diritto dell'Unione europea

L’Agenda europea sulla migrazione: la macchina ora (forse?) funziona, ma ne occorre comunque un’altra

Francesco Cherubini, LUISS

In una celebre scena del film Palombella rossa, il protagonista Michele, interpretato da Nanni Moretti (che di quella pellicola era anche regista), ricorda ad una malcapitata intervistatrice, con una certa “intensità”, l’importanza delle parole. Chissà come avrebbe reagito, il Nostro, di fronte all’uso improprio del termine emergenza quando esso compare accanto ad immigrazione. Sfogliando un qualunque vocabolario, si apprende che l’emergenza è una «circostanza o eventualità imprevista»; ma questo termine ha anche un significato più infrequente, e cioè quello di «condizione di ciò che emerge».

Ebbene, ciò che appunto emerge dal mar Mediterraneo, quando non vi rimane sepolto, è il numero altissimo di corpi dei migranti provenienti soprattutto, ma non solo, dall’Africa subsahariana: il segno indiscutibile di un problema strutturale e sistemico nelle politiche di immigrazione ed asilo dell’UE e dei suoi Stati membri; il paradigma di una situazione tutt’altro che emergenziale (imprevista). Il 19 aprile scorso l’ennesimo drammatico naufragio nel Canale di Sicilia: circa 850 migranti, stando a quanto riportato dall’Ansa, inghiottiti dalle acque a circa 70 miglia dalle coste libiche (ma nello stesso periodo se ne sono consumati altri, di dimensioni “minori”: circa 400, sempre nel canale di Sicilia, e 200 di fronte all’isola di Rodi). Sulla spinta di questi eventi, la Commissione europea ha deciso fosse venuto il momento di muoversi. Già il 20 aprile il commissario Avramopoulos presentava ad una riunione dei ministri degli esteri e dell’interno, presieduta dall’Alto rappresentante Mogherini, un Piano d’azione in dieci punti (sul quale v. il post di Chiara Favilli). Il Piano, che riscuoteva il sostanziale appoggio anche del Consiglio europeo straordinario, riunitosi il 23 aprile, e del Parlamento europeo, veniva poi declinato in maniera più dettagliata in una Comunicazione della Commissione del 13 maggio, diretta al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle Regioni, con cui veniva resa nota l’attesa Agenda europea sulla migrazione.

L’Agenda doveva rispondere ad una serie di interrogativi “urgenti”, sia di breve sia di lungo periodo, concernenti, come in essa si legge, «the different steps the European Union should take now, and in the coming years, to build up a coherent and comprehensive approach to reap the benefits and address the challenges deriving from migration» (p. 2). Nel farlo, la Commissione mostra una solida consapevolezza nel districare la questione semantica cui prima si faceva cenno: anziché evocare, nel goffo tentativo di nascondere le incapacità che l’Unione e i suoi Stati membri hanno mostrato nel (non) fronteggiare il problema (almeno finora), l’emergenza (versione “circostanza imprevista”), ha ammesso con molta onestà che le «[e]mergency measures have been necessary because the collective European policy on the matter has fallen short» (ivi).

È, questo, già un punto di partenza lucido, in un panorama nel quale la lucidità latita, come dimostrano le prese di posizione di alcuni leaders politici (fra i quali, inutile dirlo, spiccano Matteo Salvini e Marine Le Pen). Gli stessi che, di norma, parlano di “invasione”, altro termine che viene usato in modo del tutto gratuito e demagogico: basti pensare che, secondo una ricerca condotta qualche anno fa, la percentuale dei cittadini extra-UE in posizione irregolare all’interno del “territorio” europeo si aggirava intorno all’1% della popolazione europea. Ancor più significativo è il dato riguardante gli individui che si trovano in una posizione di (ulteriore) vulnerabilità rispetto ad un “normale” migrante (rifugiati e, più in generale, richiedenti asilo): la gran parte (circa l’86%) di loro viene accolta nei paesi del c.d. Terzo mondo; in altre parole, come è stato recentemente sottolineato, «quelle che appaiono in Europa ondate di profughi non sono altro che piccole frange di una catastrofe umanitaria» (Ambrosini, p. 65).

