diritto internazionale pubblico

Il caso Contrada e il concorso esterno in associazione mafiosa davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo

Emanuele Nicosia, magistrato

La lunga vicenda giudiziaria di Bruno Contrada – già dirigente della Polizia di Stato, dal 1973 capo della Squadra mobile di Palermo e poi numero tre del SISDE, arrestato nel 1992 con l’accusa di aver trasmesso a esponenti di Cosa nostra informazioni riservate sulle attività investigative in corso e infine condannato nel 1996 dal Tribunale di Palermo a dieci anni di reclusione per concorso in associazione di tipo mafioso, con sentenza divenuta poi definitiva – ha conosciuto da poco un nuovo (inaspettato?) sviluppo, che ha di fatto “riaperto” il caso: con la sentenza (qui la traduzione in italiano) Contrada c. Italia n. 3 del 14 aprile 2015, la Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in poi: “Corte EDU”) ha accolto all’unanimità il ricorso di Contrada contro la condanna inflittagli dai giudici italiani e condannato lo Stato italiano a risarcire allo stesso i danni morali subiti.

La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Contrada

Contrada aveva fatto ricorso alla Corte EDU nel 2008 – dopo che la Cassazione, intervenuta all’esito di una serie di pronunce intermedie di segno diverso, aveva confermato definitivamente la condanna inflittagli in primo grado dal Tribunale di Palermo – sostenendo, in particolare, che tale condanna fosse avvenuta in violazione del principio nulla poena sine lege (art. 7, Convenzione europea dei diritti dell’uomo, d’ora in poi: “Cedu”); e ciò in quanto nell’ordinamento italiano la fattispecie criminosa di concorso “esterno” nel reato di associazione di tipo mafioso era stata il frutto di un’evoluzione giurisprudenziale consolidatasi solo successivamente all’epoca della commissione dei fatti contestatigli, con conseguente impossibilità per lo stesso Contrada di prevedere, all’epoca, a quali conseguenze penali sarebbe andato incontro.

Il Governo italiano si era invece difeso sostenendo che la giurisprudenza interna che aveva negato la punibilità del concorso esterno nel reato associativo era comunque pervenuta generalmente a qualificare le condotte contestate come condotte di vera e propria partecipazione all’associazione, e in ogni caso era stata sempre minoritaria, fino al definitivo consolidamento dell’opposto orientamento favorevole alla configurabilità del concorso esterno, sicché per Contrada le conseguenze penali della propria condotta erano del tutto prevedibili.

La Corte EDU ha dunque accolto la tesi di Contrada e dichiarato che la condanna di questi per concorso esterno in associazione di tipo mafioso aveva in effetti violato l’art. 7 Cedu, in quanto «all’epoca dei fatti contestati al ricorrente (1979-1988) il reato in questione non era per lui sufficientemente chiaro e prevedibile. Il ricorrente non poteva dunque conoscere nel caso di specie la pena cui sarebbe andato incontro per le condotte dallo stesso poste in essere» (par. 75).

Nel pronunciarsi sulla specifica vicenda, la Corte si è dovuta dunque confrontare con il problema generale, da sempre dibattuto in Italia, della punibilità del concorso “esterno” (eventuale) nel reato associativo: cioè di una fattispecie criminosa fondata, com’è noto, sulla combinazione tra la singola norma penale speciale che incrimina la partecipazione ad un’associazione criminale (nel caso di specie, artt. 416 e 416-bis cod. pen., rispettivamente associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso) e, dall’altro, la norma penale generale sul concorso di persone nel reato, secondo cui quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita (art. 110 cod. pen.).

