazioni (così il procuratore nell’intervista rilasciata alla Reuters il 13 ottobre 2023). Questa situazione non sembrava, almeno fino ai recenti avvenimenti, destinata a cambiare rapidamente. Ciò anche in connessione alla riorganizzazione funzionale che l’Ufficio sta compiendo per impiegare efficacemente le risorse alla luce dell’attuale carico di lavoro e dei criteri di priorità d’azione (si vedano sul punto la Policy on Situation Completion e lo Strategic Plan 2023-2025).

I recenti drammatici avvenimenti potrebbero imprimere un’accelerazione alle indagini nella situazione della Palestina, analogamente a quanto accaduto nella situazione relativa all’Ucraina dopo l’aggressione russa, che ha portato in breve tempo all’apertura dell’indagine a seguito del referral di una quarantina di Stati Parte e all’emanazione di un mandato di arresto all’indirizzo del Presidente russo Vladimir Putin e di Maria Alekseyevna Lvova-Belova (su cui v. Della Morte). In questo senso, alcuni giorni dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre e l’inizio della risposta armata israeliana, il Procuratore ha rilasciato alcune dichiarazioni ufficiali in cui confermava che i nuovi avvenimenti rientrano pacificamente nella competenza della Corte nell’ambito della situazione già sotto indagine per i fatti precedenti. Al momento, tuttavia, non risulta essere stata ancora esercitata l’azione penale nei confronti di uno o più specifici individui, con riferimento tanto alle condotte pregresse, quanto a quelle in corso.

3. Le condotte rilevanti per la giurisdizione della CPI nel quadro dei più recenti episodi bellici

Chiarito il quadro in cui è maturato il coinvolgimento della CPI rispetto ad alcuni episodi potenzialmente criminali avvenuti in anni recenti nel contesto del conflitto israelo-palestinese, è opportuno esaminare, con le cautele rese necessarie dalla natura ancora parziale e frammentaria di molte delle informazioni disponibili, quali crimini di competenza della Corte potrebbero essere stati integrati o siano in corso di realizzazione, da ambo le parti, a partire dal 7 ottobre 2023, e quindi formare oggetto di indagine e di esercizio dell’azione penale da parte del Procuratore.

Questa rassegna è condotta sul presupposto dell’esistenza di un conflitto armato, da qualificarsi come avente natura internazionale, in atto tra Hamas e lo Stato di Israele, con le conseguenze che ciò comporta sul piano del regime giuridico applicabile ed in particolare sulla disciplina dei crimini di guerra, che presenta differenze a seconda della qualificazione di un conflitto armato come avente natura internazionale o non internazionale. Questa posizione non solo è fatta propria dagli organi principali delle Nazioni Unite che si sono occupati della questione israelo-palestinese, ma è sostenuta dalla maggioranza della dottrina (v., tra gli altri, Cassese, p. 420; Akande, pp. 46-47; Longobardo 2018) e persino dalla giurisprudenza israeliana (Corte Suprema di Israele, Targeted Killings Case, par. 18). Come è noto, non mancano, soprattutto nell’accademia internazionalistica nordamericana e israeliana, posizioni diametralmente opposte (per un riassunto di queste tesi e una loro applicazione all’attuale fase di escalation del conflitto v. Schmitt 2023a). Non è questa, tuttavia, la sede per affrontare la genesi di questi disaccordi interpretativi profondi nel dibattito internazionalistico (su questo concetto nella teoria generale del diritto, v. Villa).