Il Piano d’azione toccava, come detto, dieci punti, illustrati in maniera molto sintetica: 1) rafforzamento delle operazioni Triton e Poseidon; 2) cattura e distruzione delle imbarcazioni utilizzate dai trafficanti (smugglers); 3) cooperazione fra Europol, Frontex, Easo (Ufficio europeo di sostegno per l’asilo) ed Eurojust nella lotta ai trafficanti; 4) supporto dell’Easo a Grecia e Italia nell’esame delle domande di protezione; 5) impegno di tutti gli Stati membri a rilevare le impronte digitali di tutti i migranti; 6) possibile creazione di un meccanismo di trasferimento di emergenza; 7) un progetto pilota di reinsediamento, su base volontaria; 8) un nuovo programma di rimpatrio, coordinato da Frontex; 9) cooperazione con gli Stati terzi, in particolare quelli limitrofi alla Libia; 10) spiegamento di funzionari di collegamento (ILO) in paesi terzi chiave, per la raccolta di informazioni.

L’Agenda sviluppa questi dieci punti a tre diversi livelli: breve, medio e lungo periodo. I contenuti delle “azioni immediate” risentono fortemente del clima nel quale il Piano d’azione e l’Agenda sono stati elaborati: ai primi punti figurano, come detto, quelle attività volte ad impedire nuove tragedie, vuoi tramite il potenziamento dei mezzi di salvataggio, vuoi tramite la lotta ai trafficanti. La Commissione prospetta per Triton e Poseidon un aumento del budget (triplicato) che consenta di estendere «both the capability and the geographical scope of these operations» (Agenda, p. 3, corsivo aggiunto). Si tratta di un punto estremamente significativo, proprio perché una delle critiche mosse nei confronti dell’Unione (fra tutte, quella di Amnesty), all’indomani della chiusura dell’operazione (italiana) Mare nostrum, “sostituita” da Triton, puntava contro l’assenza di un mandato di ricerca e soccorso nell’operazione europea, fortemente limitata anche sotto il profilo dell’area geografica di competenza. Essa, infatti, occupava il mare territoriale italiano, più una piccola porzione delle aree di ricerca e soccorso italiana e maltese (v. il comunicato stampa di Frontex e, più in generale sul punto, Aalberts e Gammeltoft-Hansen), a fronte di un mandato che spingeva Mare nostrum «fino alle acque internazionali adiacenti le acque territoriali libiche» (v. il post di Francesca De Vittor). Più equilibrio v’era nei mezzi a disposizione: l’operazione Triton disponeva di 2 aerei, 3 pattugliatori d’altura, 2 corvette, 2 pattugliatori costieri, 1 elicottero, 5 debriefing teams (per la raccolta di informazioni nella lotta ai trafficanti) e 2 screening teams; mentre l’Italia operava con 1 nave anfibia, 2 corvette, 2 pattugliatori d’altura, 2 droni aerei, 3 elicotteri (disposti sui mezzi navali) e diversi altri aeromobili dispiegati sulla terraferma, per un totale di 700/1000 militari impiegati.

Dando seguito alla “promessa” della Commissione, le operazioni Triton e Poseidon sono state rafforzate. La prima in particolare, che interessa più l’Italia, oltre ad una consistente immissione di fondi (26,25 miliardi di euro per il 2015, altri 45 per il 2016), ha beneficiato, come si apprende da un comunicato dell’Agenzia, di una notevole espansione. Se quella geografica (fino a 138 miglia a sud della Sicilia) si era di fatto realizzata anche prima della sollecitazione della Commissione (a 40 miglia dalle coste libiche, come si apprende da una nota della stessa Agenzia Frontex), i mezzi sono quasi raddoppiati: 3 aerei, 6 pattugliatori d’altura, 6 corvette, 2 elicotteri, 9 debriefing teams e 6 screening teams, con la partecipazione di quasi tutti gli Stati membri dell’Unione (mancano Bulgaria, Cipro, Slovacchia e Ungheria), più tre dei quattro Stati associati alle politiche europee di immigrazione e asilo (Islanda, Norvegia e Svizzera). Un passo in avanti importante, come riconosciuto dal direttore del Consiglio italiano per i rifugiati, Christopher Hein.