È noto infatti che la possibilità di applicare l’istituto di diritto penale generale del concorso di persone – oltre che ai reati tipizzati nella legislazione penale nella forma monosoggettiva (concorso “eventuale”: ad es. il “palo” rispetto al furto in abitazione) – anche a reati necessariamente plurisoggettivi (o a concorso “necessario”) come i reati associativi non è stata sempre pacifica. Con riferimento specifico alla fattispecie incriminatrice di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis), introdotta nel 1982, la possibilità di estenderne l’applicazione, a titolo di concorso “eventuale”, a condotte che – in quanto consistenti in un contributo consapevolmente fornito al mantenimento o al rafforzamento dell’associazione – appaiono più gravi del mero favoreggiamento dei suoi membri (art. 378 cod. pen.), ma che al contempo – in quanto poste in essere da soggetti non stabilmente inseriti nell’associazione e non necessariamente interessati al raggiungimento dei suoi obiettivi – neanche paiono sussumibili all’interno della fattispecie di partecipazione piena all’associazione (fenomeno indubbiamente ricorrente sotto il profilo criminologico: politici, amministratori, imprenditori, avvocati, magistrati, ecc.), è stata da sempre controversa: prima oggetto di prese di posizione giurisprudenziali contrastanti nei primi anni di vigenza del suddetto art. 416-bis (alcune delle quali totalmente negatorie), poi prospettata con sempre maggiore frequenza, e solo a partire dal 1994 – ma non senza qualche altra successiva presa di posizione contraria – consacrata da quattro diverse sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, tanto da apparire oggi acquisizione pressoché pacifica.

L’oggetto specifico della sentenza Contrada

In motivazione, la Corte EDU ha richiamato innanzitutto la propria consolidata giurisprudenza in materia di art. 7 Cedu, ricordando come il principio di legalità in materia penale dallo stesso sancito possa dirsi rispettato solo allorché i reati e le pene siano chiaramente definiti dalla legge e non applicati in via analogica, in modo che ciascun individuo, nel momento in cui pone in essere una condotta, possa prevedere esattamente quali conseguenze potranno derivargli dalla stessa sul piano penale; per poi chiarire che la competenza ad interpretare la normativa interna e a qualificare i fatti alla luce della stessa appartiene ai giudici nazionali, spettando invece alla Corte il solo compito di pronunciarsi sulla compatibilità con la Cedu dei risultati di tale attività interpretativa e qualificatoria, compito che in materia di art. 7 Cedu consiste nel valutare se la condanna penale oggetto del ricorso abbia un fondamento giuridico sufficientemente chiaro.

Così facendo la Corte EDU ha inteso limitarsi a decidere se la specifica condanna a titolo di concorso esterno di Contrada fosse dallo stesso prevedibile all’epoca dei fatti a lui contestati (1979-1988), omettendo invece di pronunciarsi in generale sulla questione della compatibilità tra una condanna a titolo di concorso esterno (fondata appunto sull’interpretazione congiunta degli artt. 110 e 416-bis cod pen.), e l’art. 7 Cedu; questione che, in questi termini, potrebbe ben essere sollevata anche rispetto a fatti commessi dopo il consolidamento della giurisprudenza favorevole al concorso esterno e che sembra rimanere dunque impregiudicata dalla pronuncia in questione. Tale limitazione del campo decisionale, sebbene conforme al ruolo di giudice del caso concreto proprio della Corte EDU, nonché, probabilmente, al contenuto del ricorso di Contrada, presenta tuttavia degli aspetti critici su cui si tornerà a breve.

I motivi addotti dalla Corte EDU a sostegno della propria decisione

Così delimitato l’oggetto della propria decisione, nel caso specifico la Corte EDU è pervenuta ad affermare la violazione dell’art. 7 Cedu per difetto di prevedibilità delle conseguenze penali all’epoca dei fatti, sulla base di diverse considerazioni: a) all’epoca della commissione dei fatti contestati, l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione mafiosa nell’ordinamento italiano era controversa in giurisprudenza, e spesso del tutto negata, essendosi profilata di tanto in tanto nei secondi anni ottanta del secolo scorso e poi consolidata solo nel 1994 con la sentenza Demitry delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (parr. 65-70 e 74); b) è irrilevante il richiamo del Governo italiano a talune pronunce risalenti agli anni sessanta, che avevano ammesso la configurabilità del concorso esterno con riferimento però a diverse figure di reato associativo come il reato di associazione sovversiva e simili (par. 71); c) la sentenza di condanna di Contrada della Corte d’appello di Palermo del 2006 (poi confermata definitivamente dalla Cassazione nel 2007) ha fatto leva sulla giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione in tema di ammissibilità del concorso esterno, che è posteriore ai fatti contestati (par. 72); d) i giudici interni si sono limitati a trattare e risolvere affermativamente il problema dell’ammissibilità in generale del concorso esterno, ma non quello della conoscibilità di tale reato da parte del ricorrente all’epoca dei fatti (par. 73).