Cominciando con l’esame delle condotte riconducibili a miliziani di Hamas (e probabilmente anche di altre fazioni militari presenti a Gaza), vengono anzitutto in considerazione alcune infrazioni gravi delle Convenzioni di Ginevra che danno luogo a responsabilità penale individuale e sono riprese e tipizzate come crimini di guerra nello Statuto di Roma. Si tratta in primo luogo delle condotte di omicidio intenzionale (art. 8(2)(a)(i) Statuto di Roma) e della presa di ostaggi (art. 8(2)(a)(viii) Statuto di Roma). Secondo quanto ricostruito, nell’azione che ha dato il via agli attacchi del 7 ottobre, attraverso lo sconfinamento di miliziani di Hamas in territorio israeliano, è stato ucciso o gravemente ferito un elevato numero di persone, le quali devono ritenersi salvo prova contraria civili protetti dalle pertinenti norme di diritto dei conflitti armati. Inoltre, oltre 220 persone – almeno la metà delle quali di cittadinanza diversa da quella israeliana – sono state prelevate e condotte con la forza in luoghi sotto il controllo di Hamas con l’intento dichiarato di trattenerle come ostaggi (si vedano gli Elements of Crimes per la struttura della fattispecie, ed in particolare l’elemento soggettivo consistente nell’intenzione in capo all’autore del crimine di «compel a State, an international organization, a natural or legal person or a group of persons to act or refrain from acting as an explicit or implicit condition for the safety or the release of such person or persons»). Per quanto concerne le persone che hanno riportato gravi ferite o traumi ma non sono state private della vita o della libertà personale, è possibile ipotizzare la commissione del diverso crimine di guerra consistente nel «causare volontariamente gravi sofferenze, o serio pregiudizio all’integrità fisica o alla salute» (art. 8(2)(a)(iii) dello Statuto). Né si può escludere che soprattutto gli ostaggi siano stati o possano essere vittime del crimine di guerra di tortura o trattamenti inumani (art. 8(2)(a)(ii) dello Statuto); privazione intenzionale del diritto ad un giusto e regolare processo (art. 8(2)(a)(vi) dello Statuto); oltraggi alla dignità personale (art. 8(2)(b)(xxi) dello Statuto); e stupro o altre gravi forme di violenza sessuale (art. 8(2)(b)(xxii) dello Statuto). Per quanto concerne invece le modalità di conduzione degli attacchi armati contro il territorio israeliano, realizzati con il lancio di ordigni che per le loro caratteristiche tecniche risultano poco idonei a distinguere tra obiettivi militari e civili, si può ipotizzare la commissione di diversi crimini di guerra sanciti dallo Statuto. Si tratta, in particolare, delle seguenti fattispecie: lanciare deliberatamente attacchi contro la popolazione civile in quanto tale o contro civili che non prendono direttamente parte alle ostilità (art. 8(2)(b)(i) dello Statuto); lanciare deliberatamente attacchi contro beni civili (art. 8(2)(b)(ii) dello Statuto); lanciare attacchi con la consapevolezza che questi causeranno una perdita di vite o danni ai civili o ai beni civili che siano manifestamente sproporzionati rispetto al concreto e diretto vantaggio militare complessivo atteso (art. 8(2)(b)(iv) dello Statuto). Per completare il quadro sui crimini di guerra, un’altra fattispecie che potrebbe venire in considerazione, anche e soprattutto in relazione al comportamento delle forze di Hamas rispetto alla conduzione di attacchi armati da parte di Israele sulla Striscia di Gaza, concerne il possibile uso di c.d. scudi umani, che è espressamente criminalizzato all’art. 8(2)(b)(xxiii) dello Statuto (sulla configurabilità di questo crimine, espressamente previsto dallo Statuto solo per i conflitti armati di natura internazionale, in precedenti episodi di escalation militare nel conflitto israelo-palestinese si veda Pertile 2009).