Meno brillante (e in effetti qualcuno non ha tardato ad evidenziare curiose analogie) appare la soluzione prospettata dalla Commissione in relazione al punto n. 2, relativo alla cattura e alla distruzione dei barconi utilizzati dagli smugglers. Come recentemente evidenziato da Roberto Virzo in un seminario sui Problemi di cooperazione internazionale in materia di migrazione via mare nel Mediterraneo, tenutosi presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Roma “La Sapienza”, molteplici sono i profili che non convincono. Per limitarci a quello più evidente: nessuna norma di diritto internazionale (incluse, particolarmente, quelle della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare, della Convenzione di Palermo contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo Protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria) consente ad uno Stato di distruggere, con o senza il consenso dello Stato di bandiera (in alto mare) o dello Stato costiero (nel suo mare territoriale), i barconi utilizzati dai trafficanti per il “trasporto” dei migranti. Confisca e sequestro sono le misure che, al massimo, possono essere adottate (perfino di fronte alla diversa – e forse più grave – ipotesi di pirateria). In effetti, la decisione con cui è stato attuato il punto n. 2 dell’Agenda (decisione PESC 2015/778 del Consiglio del 18 maggio scorso) modera (ma non troppo) i termini: il suo art. 1 parla di «individuare, fermare e mettere fuori uso imbarcazioni e mezzi usati o sospettati di essere usati dai passatori o dai trafficanti» (corsivo aggiunto). Essa, tuttavia, incappa – crediamo – in un diverso errore: quello di ritenere che un’operazione contro i trafficanti, dispiegata nel territorio di uno Stato terzo (la Libia), possa, anche ove non si spinga fino alla distruzione dei barconi, rimanere nella legalità internazionale per il solo fatto di usufruire della copertura di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Questa convinzione si evince chiaramente da due passaggi della decisione in discorso: nel considerando n. 8, secondo cui «[p]ossono essere adottate misure anche in acque territoriali o interne, nel territorio o nello spazio aereo di uno Stato nei confronti di imbarcazioni sospettate di coinvolgimento nel traffico o nella tratta di esseri umani, con il consenso di tale Stato o ai sensi di una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, o entrambi» (corsivo aggiunto); nell’art. 2, par. 2, lett. b), punto ii), nel quale viene usata la stessa congiunzione disgiuntiva “o” («conformemente alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite applicabili o al consenso dello Stato costiero interessato, [l’operazione] procede a […]» (corsivo aggiunto). Ebbene, senza il consenso della Libia (espresso da quale governo, però?), si dovranno forzare non poco i termini della Carta delle Nazioni Unite, dovendo ricondurre ad essa un’operazione “di polizia”: e in effetti, nell’unico possibile precedente (la risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1816 del 2008, relativa al contrasto al fenomeno della pirateria di fronte alle coste della Somalia), vi era stato il consenso del governo federale transitorio somalo (il cui controllo effettivo del territorio era, peraltro, dubbio). In definitiva, tutto l’impianto che ha sviluppato il punto n. 2 dell’Agenda, e forse persino la logica sottesa ad esso, dipende da una condizione (il consenso libico) che definire “altamente volatile” è un eufemismo: il fragile governo di Tobruk, di fatto in esilio, controlla ben poco (e, comunque, solo di recente si è deciso a muovere alcuni passi verso il consenso), mentre il problema vero sarà ottenere la sponda del governo islamista di Tripoli, che controlla la parte del paese da cui i barconi prendono il Mediterraneo. È quasi paradossale (se non addirittura ironico), ma a ben vedere l’intervento del Consiglio di Sicurezza sarebbe perfettamente in linea con l’art. 39 della Carta ove fosse diretto contro un’azione dell’UE e dei suoi Stati membri realizzata senza il consenso da parte del governo di Tripoli: in tal caso, il CdS fronteggerebbe, infatti, una tipica ipotesi di aggressione (o, quantomeno, di violazione della pace) (sul punto v. il post di Gabriella Carella).