Considerazioni critiche

Nessuno degli argomenti utilizzati dalla Corte pare tuttavia irresistibile. In particolare, quanto all’argomento più consistente, quello sub a), è senz’altro corretto affermare che all’epoca della commissione dei fatti da parte del ricorrente la giurisprudenza interna in materia di concorso esterno era oscillante, tra pronunce che negavano la punibilità a titolo di concorso esterno delle condotte intermedie tra la partecipazione piena all’associazione criminale e il mero favoreggiamento e pronunce che l’ammettevano, e che solo a partire dalla prima sentenza delle Sezioni Unite del 1994 il secondo orientamento si è definitivamente affermato. Ciò però non significa necessariamente che all’epoca dei fatti le conseguenze penali di una condotta consistita nel contribuire sistematicamente, attraverso il passaggio di informazioni, alle attività di un’associazione criminale non fossero in alcun modo prevedibili nel senso richiesto dall’art. 7 Cedu, considerato che l’applicazione congiunta degli artt. 110 e 416-bis cod. pen. deriva pur sempre da un’interpretazione di norme vigenti, e che tale condotta avrebbe potuto addirittura essere punita a titolo di partecipazione all’associazione criminale tout court (oltre che naturalmente a titolo di favoreggiamento, ma in questo caso con pena più mite).

A questo proposito va rilevato che l’art. 7 Cedu è nato con l’obiettivo minimo e formale di impedire la punizione di un fatto in assenza di previa norma incriminatrice del medesimo, ovvero in base a norma incriminatrice sopravvenuta al fatto stesso (casi ormai per lo più di scuola). La sua interpretazione, da parte della giurisprudenza europea (in ciò influenzata anche dai sistemi giuridici anglosassoni), in senso estensivo e sostanziale, incentrata sul concetto di prevedibilità delle conseguenze penali, è senz’altro meritoria nella misura in cui mira a impedire anche la punizione di un fatto sulla base di norme incriminatrici che, pur preesistenti allo stesso, siano però talmente oscure o indeterminate da rendere imprevedibile la loro applicazione, oppure siano state oggetto, almeno fino al momento della commissione del fatto, di costanti interpretazioni in bonam partem che hanno escluso la punibilità dell’autore (anche se eventualmente superate da interpretazioni in malam partem successive al fatto). La stessa interpretazione presenta però degli aspetti critici là dove, come nel caso di specie, la commissione del fatto sia avvenuta nei primi anni di vigenza di una nuova norma incriminatrice (art. 416-bis cod. pen.), in una situazione di incertezza giurisprudenziale sulla portata della nuova norma e sulle sue potenziali interazioni con altre norme (in questo caso, l’art. 110 cod. pen.): in questi casi, considerato che qualsiasi norma incriminatrice presenta margini di incertezza interpretativa, anche nelle sue interazioni con altre norme, il rischio paradossale sarebbe quello di dover ritenere contraria all’art. 7 Cedu e al principio della prevedibilità (portato all’estremo) qualunque pronuncia sfavorevole al reo adottata in una situazione di incertezza giurisprudenziale, e quindi qualunque condanna per fatti commessi prima del “consolidamento” della giurisprudenza sfavorevole al reo, il quale però mai potrebbe verificarsi, proprio perché qualunque condanna, fino a quel momento, sarebbe preclusa dall’art. 7 Cedu.

Ecco perché sarebbe stato più logico che la Corte EDU si pronunciasse sull’eventuale intrinseca indeterminatezza (all’epoca dei fatti e a tutt’oggi) della combinazione normativa tra gli artt. 110 e 416-bis cod. pen.: o la punizione in base a tali articoli, a titolo di concorso esterno, di condotte agevolatrici dell’associazione mafiosa da parte di soggetti non appartenenti alla stessa costituisce una legittima interpretazione sistematica delle norme vigenti, pertanto non imprevedibile fin dall’introduzione dell’art. 416-bis cod. pen.; oppure la stessa costituisce un’illegittima creazione giurisprudenziale viziata dall’indeterminatezza di fondo della combinazione delle due norme, e allora non dovrebbero bastare quattro sentenze delle Sezioni unite a renderla legittima agli occhi della Corte EDU.