Per quanto concerne, invece, fattispecie non espressamente previste dallo Statuto ma comunque proibite dal diritto internazionale, è appena il caso di ricordare che nessuna menzione viene fatta nel testo del trattato al terrorismo, categoria cui si è fatto sovente – e non sempre a proposito – ampio riferimento nel discorso pubblico di queste settimane. L’inclusione del terrorismo nello Statuto era stata espressamente respinta dagli Stati durante la Conferenza di Roma, sia come autonomo crimine internazionale in aggiunta agli altri quattro core crimes, sia come specifica ipotesi criminosa all’interno delle macro-categorie esistenti (v. sul punto Goldstone e Simpson, pp. 13-14, nonché la proposta, respinta, di alcuni Paesi in seno alla Conferenza di Roma per l’introduzione di un autonomo crimine di terrorismo). Occorre, tuttavia, ricordare che la giurisprudenza internazionale ha affermato l’esistenza di un autonomo crimine di guerra consistente nell’uso del terrore con base nel diritto consuetudinario (v. Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, caso Galić, sentenza di appello, par. 86-90, poi confermata in successive decisioni). Sebbene lo Statuto abbia inteso vincolare i giudici della Corte all’applicazione, in primo luogo, del diritto scritto adottato a Roma (ossia lo Statuto, gli Elementi dei crimini e il Regolamento di procedura e prova, v. art. 21(1)(a)), è permessa l’applicazione, «in the second place», di altri strumenti pattizi e del diritto consuetudinario, inclusi gli «established principles of the international law of armed conflict». Tuttavia, l’uso della sola consuetudine in funzione incriminatrice praeter statutum è una questione estremamente controversa e dibattuta, anche in ragione delle tensioni con il principio di legalità penale (sul punto v. van den Herik; Cryer, pp. 393-398; d’Aspremont, pp. 414-421). In ogni caso, secondo la lettura del Procuratore (v., ad esempio, le dichiarazioni relative ai crimini di Boko Haram nella situazione in Nigeria) e della dottrina (v. ad esempio Cohen, pp. 242-249), sarebbe comunque possibile perseguire alla CPI alcune azioni tradizionalmente qualificabili come di carattere terroristico riconducendole ad alcune fattispecie tipiche nell’ambito dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità. In quest’ultimo caso, naturalmente, sarebbe necessario accertare la sussistenza degli elementi di contesto previsti dall’articolo 7(1) dello Statuto, ed in particolare l’esistenza di un «widespread or systematic attack directed against any civilian population», nonché di una «state or organizational policy» rivolta alla realizzazione di tale attacco. Peraltro, molte delle condotte già esaminate sotto l’angolo visuale dei crimini di guerra potrebbero integrare, ricorrendone gli elementi costitutivi, anche i crimini contro l’umanità di cui all’art. 7(1)(a) (omicidio); (b) (sterminio); (e) (prigionia e altre gravi privazioni della liberta personale); (f) (tortura); (g) (stupro e altre forme di violenza sessuale); (k) (altri atti inumani).

Venendo ora alla massiccia risposta militare messa in campo dallo Stato di Israele come reazione agli attacchi subiti (e a prescindere dalla distinta questione della sua base giuridica), si possono individuare i presupposti per la possibile applicazione di diverse fattispecie statutarie. Cominciando dall’ambito dei crimini di guerra, vengono anzitutto in considerazione le condotte di attacco – in particolare le massicce campagne di bombardamento su Gaza – in possibile violazione dei principi di distinzione, necessità, proporzionalità e precauzione, capaci di attrarre la responsabilità penale individuale. In questo senso, va ricordato (e il discorso vale anche per le azioni di Hamas), che lo Statuto non contiene una fattispecie unitaria di attacchi indiscriminati, bensì una serie di fattispecie specifiche di attacchi vietati non sempre corrispondenti, per ambito di applicazione ed elementi costitutivi, alle sottostanti norme primarie del diritto internazionale umanitario (sul punto v. Ronzitti, pp. 221-226). In relazione agli episodi documentati dalle fonti di informazione e da organismi internazionali, sembrerebbero essere rilevanti le fattispecie di cui all’art. 8(2)(b)(i) e (ii) di attacchi intenzionali contro i civili e beni civili, già sopra ricordate; (iii), in relazione ad attacchi contro personale, installazioni, materiale, unità o veicoli coinvolti nell’assistenza umanitaria; (iv), in relazione ad attacchi che causano effetti collaterali manifestamente sproporzionati su persone e beni civili rispetto al diretto e concreto vantaggio militare complessivo previsto;  (ix) in relazione ad attacchi a luoghi dedicati al culto, l’educazione, le arti e la scienza, nonché a fini caritatevoli, a monumenti storici, ospedali e luoghi dove sono raccolti i feriti e i malati, che non costituiscano obiettivi militari. Circa la base fattuale di queste ipotesi si può fare riferimento a quanto riportato da organismi internazionali, ad esempio, attraverso i report di UNRWA (che ha riportato oltre 90 vittime tra il suo personale e la distruzione o il danneggiamento di molte strutture operate dall’agenzia); agli aggiornamenti dell’OCHA sulle questioni umanitarie dall’inizio del conflitto; oltre ad autorevoli fonti di informazione che hanno documentato il targeting di luoghi culto temporaneamente adibiti a rifugio con gravi danni e numerose vittime e di altri luoghi, strutture e beni dotati di una essenziale funzione umanitaria o di soccorso, come il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, il campo profughi di Jabalia (su questo episodio v. Manea; Schack)  e un’ambulanza nei pressi dell’ospedale di Al Shifa. Non si può dimenticare, inoltre, il pesante bilancio di vittime e feriti tra i giornalisti e i lavoratori nel settore dell’informazione presenti a Gaza (a questo proposito Reporter Sans Frontières ha inoltrato una comunicazione al Procuratore della CPI denunciando la commissione di possibili crimini di guerra contro giornalisti).