L’Agenda si preoccupa, poi, di dare forma e sostanza ad un principio sul quale l’Italia va insistendo ormai da tempo: quello di solidarietà fra gli Stati, il quale impone che il peso dei flussi di migranti irregolari, particolarmente dei richiedenti asilo, sia assorbito da tutti gli Stati membri (v. art. 80 TFUE), e non soltanto da quelli di primo ingresso. Vanno, anzitutto, evidenziati due punti di estrema rilevanza rispetto alla questione della solidarietà: intanto, la vulgata tutta italiana in base alla quale il nostro paese è l’unico (o quasi) a farsi carico di una certa tipologia di flussi irregolari non trova pieno riscontro nei dati empirici. Al di là del fatto che l’Italia è fra i primi paesi dell’Unione nella speciale classifica dei fondi destinati alla gestione delle frontiere (qui ci permettiamo di rinviare ad un nostro breve contributo), i dati sulle presenze dei richiedenti asilo e degli stranieri che godono della protezione internazionale in Europa vanno in una direzione lievemente diversa. Qualche esempio: nel 2014 l’Italia ha ricevuto 64.625 domande di protezione internazionale (poco più della metà delle quali è stato esaminato), vale a dire il 10,3% circa del totale delle domande; la Germania ne ha sopportato il 32,3%, la Francia il 10,2%, la Svezia il 12,9%, l’Austria il 4,4% (fonte Eurostat). Lo scenario descritto diventa ancora più evidente ove ci si sposti sui dati relativi agli individui accolti in maniera tendenzialmente stabile, come rifugiati o beneficiari della protezione sussidiaria: il contributo italiano qui si assottiglia sensibilmente (4,4%), a fronte di quello di altri paesi europei quali Germania (26,6%), Francia (24,2%), Svezia (13,7%), Belgio (8,7%) (fonte Eurostat). La percentuale andrebbe poi commisurata a fattori quali l’estensione del territorio, il numero degli abitanti e il PIL pro capite, con risultati che accentuano ulteriormente il peso di alcuni altri Stati (come ad esempio la Svezia).

Se, tuttavia, si prendono i dati relativi agli ingressi irregolari, la tendenza appena descritta sembra non trovare riscontro, almeno negli ultimi anni: dal 2011, la Central Mediterranean Route (verso Italia e Malta) ha sopportato una media del 42% circa degli ingressi irregolari rilevati in tutta l’UE, con un picco, ovviamente, nel 2014 (60%) (v. Frontex, Annual Risk Analisys 2015, Frontex, Warsaw, 2015, p. 16). Ora, fermo restando che gli ingressi irregolari verso gli Stati dell’UE costituiscono una percentuale minore nell’ambito del complessivo fenomeno della immigrazione irregolare (formata principalmente dai c.d. illegal stayers, rilevati in numero cinque volte superiore a quello degli ingressi irregolari nel 2011, 22 volte nel 2012, 7 volte nel 2013 e 2,5 volte nel 2014), la ragione per cui, in Italia, ad un elevato numero di ingressi irregolari non corrisponde una congrua misura di domande di protezione è semplice: i migranti preferiscono fare domanda in paesi del Nord Europa, dove vi sono migliori condizioni di accoglienza e (in caso di esito positivo) di soggiorno. Alcuni abbandonano l’Italia verso altri lidi, spesso sfuggono alle maglie del regolamento Dublino II grazie alla malcelata complicità dell’Italia nel non rilevare le impronte digitali (che consentirebbero di individuare il nostro paese come quello di primo ingresso). In effetti, non è un caso che persino l’Agenda sottolinei l’importanza della rilevazione delle impronte digitali nel funzionamento del c.d. sistema Dublino (Agenda, p. 13) e che, secondo alcune fonti, essa sarà conditio sine qua non per l’attuazione della tanto sospirata (dall’Italia) solidarietà.

In definitiva, è vero che i paesi del Mediterraneo settentrionale si trovano a dover fronteggiare una tipologia particolarmente drammatica di immigrazione irregolare (quella via mare, con gli annessi ben noti); altrettanto vero è che, al lordo dei molti migranti che fanno ingresso in Italia al solo scopo di raggiungere altri paesi europei, il numero degli ingressi irregolari nel nostro paese è via via divenuto estremamente elevato. Tuttavia, l’idea in base alla quale gli altri Stati membri dell’UE (e l’Unione stessa) siano finora rimasti con le mani in mano è del tutto infondata: il peso maggiore della complessiva immigrazione irregolare (comprensiva degli illegal stayers) e della permanenza stabile dei beneficiari della protezione internazionale è sopportato, in linea di massima, dai paesi nel Nord Europa (sul punto v. pure il post di Chiara Favilli).