Quanto agli altri argomenti, in breve: quello sub b) non convince troppo, perché il problema di qualificare giuridicamente le condotte agevolative di un’associazione criminale (come partecipazione all’associazione oppure come concorso “esterno” nella stessa) è un problema che si pone in termini generali indipendentemente dal tipo di associazione criminale in questione, e anzi le conclusioni raggiunte in merito a un tipo di associazione, lungi dall’essere inapplicabili ad un’altra, ben potrebbero influenzarne l’evoluzione giurisprudenziale; quanto invece agli argomenti sub c) e d), partendo dal presupposto che il concorso esterno sia una formula di creazione giurisprudenziale ma pur sempre fondata su norme vigenti, sia il richiamo alla sentenze delle Sezioni Unite operato dalla Corte d’Appello di Palermo, sia l’analisi generale condotta dai giudici interni potrebbero ben spiegarsi con la necessità di avvalorare in generale tale interpretazione, mentre le oscillazioni relative al periodo di commissione dei fatti sarebbero irrilevanti.

Conseguenze ed effetti della sentenza Contrada

Sul piano del dibattito generale in materia concorso esterno la sentenza, proprio in quanto limitata alla compatibilità con la Cedu di una condanna per concorso esterno per fatti commessi fino al 1988, e pur in assenza di presa di posizione esplicita sul punto, potrebbe essere vista come la riprova a contrario della compatibilità con la Cedu dell’imputazione a titolo di concorso esterno ex artt. 110 e 416-bis cod. pen. a partire almeno dal 1994, data della prima pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite, proprio perché a partire da quella data il rischio di subire una condanna a quella pena sarebbe diventato prevedibile. Si è detto, tuttavia, come tale autolimitazione dell’oggetto della decisione non appaia convincente, e come la Corte EDU avrebbe dovuto coerentemente pronunciarsi nel senso della indeterminatezza della combinazione normativa in questione.

Sul piano della concreta vicenda giudiziaria, non possono invece escludersi ulteriori sviluppi. A seguito della pronuncia della Corte EDU, Contrada ha infatti manifestato la legittima intenzione di chiedere il riconoscimento delle proprie ragioni anche da parte della giustizia italiana; e in effetti, a parte le ragioni di principio, potrebbe residuare un suo interesse concreto in questo senso, nonostante la pena detentiva principale sia già stata espiata, al fine di ottenere la revoca di pene accessorie o di far valere ulteriori pretese risarcitorie.

Al riguardo, è noto come negli ultimi anni, in assenza di rimedi normativi appositi, la giurisprudenza interna abbia cercato di dare attuazione alle pronunce della Corte EDU dichiarative di violazioni di diritti sia sostanziali che processuali avvenute nel processo penale utilizzando diversi istituti processuali idonei a modificare o paralizzare il giudicato, e scegliendo di volta in volta quello ritenuto più appropriato in base al tipo di violazione da riparare: in particolare, il ricorso al giudice dell’esecuzione (art. 670 cod. proc. pen.), il ricorso in Cassazione straordinario per errore materiale o di fatto (art. 625-bis cod. proc. pen.), o il più ampio rimedio della revisione (art. 630 cod. proc. pen.), che a seguito della sentenza 113/2011 della Corte costituzionale può essere oggi esperito anche al fine di conseguire l’eventuale riapertura del processo penale, quando ciò sia necessario per conformarsi, appunto, ad una sentenza definitiva della Corte EDU (c.d. revisione “europea”).

Quale di questi rimedi risulti più appropriato in un caso come quello di Contrada, non è scontato. Peraltro, si potrebbe in questo caso forse anche ipotizzare – considerato che secondo la Corte EDU il fatto «non era previsto dalla legge come reato» – un ricorso al giudice dell’esecuzione finalizzato alla revoca della sentenza ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., da applicare però in via analogica (dal momento che l’articolo fa riferimento ai soli casi di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, ma non di declaratoria di non conformità alla Cedu della prassi giurisprudenziale).