Va ricordato che queste fattispecie penali di attacchi proibiti richiedono per essere integrate un requisito soggettivo piuttosto esigente, ossia l’intenzionalità e la consapevolezza delle circostanze e delle conseguenze dell’attacco in capo all’autore in linea con l’art. 30 dello Statuto in tema di mens rea. Sarebbe quindi da escludere la loro configurabilità in presenza del mero dolo eventuale o della recklessness (v. Werle e Jeßberger, p. 548; Ambos 2013, pp. 115, 177-178). In ogni caso, come ha chiarito la stessa CPI in relazione ad alcune delle fattispecie in esame (in particolare gli artt. 8(2)(a)(i) e (ii) dello Statuto) il crimine di guerra di attacco indiscriminato si deve ritenere integrato anche se l’intento del soggetto che ha portato l’attacco non sia stato in via esclusiva quello di colpire i civili, bensì abbia avuto carattere «obliquo» o «indiretto», ossia corrisponda alla volontà di: a) colpire un obiettivo militare; e anche b) colpire la popolazione civile che non partecipa attivamente alle ostilità e risiede nelle vicinanze. Secondo questa giurisprudenza, inoltre, l’intenzionalità può essere inferita da fattori quali, tra l’altro, i metodi e mezzi impiegati durante l’attacco, il numero e lo status delle vittime, la natura discriminatoria dell’attacco (v. Corte penale internazionale, caso Katanga, decisione di conferma dei capi d’imputazione, par.  273-274 e, nello stesso caso, sentenza di primo grado, par. 807). È il caso di aggiungere che secondo una condivisibile dottrina la mens rea per il crimine di attacco indiscriminato intenzionale contro civili e beni civili si può comunque ritenere soddisfatta quando, alla luce di un esame concreto delle circostanze dell’attacco, il civilian harm previsto (con probabilità prossima o pari a certezza) al momento dell’attacco sia così ingente e preponderante da far ritenere che il fine dell’attacco non fosse, in realtà, colpire un obiettivo di carattere militare, bensì colpire la stessa popolazione civile (v. in questo senso la persuasiva ricostruzione di Daniele e Mariniello; Dörmann, p. 405). In situazioni del genere sembra del tutto improprio confondere, nella scansione logica e cronologica per valutare la legalità di un attacco secondo il diritto internazionale umanitario, i profili di distinzione e proporzionalità, suggerendo che un attacco, pur sostanzialmente indiscriminato, possa essere considerato lecito in quanto potenzialmente proporzionato (per una lucida e condivisibile critica di questo argomento v. Daniele).

Con riferimento invece all’imposizione da parte di Israele di un assedio pressoché totale nei confronti della Striscia di Gaza, comprensivo per espressa direttiva dei vertici governativi israeliani della sospensione della fornitura di acqua, cibo, elettricità, carburante e del blocco dell’afflusso di aiuti umanitari (v. le dichiarazioni del Ministro della Difesa israeliano Gallant) – considerato che, a parte il valico di Rafah con l’Egitto, i confini di Gaza sono sostanzialmente sigillati e controllati dalle forze israeliane – si potrebbero configurare diverse ipotesi criminose previste dallo Statuto. Anzitutto, l’«ordine» rivolto alla popolazione residente nel nord della Striscia di evacuare verso sud per sottrarsi alle conseguenze di bombardamenti e di una invasione di terra, senza tenere in alcun conto fattori concreti quali le basilari necessità materiali (cibo, acqua, cure mediche, ecc.), l’altissima densità abitativa di Gaza e la pressoché totale assenza di luoghi completamente sicuri ove spostarsi, potrebbe essere considerato un indice della commissione del crimine di guerra consistente nel trasferimento forzoso, diretto o indiretto, da parte della potenza occupante, di parte della popolazione del territorio occupato da una zona ad un’altra del medesimo, di cui all’art. 8(2)(b)(viii) dello Statuto (sul punto v. Khan; oltre all’inusuale forte presa di posizione pubblica dell’ICRC che ha ritenuto queste istruzioni «incompatible with international humanitarian law»; contra, v. Schmitt 2023b e Lauterbach, con argomentazioni non convincenti poiché fondate su una ricostruzione astratta e formalistica delle istruzioni dell’IDF, che non tiene adeguatamente conto della situazione concreta dei civili nella Striscia). Inoltre, la privazione di beni essenziali alla sopravvivenza dei civili, incluso impedendo o limitando intenzionalmente il pieno e libero accesso all’arrivo di aiuti umanitari, potrebbe integrare il crimine di guerra che consiste nel provocare la morte per fame dei civili (starvation) di cui all’articolo 8(2)(b)(xxv) dello Statuto (v. l’ampia analisi di Dannenbaum). Queste ed altre analoghe condotte potrebbero, per altro verso e verificata la sussistenza del relativo elemento di contesto, essere valutate anche dall’angolo visuale dei crimini contro l’umanità di cui all’art. 7(1)(a) (omicidio), (b) (sterminio), (d) (deportazione e trasferimento forzoso di popolazione), (f) (tortura), (h) (persecuzione), (k) (altri atti inumani).

Secondo alcuni commentatori la drammatica situazione umanitaria di Gaza, che si accompagna a una preoccupante retorica di de-umanizzazione ormai diffusa nel discorso politico e mediatico israeliano (si veda questa raccolta di dichiarazioni, alcune delle quali sembrano idonee ad integrare la fattispecie di incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio di cui all’art. III(c) della Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e repressione del genocidio, ripreso dall’art. 25(3)(e) dello Statuto di Roma), configurerebbero il rischio di verificazione di un genocidio (si vedano Segal; l’appello di un folto gruppo di studiosi; la dichiarazione congiunta di alcuni Relatori Speciali in materia di diritti umani delle Nazioni unite). Questa ipotesi, anche per quanto riguarda la determinazione della strategia investigativa e accusatoria del Procuratore della CPI, dovrebbe comunque essere avanzata con cautela, soprattutto in considerazione della necessità di individuare e provare in giudizio l’oneroso requisito soggettivo richiesto dall’art. 6 dello Statuto di Roma, ossia l’intento specifico di distruggere in tutto o in parte il gruppo protetto. Ciò premesso, alcune delle condotte già menzionate possono sul piano materiale essere sussunte sotto gli atti rilevanti per la fattispecie considerata, in particolare quelli di cui all’art. 6 lettera (a) («uccidere membri del gruppo»); (b) («causare acute sofferenze fisiche o pregiudizio psichico ai membri del gruppo»); (c) («infliggere intenzionalmente condizioni di vita calcolate per provocare la distruzione fisica di tutto o parte del gruppo»). Una controversia sulla possibile violazione delle norme erga omnes partes della Convenzione sulla prevenzione e repressione del genocidio del 1948 potrebbe essere instaurata – sul diverso piano della responsabilità statale – davanti alla Corte internazionale di giustizia (CIG), sulla scia delle recenti cause instaurate sulla base dell’art. IX della Convenzione da parte del Gambia contro il Myanmar rispetto alla situazione dei Rohingya, e dall’Ucraina nei confronti della Federazione Russa (su questa possibilità, v. Darcy 2023). Sia Israele sia la Palestina sono parte alla Convenzione e non hanno formulato riserve o dichiarazioni rispetto all’art. IX, che attribuisce la competenza contenziosa alla CIG. La Palestina, pur non essendo uno Stato Parte allo Statuto della Corte, potrebbe accettarne la competenza mediante una dichiarazione ex art. 35(2) dello Statuto, come già fatto nel 2018 in materia di relazioni diplomatiche al fine di instaurare una controversia nei confronti degli USA a proposito dello spostamento dell’Ambasciata americana a Gerusalemme.

Con riferimento alle condotte di Israele nei confronti dei palestinesi a Gaza e in altre zone del Territorio Palestinese occupato (si pensi ai crescenti episodi di violenza in corso in Cisgiordania) si è anche evocata la fattispecie di «punizioni collettive», ossia azioni a carattere punitivo inflitte indistintamente nei confronti di tutti i membri di una determinata collettività, a fronte di atti presumibilmente criminosi dei quali alcuni soltanto o nessuno di essi portano la responsabilità. Si tratterebbe, in sostanza, di una punizione inflitta con l’intento specifico di colpire la comunità palestinese nel suo complesso sulla scorta di una ingiustificata completa identificazione tra questa e i responsabili degli attacchi del 7 ottobre o comunque dei membri di Hamas, in evidente violazione del principio di responsabilità penale individuale. Condotte di questo tipo sono certamente contrarie al diritto internazionale umanitario e costituiscono crimini di guerra secondo gli Statuti di alcuni tribunali internazionali(zzati) e, secondo la loro giurisprudenza, anche in base al diritto consuetudinario (v. art. 4 Statuto del Tribunale penale internazionale per il Ruanda; art. 3 dello Statuto della Corte speciale per il Sierra Leone e la decisione della Camera di appello di questa corte, caso CDF, par. 223-224). Ciò nonostante, la fattispecie di collective punishment non è stata espressamente tipizzata dallo Statuto di Roma (v. Darcy 2010; Heller). Pertanto, eventuali condotte in astratto sussumibili sotto l’ombrello delle punizioni collettive potrebbero essere perseguite alla CPI solo riconducendole separatamente ad altre fattispecie nell’ambito dei crimini di guerra o dei crimini contro l’umanità.

4. Le prospettive future e il possibile ruolo della Corte nella crisi attuale

Le considerazioni fin qui svolte si riferiscono evidentemente soltanto al quadro emerso a seguito dei più recenti avvenimenti e non esauriscono certo – anche e soprattutto sul piano temporale – le condotte sulle quali il Procuratore è abilitato ad indagare e la Corte a giudicare, che si estendono a tutti i potenziali crimini da chiunque commessi nel Territorio Palestinese a partire dal giugno 2014. Si tratta ora di capire quali siano le prospettive future di una indagine sul complesso delle vicende potenzialmente rientranti nella giurisdizione della Corte nella situazione della Palestina e gli effetti di un avanzamento dei procedimenti sul comportamento dei soggetti più direttamente coinvolti, nonché degli Stati terzi.

A questo proposito occorre anzitutto chiarire che la posizione della Palestina è ben diversa da quella dello Stato di Israele. Infatti, soltanto la Palestina è uno Stato Parte allo Statuto di Roma e ha liberamente assunto gli obblighi di cooperazione con la Corte che discendono dal Capo 9 dello Statuto. Ciò significa che qualora il Procuratore intenda indagare ed esercitare l’azione penale tanto nei confronti di cittadini israeliani, tanto nei confronti di esponenti di Hamas o altri gruppi, le autorità palestinesi nel loro complesso avrebbero l’obbligo di cooperare con la Corte, fornendo tra l’altro, ove richieste, l’accesso al territorio per svolgere attività d’indagine e raccogliere elementi di prova e dando attuazione ai provvedimenti – incluso eventuali mandati d’arresto – adottati nel corso del procedimento. Non può sfuggire che con riferimento a Gaza le autorità palestinesi – al di là della frattura politica tra quelle dotate di effettività nella Striscia e nel resto del Territorio Palestinese – sarebbero quasi certamente nell’impossibilità materiale di cooperare con la Corte quanto all’accesso al territorio, poiché questo è totalmente controllato dallo Stato di Israele, che limita fortemente o nega l’ingresso a Gaza anche a rappresentanti e funzionari di organizzazioni internazionali. In un simile contesto sembra comunque difficile immaginare che le autorità in questione collaborino con la Corte per l’accertamento di responsabilità dei propri membri, specie quelli di vertice (molti dei quali si trovano all’estero al riparo del raggio d’azione della Corte) e, tantomeno, che portino avanti indagini e processi a livello nazionale nei loro confronti. Naturalmente, nulla di tutto questo vale per lo Stato di Israele, che non è parte allo Statuto e non è comunque tenuto a cooperare con la Corte.

Come insegna la situazione ucraina, la realtà concreta dei rapporti tra gli Stati e la Corte può tuttavia risultare più complessa e contraddittoria di quanto un’analisi del mero dato giuridico tenda a suggerire. Infatti, Stati terzi che in linea generale ritengono contrario ai propri interessi strategici cooperare con la Corte potrebbero avere un interesse tattico a non ostacolarne l’operato rispetto a specifiche situazioni o possibili destinatari delle attenzioni della Corte. È questo il caso, ad esempio, dell’atteggiamento americano rispetto all’indagine della Corte nella situazione ucraina. Nella situazione qui commentata, che vede la possibilità di indagare sulla commissione di presunti crimini commessi da parte di cittadini israeliani, sembra però da escludere che l’attuale o future amministrazioni americane intendano supportare l’attività della Corte, almeno con riferimento a questi filoni di indagine. Per quanto riguarda gli altri Stati Parte allo Statuto, sarebbe auspicabile che questi manifestassero senza ambiguità il proprio pieno sostegno all’indagine del Procuratore, fornendo nei limiti del possibile la necessaria assistenza agli organi della Corte, come accaduto di recente in altre situazioni.

In un quadro così complesso e politicamente sensibile, anche dal punto di vista della percezione di legittimità e imparzialità della Corte, il Procuratore dovrà compiere scelte molto delicate su come condurre l’indagine e come scandirne i tempi, su quali episodi criminosi e su quali soggetti concentrare l’attenzione, nonché su come ricercare la cooperazione degli Stati. Sul piano pratico, tuttavia, la situazione rende al momento particolarmente arduo pianificare efficacemente le attività di indagine e di raccolta di elementi di prova, così come ottenere assistenza nell’esecuzione di provvedimenti della Corte e la presenza di eventuali imputati a L’Aia. Inoltre, data la forte polarizzazione sugli eventi in corso tanto a livello internazionale quanto nelle opinioni pubbliche di molti Paesi, è forte il rischio di esposizione della Corte a tentativi incrociati di delegittimazione e alla percezione di double standards (sul punto v. Kersten; le parole del Prof. Marco Sassoli nell’intervista rilasciata a The New Humanitarian; e la dichiarazione del Governo sudafricano, con cui si chiede al Procuratore di indagare tempestivamente sugli avvenimenti in corso, come avvenuto nella situazione ucraina, e che «Failure to do so will serve to exacerbate the growing cynicism that international criminal law is applied selectively for political purposes»). In questo senso, va sottolineata l’importanza fondamentale della strategia comunicativa e delle parole che il Procuratore indirizza sia alle parti al conflitto, sia alla comunità internazionale nel suo complesso (v. le più recenti dichiarazioni pronunciate dal Procuratore al Cairo e a Rafah, durante sua visita in Egitto), e la necessità di monitorarne i possibili effetti sul comportamento degli attori coinvolti.

Non vi è dubbio che rispetto alla situazione in Palestina e Israele la Corte si trovi di fronte ad uno snodo decisivo per il suo futuro e per la stessa sopravvivenza del progetto di una credibile giustizia penale internazionale. Di fonte alla sofferenza delle vittime la possibilità di conseguire un seppur circoscritto accertamento indipendente dei fatti e delle responsabilità penali individuali rappresenta un obiettivo minimo di civiltà giuridica e di speranza in un clima di profondo e generale pessimismo sull’effettività di alcuni dei più basilari precetti del diritto internazionale, specie quando calati nell’agone di conflitti percepiti come esistenziali da interi popoli. Ciò nella piena consapevolezza dei limiti strutturali della capacità deterrente della giustizia penale internazionale (Tallgren, pp. 569-580; Jenks e Acquaviva) e, più in generale, del fatto che «non è il diritto internazionale che può consegnarci da solo la soluzione della questione israelo-palestinese. Il diritto è semmai uno strumento per guidare le condotte degli attori. Se questi scelgono di ignorare le soluzioni giuridiche, ne conservano almeno la responsabilità giuridica e morale che non può essere scriminata dal “fallimento del diritto internazionale”» (così Pertile 2021).

* Lo scritto e le informazioni in esso contenute sono aggiornati all’8 novembre 2023 *

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1 Comment

  1. Gabriele Della Morte
    Novembre 17, 2023 at 6:25 pm — Rispondi

    Per quanto concerne gli attacchi del 7 ottobre mi domando cosa potrebbe ostare alla qualifica, ex art. 7, par. 1, lett. a (“Murder”) e lett. k (“Other inhumane acts of a similar character intentionally causing great suffering, or serious injury to body or to mental or physical health”) di un “crime against humanity”. In particolare, considerando che si è trattato di condotte “committed as part of a widespread or systematic attack directed against any civilian population, with knowledge of the attack”, ai sensi dell’art. 7. par. 1 dello Statuto, ovvero di condotte “involving the multiple commission of acts referred to in paragraph 1 against any civilian population, pursuant to or in furtherance of a State or organizational policy to commit such attack”, ai sensi dell’art. 7, par. 2, lett. a dello Statuto.

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