È certamente questa la ragione per la quale la soluzione immaginata dalla Commissione nell’Agenda non ha raccolto grande successo fra alcuni Stati membri – e costituirà, verosimilmente, il punto più difficile da realizzare. Essa ipotizza due diversi meccanismi per attuare il principio di solidarietà: il trasferimento (relocation) e il reinsediamento (resettlement). Il primo riguarda i richiedenti che si trovano già nel “territorio” dell’Unione e che vanno distribuiti più equamente fra gli Stati membri: ora, con un programma temporaneo, per affrontare l’“emergenza”; in seguito, con un sistema permanente, che la Commissione intende proporre entro la fine di maggio 2015. Lo schema di distribuzione temporanea dovrà basarsi, stando alla Commissione, sull’art. 78, par. 3, TFUE (finora inutilizzato): come noto, esso prevede che, di fronte ad «un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi», la Commissione possa proporre al Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata, previa consultazione del Parlamento europeo, «misure temporanee a beneficio dello Stato membro o degli Stati membri interessati». L’Agenda (tavola n. 1 dell’Allegato) anticipa anche le percentuali di “assorbimento” per ciascuno Stato membro, formulate in base a criteri quali la popolazione (il cui peso nella determinazione della quota è del 40%), il PIL (40%), la somma del numero dei richiedenti e di quello dei beneficiari, in percentuale su 1 milione di abitanti, nel periodo 2010-2014 (10%) e, infine, il tasso di disoccupazione (10%). Confrontando queste quote con quelle, sopra riportate, delle domande di asilo (il dato più omogeneo disponibile), si nota che la solidarietà – non potrebbe essere diversamente – andrà soprattutto a vantaggio di quegli Stati maggiormente “oberati”: non l’Italia (su cui peserà una quota dell’11,84% a fronte di un contributo, nel 2014, del 10,3% di domande ricevute, cui vanno sottratte, come detto, quelle effettivamente esaminate), ma la Germania (18,42% contro 32,3%), la Svezia (2,92% contro 12,9%), per citare i due casi più evidenti. Altri Stati verranno “penalizzati”: vale a dire quelli che oggi assorbono una percentuale molto bassa di domande (la Spagna, con uno 0,8% contro il 9,10% fissato dalla Commissione come quota di relocation; o la Polonia con un 1,2% contro il 5,64%).

Il secondo meccanismo (resettlement) andrà, se realizzato, molto più in profondità: si tratta di aprire alle persone vulnerabili (i richiedenti asilo) «safe and legal ways […] to reach the EU» (ivi, p. 4). Anche qui, la Commissione fissa uno schema di quote che si basa, però, su un dato forse ottimistico: essa ipotizza che questo sistema di reinsediamento venga messo in piedi per 20.000 persone l’anno, fino al 2020. E anche qui la distribuzione delle quote va a beneficio degli Stati membri più “virtuosi” (fra cui non c’è l’Italia): confrontando il numero di permessi di soggiorno rilasciati a beneficiari della protezione internazionale con queste quote (il primo è il dato più omogeno perché, verosimilmente, dei 20.000 all’anno pochissimi non soddisferanno i requisiti per il riconoscimento della protezione internazionale), vengono fuori notevoli alleggerimenti per la Germania (26,6% contro il 15,43%), la Svezia (13,7 contro 2,46%), la Francia (24,2% contro l’11,87%), mentre molti altri Stati subiranno un peso maggiore (ivi compresa l’Italia: 4,4% contro 9,94%). Come detto, alcuni Stati hanno già mostrato scarso entusiasmo, mentre il Regno Unito (che assieme a Danimarca e Irlanda rimane fuori dal sistema europeo di immigrazione e asilo) ha fatto sapere di non avere la minima intenzione di esercitare la facoltà di opting-in, che le consentirebbe di entrare nel sistema di trasferimento e reinsediamento.

Altre misure immediate riguardano la cooperazione con i paesi terzi e l’uso incrociato delle Agenzie (Easo, Frontex, Europol ed Eurojust) assieme agli Stati membri per migliorare i controlli alle frontiere: nel velocizzare le procedure di smistamento (richiedenti asilo, da un lato, migranti irregolari, dall’altro, destinati, questi ultimi, a programmi di rimpatrio); nella lotta ai trafficanti.