Ad ogni modo, trattandosi di un caso in cui la Corte EDU ha dichiarato la violazione di un diritto sostanziale (art. 7 Cedu), al fine di dare attuazione alla pronuncia della Corte EDU non sembrerebbe necessario riaprire il processo (che la Corte EDU non ha ritenuto in alcun modo viziato), ma basterebbe piuttosto revocare la condanna a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa fondata sugli artt. 110 e 416-bis cod. pen.

Peraltro, a seconda del rimedio esperito, non rimane escluso in teoria che alla revoca della sentenza di condanna si possa accompagnare un’eventuale riqualificazione delle condotte già accertate (escluso qualsiasi aggravamento del trattamento sanzionatorio già inflitto): ad esempio, a proposito della revisione “europea”, la citata sentenza della Corte costituzionale ha precisato che a questa figura anomala di revisione non sarebbero applicabili le disposizioni in materia di revisione inconciliabili con l’obiettivo perseguito (porre l’interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della violazione della Cedu), prime fra tutte quelle che indicano il proscioglimento come unico esito possibile dell’accoglimento della domanda di revisione (come l’art. 637 cod. proc. pen.); sicché, alla revoca della condanna non sembrerebbe dover automaticamente conseguire il proscioglimento dell’imputato (fermo restando il divieto di reformatio in pejus derivante dal principio secondo cui la revisione può essere solo a favore del condannato, art. 629 cod. proc. pen.).

Ora, nel caso Contrada, le condotte contestate e già accertate avrebbero potuto essere astrattamente qualificate come favoreggiamento (art. 378 cod. pen.) o addirittura come partecipazione nell’associazione di tipo mafioso ai sensi del solo art. 416-bis cod. pen.: fattispecie cioè diverse da quella di concorso esterno in associazione mafiosa fondata sugli artt. 110 e 416-bis cod. pen., e soprattutto la cui applicabilità alle condotte stesse risultava verosimilmente, all’epoca dei fatti, prevedibile. Tuttavia oggi, in concreto – ammesso che il rimedio utilizzato per dare attuazione alla sentenza della Corte EDU lasci aperta al giudice la possibilità di riqualificare le condotte in questione, anche in assenza di qualsiasi indicazione della Corte EDU in tal senso – sarebbe verosimilmente preclusa, in assenza di una vera e propria riapertura del processo (non necessitata dalla pronuncia della Corte EDU) la possibilità di procedere a simili riqualificazioni, che pure sarebbero (state) teoricamente sostenibili e perfettamente compatibili con il principio di legalità/prevedibilità di cui all’art. 7 Cedu (per l’art. 416-bis almeno per i fatti commessi dopo il 1982, data di entrata in vigore dello stesso); e ciò in quanto l’esigenza di garantire all’interessato il pieno diritto di difesa richiederebbe che tutti gli elementi costitutivi di tali diverse fattispecie criminose siano stati già accertati e dimostrati nel pieno contraddittorio (il che non appare affatto scontato).

Per concludere, resta, in ogni caso, un problema di fondo: non è tollerabile che una sentenza come questa, idonea a travolgere il giudicato formatosi sulla vicenda e a incidere in modo così rilevante sul destino giudiziario del ricorrente e, più in generale, sulla questione del concorso esterno intervenga a distanza di sette anni dalla sentenza interna definitiva (e di ventitré anni dall’arresto). A prescindere dalla questione di stabilire a chi sia imputabile questo ritardo (non necessariamente alla Corte EDU, considerata la mole di lavoro che grava sulla stessa e la scarsità di risorse umane e finanziarie a sua disposizione), è evidente infatti che un sistema integrato di tutela dei diritti fondamentali che può rimettere tutto in discussione dopo così tanti anni non garantisce né la certezza del diritto e delle soluzioni giurisprudenziali adottate, né, soprattutto, l’effettività della tutela dei diritti dei ricorrenti.

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Emanuele Nicosia

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