La Commissione, come accennato sopra, si dedica poi ad individuare misure di medio e di lungo periodo per superare alcuni limiti strutturali della politica di immigrazione ed asilo dell’Unione. Per le prime, l’Agenda isola quattro pilastri: i) riduzione degli incentivi alle immigrazioni, da attuarsi tramite il generale miglioramento delle condizioni di vita nei paesi terzi di migrazione (es. cooperazione allo sviluppo), la lotta ai trafficanti e il rafforzamento del sistema dei rimpatri; ii) rendere permanenti le forme di cooperazione fra Stati membri, coordinati da Frontex, per salvare vite umane e rendere sicure le frontiere esterne; iii) migliorare il sistema europeo d’asilo, rendendolo più omogeno ed equilibrato (qui la Commissione accenna ad una possibile revisione del sistema Dublino); iv) una nuova politica di immigrazione legale, vale a dire di immigrazione per motivi di lavoro (ma occorrerebbe ricordare che, in linea di massima, è legale anche la posizione dei richiedenti asilo, almeno fintanto che non ne venga accertato lo status), che la Commissione ritiene «an important way to enhance the sustainability of our welfare system and to ensure sustainable growth of the EU economy», soprattutto in considerazione della “depressione” demografica in cui versa attualmente la popolazione europea.

Le poche righe che la Commissione dedica alle misure di lungo periodo non dicono molto di nuovo rispetto a quanto non facciano già le precedenti, di breve e medio: completamento del sistema europeo comune d’asilo; gestione comune della frontiera europea; un nuovo modello di immigrazione legale. Invero, una più attenta loro lettura mette in evidenza quello che riteniamo essere il vero punto cruciale nella materia della quale si discorre: sono apprezzabili i contenuti del programma della Commissione (eccezion fatta per le azioni in ambito PSDC, peraltro proposte dall’Alto rappresentante, che invece non ci pare possano trovare una realizzazione che sia legittima) e certamente essa va nella direzione giusta (soprattutto, ma non solo) quando indica l’apertura di vie legali alle migrazioni come uno dei pilastri su cui basare l’azione dell’UE e dei suoi Stati membri; difetta, tuttavia, al suo programma un quadro istituzionale che consenta di operare nella direzione indicata. La Commissione, in via di premessa, sostiene la necessità di un approccio più europeo, «using all the policies and tools at our disposal» (Agenda, p. 2). In effetti, se il programma della Commissione verrà integralmente attuato, saremmo di fronte ad un utilizzo pieno degli strumenti di cui è dotata l’UE; ma esso sarà anche sufficiente per raggiungere i risultati voluti (lo ricordiamo: «to build up a coherent and comprehensive approach to reap the benefits and address the challenges deriving from migration», ibidem)?

Una soluzione, certamente più radicale, ma che metterebbe l’UE al riparo da certi “capricci” statali (una volta e per tutte), è quella di porre mano ai Trattati e consegnare le politiche di immigrazione ed asilo alla tipologia di competenza cui esse naturalmente appartengono: quella esclusiva. Del resto, sono proprio gli obiettivi di lungo periodo indicati dalla Commissione nell’Agenda (p. 17) che chiamano a gran voce una riforma del genere. La soluzione può sembrare fantasiosa, ma riteniamo sia ancora più fantasioso costruire una politica unitaria e, quindi, più efficace in queste materie con gli strumenti attualmente a disposizione delle istituzioni. Quando tali politiche furono oggetto di una prima forma di cooperazione fra alcuni Stati della allora CEE (notoriamente, con l’Accordo di Schengen), il (primo) Presidente del Comitato esecutivo della Convenzione di applicazione del 1990 paragonò il sistema di abbattimento dei controlli alle frontiere interne ad un condominio, sostenendo che fosse necessario spostare i controlli dalla porta dell’appartamento a quella dello stabile. Ma, quando lo stabile non è completato, lasciare troppo spazio all’uzzolo dei proprietari (e, nel contempo, ammetterne altri) comporta che, mentre quelli litigano su come allestire gli spazi comuni, di comune non vi sia proprio nulla.

Previous post

La Corte di giustizia e le anti-suit injunctions a protezione dell’arbitrato (osservazioni sul caso Gazprom)

Next post

La prudenza non è mai troppa? La Corte di giustizia e il divieto di donazione di sangue per gli omosessuali

The Author

Francesco Cherubini

Francesco Cherubini

2 Comments

  1. Giuseppe Licastro
    Agosto 31, 2015 at 10:46 am — Rispondi

    Appare opportuno, da ultimo, segnalare l’avvio della prima fase dell’operazione EUNAVFOR MED (v. la decisione (PESC) 2015/972 del Consiglio del 22 giugno 2015, in GUUE n. L 157 del 23 giugno 2015, p. 51 ss.).
    La prima fase di EUNAVFOR MED, prevede la raccolta di informazioni allo scopo di comprendere la pericolosità del fenomeno del traffico di migranti (e della tratta di persone), nonché il pattugliamento marittimo in alto mare (riguardo i menzionati fenomeni, v. il post di F. De Vittor). Tale fase, deputata (anche) alla raccolta di pertinenti informazioni (ad esempio, modus operandi, rotte migratorie) costituisce una fase investigativa necessaria al fine di poter abbozzare un quadro comprensivo anche dell’aspetto relativo al modus operandi dei trafficanti (appunto, i c.d. smugglers), aspetto senza dubbio imprescindibile per poter comprendere ‘in toto’ la pericolosità delle organizzazioni criminali, posto che uno studio (di A. Di Nicola e G. Musumeci), dal titolo piuttosto eloquente, ossia “Confessioni di un trafficante di uomini” (Milano, 2014) ha reso noto che lo ‘smuggling’ si articola in tre fasi: reclutamento-trasferimento-ingresso nel Paese di destinazione (cfr., ivi, p. 111 ss.).
    Da notare che detta misura di ‘intelligence’ rientra nel quadro delle diverse misure contemplate dal “Piano d’azione dell’UE contro il traffico di migranti (2015-2020)” (v. doc. COM(2015) 285 final, del 27 maggio 2015, p. 2 ss.). Più in particolare, detto piano d’azione (p. 6), esorta la partecipazione di EUNAVFOR MED, attraverso la condivisione delle informazioni raccolte, alle attività della squadra operativa ‘ad hoc’ dedicata (anche) all”intelligence’ che si dovrebbe istituire nel quadro della “JOT MARE” lanciata appunto da EUROPOL (consultare la pag. corrispondente in http://www.europol.europa.eu) al fine di contrastare le attività delle organizzazioni criminali volte a facilitare i c.d. “viaggi della speranza” (via mare) verso l’Europa.
    Da notare, altresì, che lo ‘stato dell’arte’ corrente (sia consentito di utilizzare tale locuzione in senso ampio), contempla, nell’ambito del contrasto al fenomeno del traffico (nonché della tratta), sul piano prettamente operativo, due ‘differenti’ operazioni marittime dispiegate ovviamente nel Mediterraneo: l’operazione Triton (riguardo Triton v. anche il post di C. Favilli) e l’operazione EUNAVFOR MED, da considerare ‘potenzialmente’ più efficace (…ma che presenta ‘limiti’ ben evidenziati appunto nel post di F. Cherubini; che richiama, altresì, il post di G. Carella). Con riferimento all’op. Triton occorre tenere presente che l’accrescimento dell’estensione del suo raggio d’azione (138 miglia marine), potrebbe apportare un contributo costruttivo nell’attività di contrasto al traffico di migranti da parte della magistratura italiana nel senso di poter superare i problemi di giurisdizione (si desume dalla relazione del sostituto procuratore della DDA di Catania, R. Liguori, tenuta durante il convegno nazionale dal titolo “L’immigrazione che verrà” (Catania, 20-21 febbraio 2015), consultabile in QG, http://www.questionegiustizia.it, che ravvisa, peraltro, la necessità di un intervento legislativo teso all'”inserimento del delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel catalogo dei reati che danno comunque luogo alla giurisdizione italiana (…)”; sul punto, si rinvia al post di A. Annoni).
    Detto ‘stato dell’arte’ corrente, sembra dunque prevedere una decisa azione di contrasto alle attività dei trafficanti basata su una sorta di doppio binario.

  2. Giuseppe Licastro
    Agosto 2, 2016 at 2:03 pm — Rispondi

    Appare altresì opportuno riferire non solo della “progressione” delle fasi successive di EUNAVFOR MED – Operazione SOPHIA, ma anche e soprattutto di recenti novità che generano però perplessità da… “allontanare”. Ci si riferisce, più in particolare, all’attribuzione di una delle due (nuove) funzioni di supporto (naturalmente al mandato) appunto recentemente attribuite, ossia provvedere all’attività di formazione mirata della guardia costiera e della marina libica, ‘oggetto’ di riflessione del mio (piccolo) contributo che figura nel “Blog CROIE Cronache dal diritto internazionale” in http://croie.luiss.it/archives/705

Rispondi a Giuseppe Licastro Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *