La prudenza non è mai troppa? La Corte di giustizia e il divieto di donazione di sangue per gli omosessuali
Angelo Schillaci, Università di Roma «Sapienza»
Con la decisione in commento (29 aprile 2015, Léger c. Ministre des Affaires sociales, de la Santé et des Droits des femmes e Ètablissement français su sang, in causa C-528/13) la Corte di Giustizia dell’Unione europea, adita con rinvio pregiudiziale di interpretazione dal Tribunal Administratif di Strasburgo, si pronuncia sulla portata dell’all. III, punto 2.1, della Direttiva 2004/33/CE, che applica la Direttiva 2002/98/CE, relativa a taluni requisiti tecnici del sangue e degli emocomponenti, in relazione al rifiuto del Centro Ematologico Francese di accettare la donazione di sangue del sig. Geoffrey Léger, per avere questi avuto una relazione sessuale con un altro uomo.
Il punto 2.1 dell’All. III della Direttiva del 2004 enuncia, in particolare, i criteri sulla base dei quali stabilire un’esclusione permanente dalla possibilità di donare il sangue, inserendo tra le persone non ammesse coloro i quali, per i propri «comportamenti sessuali», possano essere esposti ad un «alto rischio» di contrarre gravi malattie infettive trasmissibili col sangue.
In attuazione della suddetta direttiva, il Ministro della Salute francese aveva adottato il decreto del 12 gennaio 2009 che, nel determinare i requisiti di ammissione ed esclusione dalla possibilità di donare il sangue, individuava una controindicazione permanente – con conseguente esclusione dalla donazione – per «l’uomo che abbia avuto rapporti sessuali con un altro uomo», indipendentemente da ogni considerazione circa la distanza temporale tra la data del comportamento sessuale e la data della donazione.
In applicazione di tale decreto, le autorità sanitarie francesi rifiutavano la richiesta di donare formulata dal Sig. Léger, che aveva dichiarato – contestualmente alla richiesta di accedere alla donazione di sangue – di aver avuto una relazione sessuale con un altro uomo. Il Sig. Léger impugnava tale rifiuto dinanzi al Tribunale amministrativo di Strasburgo che, a sua volta, sollevava rinvio pregiudiziale per ottenere dalla Corte di giustizia un chiarimento in relazione alla portata del punto 2.1 dell’All. III della Direttiva, con specifico riguardo alla compatibilità con la sua formulazione dell’individuazione di una «controindicazione permanente» alla donazione di sangue per gli uomini che hanno relazioni sessuali con altri uomini (d’ora in poi, MSM). La questione pregiudiziale veniva peraltro formulata in termini alternativi: il giudice, infatti, chiede di sapere – in prima battuta – se l’esclusione permanente appaia compatibile con la direttiva, oppure se la circostanza di aver avuto rapporti sessuali con un altro uomo «possa semplicemente costituire, in funzione delle circostanze proprie del caso concreto, un comportamento sessuale che espone al rischio di contrarre gravi malattie infettive trasmissibili col sangue e che giustifica un’esclusione temporanea dalla donazione di sangue per un determinato periodo di tempo dopo la cessazione del comportamento a rischio».
La decisione della Corte – che come vedremo non esclude, ma neanche afferma oltre ogni ragionevole dubbio, la compatibilità tra l’esclusione permanente dei MSM e la Direttiva – presenta molteplici profili di interesse, sia sul piano dei rapporti tra ordinamento dell’Unione e ordinamento nazionale – con riferimento specifico al margine di attuazione della Direttiva e al giudizio di proporzionalità della misura dell’esclusione permanente rispetto all’obiettivo di protezione della salute – sia sul piano sostanziale, vale a dire sul piano del rapporto tra l’esclusione permanente dei MSM e il divieto di discriminazione in ragione dell’orientamento sessuale, sancito dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e ribadito da una ormai corposa giurisprudenza della Corte di giustizia (sulla quale vedi ad es. D. Sardo, Percorsi della differenza. L’orientamento sessuale nella giurisprudenza della Corte di giustizia, in Omosessualità Eguaglianza Diritti. Desiderio e riconoscimento, a cura di A. Schillaci, Roma, Carocci, 2014, pp. 131-149).
Il quadro normativo
Prima di analizzare nel dettaglio l’iter argomentativo seguito dalla Corte è necessario ricostruire, sia pure in estrema sintesi, il contenuto della Direttiva 2004/33/CE, con riferimento specifico ai criteri di ammissione ed esclusione – temporanea o permanente – dalla possibilità di accedere alla donazione del sangue. Va rilevato, preliminarmente, che la Direttiva era stata adottata sulla base dell’art. 152, par. 4, lett. a) del Trattato CE (oggi art. 168, par. 4, lett. a) TFUE), a mente del quale, per contribuire all’obiettivo di garantire un «elevato livello di protezione della salute umana» (art. 168, par. 1, TFUE), l’Unione europea adotta «misure che fissino parametri elevati di qualità e sicurezza degli organi e sostanze di origine umana, del sangue e degli emoderivati», con la precisazione che «tali misure non ostano a che gli Stati membri mantengano o introducano misure protettive più rigorose». Come meglio vedremo, peraltro, la clausola di salvaguardia da ultimo ricordata ha svolto – nella sentenza in esame e nelle altre che, prima di essa, si sono occupate dell’interpretazione della direttiva (sentenze Humanplasma, del 2010 e Octapharma, del 2014) – un ruolo fondamentale, specie per ciò che riguarda la delimitazione del sindacato della Corte sulle misure interne di attuazione della direttiva.
L’Allegato III della Direttiva 2004/33/CE si occupa, come accennato, di stabilire i criteri di esclusione temporanea e definitiva dalla donazione di sangue. In particolare, la tabella di cui al punto 2.1, relativa ai criteri di esclusione permanente comprende, oltre a tutta una serie di patologie, un criterio relativo al comportamento sessuale, ritenuto ostativo in via permanente alla donazione laddove comporti un «alto rischio» di contrazione di malattie infettive trasmissibili attraverso il sangue. D’altro canto, le tabelle di cui al punto 2.2 elencano una serie di situazioni cliniche, patologiche e comportamentali tali da giustificare una esclusione temporanea dalla donazione: in particolare, la tabella di cui al punto 2.2.2 (Esposizione a rischio di contrarre un’infezione trasmissibile per trasfusione) comprende anche l’ipotesi del comportamento sessuale suscettibile di esporre al «rischio» di contrazione di malattie infettive trasmissibili attraverso il sangue, prevedendo, in questo caso, l’esclusione temporanea dalla donazione per un periodo, calcolato a partire dalla cessazione del comportamento a rischio, e «determinato dalla malattia in questione e dalla disponibilità di adeguati esami di controllo».
Come si vede, pertanto, la Direttiva opera una distinzione tra comportamenti sessuali «ad alto rischio» di infezione, che determinano l’esclusione permanente, e comportamenti sessuali a semplice «rischio» di infezione, che determinano l’esclusione per un periodo di tempo calcolato in relazione al caso concreto e al tipo di malattia.
Va infine precisato, sempre in via preliminare, che nella versione francese della Direttiva 2004/33/CE non si riscontra la distinzione tra «rischio» ed «alto rischio» presente nelle altre versioni linguistiche: la Corte, tuttavia, sulla scorta di una consolidata giurisprudenza, ricorda che «in caso di divergenza tra le varie versioni linguistiche di un testo del diritto dell’Unione, la disposizione di cui trattasi deve essere interpretata in funzione dell’economia generale e della finalità della normativa di cui fa parte» (punto 35) e che, di conseguenza, nonostante l’identico riferimento terminologico al «rischio», i criteri applicabili ai casi di esclusione temporanea ed esclusione permanente «devono essere logicamente diversi» giacché «l’esclusione permanente, avente carattere più restrittivo, presuppone l’esistenza di un rischio maggiore rispetto a quello relativo al divieto temporaneo» (par. 36).
Il decreto del 12 gennaio 2009 del Ministro della Salute francese, in attuazione dell’all. III della Direttiva, riprendeva la distinzione in esame, enunciando tutta una serie di ipotesi di controindicazione temporanea o permanente alla donazione, con riferimento specifico ai comportamenti sessuali suscettibili di esporre al rischio di infezione. Come risulta dalla tabella contenuta all’all. II del suddetto decreto – riportata nelle Conclusioni dell’Avvocato generale, al punto 10 – l’aver avuto rapporti sessuali con un altro uomo è sanzionata più gravemente rispetto a comportamenti, egualmente a rischio, quali la promiscuità sessuale, l’aver avuto rapporti non protetti con un nuovo partner negli ultimi quattro mesi o addirittura l’aver avuto un rapporto sessuale con un partner con una serologia positiva per HIV, HTLV, HCV, HBV: in tutti questi casi, è prevista una controindicazione temporanea, per i quattro mesi successivi alla cessazione del comportamento a rischio.
Decisione della Corte
La Corte si trova, pertanto, a dover operare un delicato bilanciamento tra protezione della salute – obiettivo dell’ordinamento europeo ai sensi dell’art. 168 TFUE – e sindacato sulla ragionevolezza e proporzionalità, con riguardo al medesimo obiettivo e nel rispetto dei diritti fondamentali sanciti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, dell’esclusione permanente degli MSM – dunque, degli uomini omosessuali e bisessuali – dalla donazione di sangue.
La decisione affidata alla Corte è resa, peraltro, ancor più complessa, dalla sussistenza, in materia, di un ampio margine di discrezionalità degli Stati membri nell’attuazione della Direttiva, alla luce dell’art. 168, par. 4, lett. a) che fa salvo, come ricordato, il più elevato livello di protezione della salute assicurato dalle misure interne di attuazione. Tale elemento, se non pregiudica – come ricordato dalla stessa Corte – il ricorso al parametro rappresentato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (d’ora in poi, CDFUE), ed in particolare dai suoi articoli 21, par. 1 (divieto di discriminazione in ragione, tra l’altro, dell’orientamento sessuale) e 52, par. 1 (criteri di giustificazione delle limitazioni dei diritti fondamentali), d’altro canto si riverbera inevitabilmente sull’estensione e sull’incisività del sindacato di ragionevolezza e proporzionalità della misura interna di attuazione condotto dalla Corte anche alla luce dei ricordati parametri.
In altre parole, la sussistenza di un ampio margine di discrezionalità dello Stato non impedisce, di regola, alla Corte di sindacare la proporzionalità e ragionevolezza della misura di attuazione alla luce di parametri ulteriori: ad esempio, nella citata sentenza Humanplasma (relativa all’interpretazione della Direttiva 2002/98/CE) la previsione – nel diritto austriaco – del divieto di importazione di emoderivati, nel caso in cui la donazione degli stessi avesse dato luogo, nello stato di origine, ad una qualunque forma di remunerazione economica, è giudicata dalla Corte contraria agli artt. 28 e 30 TCE (oggi artt. 34 e 36 TFUE), in tema di libera circolazione delle merci, e segnatamente di divieto di restrizioni quantitative all’importazione, e condizioni per la loro eventuale ragionevolezza e proporzionalità rispetto all’obiettivo, tra gli altri, di tutela della salute. Diversamente, nella richiamata sentenza Octapharma del 2014, anch’essa relativa alla Direttiva 2002/98/CE (ed al suo concorso con la Direttiva 2001/83/CE, in relazione alla disciplina delle diverse fasi di raccolta, controllo, lavorazione, conservazione e distribuzione del plasma), la Corte sembra riconoscere una maggiore rilevanza all’art. 168 TFUE, nella misura in cui ritiene non contrastante con le richiamate norme di diritto derivato dell’UE l’assoggettamento della raccolta e del controllo del plasma a condizioni più rigorose di quelle previste per i medicinali.
Nella decisione in commento, in particolare, il sindacato della Corte si articola in due passaggi successivi, nel quadro di una valutazione complessiva della compatibilità della controindicazione permanente alla donazione stabilita dal diritto francese per gli MSM con il diritto primario e derivato dell’UE: occorre in altre parole verificare «in quale misura la controindicazione permanente prevista dal diritto francese nel caso di un «uomo che abbia avuto rapporti sessuali con un altro uomo» risponda al requisito della sussistenza dell’«alto rischio» di cui al punto 2.1 dell’allegato III della direttiva 2004/33, rispettando al contempo i diritti fondamentali sanciti dall’ordinamento giuridico dell’Unione» (punto 40).
In primo luogo, pertanto, la Corte si interroga sulla possibilità di desumere dalla circostanza di aver avuto rapporti sessuali con un altro uomo la sussistenza di un «alto rischio» di contrarre malattie infettive trasmissibili con il sangue, in grado di giustificare la controindicazione permanente prevista dal diritto francese (punti 42 ss.). A tal fine, la Corte fa riferimento ai dati prodotti in giudizio dalla Commissione e dal Governo francese e coincidenti, per un verso, con le statistiche relative all’incidenza epidemiologica dei contagi da HIV nel periodo 2003/2008 elaborate dall’Institut de veille sanitaire français: in particolare, essi mostrerebbero un’incidenza elevata e costante dei nuovi contagi nell’ambito della popolazione MSM. Per altro verso, la Corte fa riferimento ad una relazione, datata 21 aprile 2004, del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie che, all’esito di uno studio comparato sui caratteri dell’incidenza epidemiologica dei contagi da HIV tra gli MSM in diversi Stati europei e non europei, rivela che la più elevata incidenza dei contagi tra gli MSM si avrebbe proprio in Francia. La Corte non ritiene, tuttavia, di poter trarre da tali dati conclusioni utili ai fini della definizione di «alto rischio» rilevante ai fini dell’interpretazione della Direttiva e delle disposizioni interne di attuazione, rinviando tale valutazione, in concreto, al giudice del rinvio, che dovrà valutare, in particolare, se tali dati siano «affidabili e, in caso affermativo, se essi siano tuttora rilevanti» (punto 44).
In secondo luogo, e per il caso di una valutazione positiva del giudice del rinvio in ordine alla sussistenza di un «alto rischio», la Corte si interroga sulla compatibilità della misura della controindicazione permanente con «i diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento giuridico dell’Unione» (punto 45). In particolare, una volta chiarito che la previsione della controindicazione permanente alla donazione per gli MSM integra una discriminazione in ragione dell’orientamento sessuale, la valutazione della Corte si appunta sul rispetto, da parte del Decreto del 12 gennaio 2009, degli art. 21 e 52, par. 1, della CDFUE, sotto il profilo della proporzionalità del trattamento differenziato rispetto all’obiettivo perseguito, vale a dire la protezione della salute ai sensi dell’art. 168, par. 4, lett. a), con particolare riguardo alla possibilità per lo Stato membro di adottare uno standard di protezione più elevato in sede di attuazione del diritto dell’Unione (punti 50-51).
Anche in questo caso, peraltro, la Corte si limita ad inquadrare il giudizio di proporzionalità in linea di principio, delegandone l’attuazione concreta al giudice del rinvio. In particolare, la Corte afferma anzitutto che, in casi come quello di specie, il principio di proporzionalità può dirsi rispettato «solo se un elevato livello di protezione della salute dei riceventi non possa essere garantito mediante tecniche efficaci di ricerca dell’HIV e meno restrittive rispetto al divieto permanente della donazione di sangue per tutta la categoria costituita dagli uomini che hanno avuto rapporti sessuali con persone del loro stesso sesso» (punto 59). Quanto alla possibilità di individuare misure meno restrittive ed egualmente idonee a garantire il perseguimento dell’obiettivo della protezione della salute, la Corte indica al giudice del rinvio gli ambiti sui quali orientare la propria valutazione, e segnatamente, le tecniche di controllo preventivo e successivo delle donazioni di sangue: il giudice del rinvio, in tale ottica, dovrà interrogarsi, in primo luogo, sull’esistenza di tecniche di controllo del sangue donato, specie in relazione all’eventuale presenza di tracce del contagio da HIV, come imposto dalla stessa Direttiva. Inoltre, in relazione alla questione – sollevata in giudizio dal Governo francese e dalla Commissione – del «periodo finestra» (vale a dire il periodo nel quale, a seguito del contatto con l’agente virale, i marcatori utilizzati nella verifica delle donazioni restano negativi pure in presenza dell’infezione), la Corte indica al giudice del rinvio di «verificare se i progressi della scienza o della tecnica sanitaria, considerando in particolare i costi di una sistematica messa in quarantena delle donazioni provenienti dagli uomini che abbiano avuto rapporti sessuali con persone del loro stesso sesso o quelli di una ricerca sistematica dell’HIV per tutte le donazioni di sangue, consentano di garantire un livello elevato di protezione della salute dei riceventi, senza che l’onere che ne consegue sia esorbitante rispetto agli obiettivi di protezione della salute perseguiti» (punto 64). Infine, con riferimento al controllo preventivo delle donazioni, vale a dire al giudizio dell’idoneità del donatore, la Corte suggerisce al giudice del rinvio di verificare se esista la possibilità di intervenire, ad esempio, sul questionario e sull’intervista personale del donatore, calibrandoli in modo tale da prevenire, ad esempio, i rischi collegati al cd. periodo finestra superando al tempo stesso la misura restrittiva della controindicazione permanente a favore della misura meno afflittiva della controindicazione temporanea. A tal fine, sottolinea la Corte sulla scorta delle Conclusioni dell’Avvocato generale, potrebbe essere sufficiente – ma, di nuovo, sarà il giudice del rinvio a doverlo valutare – costruire le domande in modo mirato, incentrandole ad esempio sul tempo trascorso dall’ultimo rapporto sessuale, ma anche «sul carattere stabile della relazione della persona interessata o sul carattere protetto dei rapporti sessuali» (punto 67): ciò consentirebbe, in particolare, di «valutare il livello di rischio che individualmente presenta ciascun donatore in ragione del proprio comportamento sessuale» (ivi).
Solo all’esito positivo di simili valutazioni, potrebbe considerarsi non rispettato il principio di proporzionalità e, di conseguenza, la controindicazione permanente finirebbe per integrare una irragionevole discriminazione in ragione dell’orientamento sessuale.
Delega del giudizio di proporzionalità e tenuta del principio di non discriminazione.
Nella decisione in esame, il profilo «processuale» dei rapporti tra ordinamento dell’Unione e ordinamento nazionale (in una materia nella quale allo Stato spetta un rilevante margine di autonomia nell’attuazione del diritto dell’UE, a mente dell’art. 168, par. 4, lett. a) del TFUE), si intreccia pertanto molto strettamente con il profilo sostanziale della tenuta della tutela antidiscriminatoria nei confronti delle persone omosessuali e bisessuali destinatarie della controindicazione permanente alla donazione.
In altre parole, la considerazione del margine di discrezionalità dello Stato – che si traduce, in buona sostanza, nella delega del giudizio di proporzionalità «in concreto» al giudice del rinvio, ferma restando la fissazione, da parte della Corte, dei principi e dei criteri che devono guidare tale valutazione «in astratto» – finisce inevitabilmente per incidere sull’estensione del giudizio antidiscriminatorio, escludendo, in definitiva, l’eventualità di una tutela diretta – a livello dell’UE – contro la discriminazione irragionevole in ragione dell’orientamento sessuale.
La rilevanza dell’obiettivo di protezione della salute – e la sua articolazione normativa attraverso la previsione di un ampio margine di discrezionalità a favore degli Stati, con la possibilità di individuare un livello di protezione più elevato – sembrerebbero così prevalere sulla tenuta della tutela antidiscriminatoria, ed in particolare di quella giurisprudenza della Corte di giustizia che, in ambiti non meno caratterizzati da un ampio margine di discrezionalità degli Stati aveva invece provveduto alla tutela diretta: si pensi, su tutti, ai casi Maruko, Römer e Hay, relativi al diritto alla pensione di reversibilità per i partner omosessuali superstiti, intervenuti in una materia – quella della disciplina dei rapporti familiari (sotto il profilo patrimoniale) – nei quali la discrezionalità statale è indiscussa.
Nel caso di specie, come si è visto, la Corte tenta tuttavia di tenere assieme il rispetto del margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati membri con l’istanza di protezione dei diritti fondamentali coinvolti, e dunque, per un verso il diritto alla salute e per altro verso il diritti degli MSM – omosessuali e non – a non essere oggetto di una discriminazione irragionevole e dunque contraria all’art. 21 della CDFUE, attraverso una complessa operazione di delega del giudizio di proporzionalità, in concreto, al giudice del rinvio. Si tratta di una operazione che – pur sollevando, nel caso di specie, talune perplessità in ordine alla tenuta del principio (europeo) di non discriminazione in ragione dell’orientamento sessuale – rivela, per altro verso, le virtualità dello strumento del rinvio pregiudiziale quale sede di articolazione di relazioni cooperative tra l’ordinamento dell’UE e gli ordinamenti nazionali. Peraltro, è abbastanza frequente, e talora doveroso – alla luce della necessaria autonomia del processo principale rispetto al giudizio della Corte – che la Corte riservi al giudice del rinvio la valutazione delle circostanze di fatto della specie e la loro rilevanza ai fini della qualificazione giuridica di essa alla luce del diritto dell’Unione, così come che la Corte lasci al giudice del rinvio la possibilità di interpretare il diritto interno alla luce del diritto dell’Unione. Viceversa è più raro, ma non infrequente – specie in fattispecie caratterizzate da complesse operazioni di ponderazione, che investono la tenuta del margine di autonomia degli stati e, al tempo stesso, il sindacato sulla ragionevolezza e proporzionalità della limitazione di un diritto fondamentale – che la Corte deleghi l’intera operazione di bilanciamento, o lo stesso giudizio di proporzionalità in concreto, al giudice del rinvio, fornendo ad esso, al contempo, i criteri alla luce dei quali orientare, in linea di principio, lo stesso giudizio: si pensi, ad esempio, alla decisione Deckmyn (3 settembre 2014, in c. C-201/13), in tema di rapporto tra diritto d’autore, eccezione per parodia e libertà di espressione, nella quale la Corte delega al giudice del rinvio la valutazione relativa al rispetto del giusto equilibrio tra interesse dell’autore e libertà di espressione dell’utilizzatore dell’immagine, nel caso di applicazione, in concreto, dell’eccezione per parodia. O ancora, si pensi a sentenze come SIA Garkalns (19 luglio 2012, in c. C-470/11), nella quale la Corte affida al giudice del rinvio la valutazione della proporzionalità, in concreto, di misure restrittive della libera prestazione dei servizi finalizzate alla prevenzione del gioco d’azzardo. Infine, con attinenza ancora maggiore alla protezione dei diritti fondamentali, si pensi alla sentenza Runevič-Vardyn (12 maggio 2011, in c. C-391/09), in tema di rapporto tra diritto al nome e libertà di circolazione, nella quale la Corte delega al giudice del rinvio la valutazione della proporzionalità del diniego di trascrizione del nome nel registro dello stato civile dello Stato membro di trasferimento, nei caratteri dello Stato membro di origine, affermando in particolare che il diritto dell’Unione non osta a tale diniego, sempre che – all’esito della valutazione concretamente condotta dal giudice del rinvio – esso «non provochi, per i cittadini dell’Unione interessati, seri inconvenienti di ordine amministrativo, professionale e privato» che persegua in modo proporzionato (sempre secondo la valutazione del giudice del rinvio) la «tutela degli interessi che la normativa nazionale mira a garantire» (punto 94).
È pertanto possibile domandarsi, in conclusione, in che termini la scelta della Corte di delegare il giudizio di proporzionalità al giudice del rinvio possa comportare un recupero indiretto dell’istanza antidiscriminatoria. Fondamentale, in questo senso, una riflessione sui criteri che la Corte fornisce al giudice del rinvio per impostare, «in astratto», il giudizio di proporzionalità che questi dovrà infine compiere, «in concreto». Come si è visto, si tratta di criteri assai penetranti, che hanno il merito – pur senza sostituirsi alla valutazione del giudice del rinvio – di mettere al centro la possibilità di superare troppo facili generalizzazioni, con la componente di stigma ad esse inevitabilmente sottesa, a favore di una considerazione dei comportamenti sessuali nella loro concretezza e, soprattutto, ad un ragionevole inquadramento di questi ultimi nell’ambito di uno stile di vita molto più ricco di sfaccettature rispetto alla semplificazione della promiscuità sessuale: molto importante, in questo senso, il punto 67, nel quale la Corte, come si è visto, suggerisce al giudice di valutare la possibilità di una migliore formulazione dei questionari e delle interviste – comprendente, ad esempio, il riferimento al carattere stabile della relazione affettiva nell’ambito della quale è intervenuto il comportamento sessuale, o al carattere protetto del rapporto – in grado di consentire al personale medico una più completa valutazione dello stile di vita della persona che chiede di effettuare la donazione e dunque, in definitiva, il riconoscimento e la protezione della sua stessa dignità.
Nella fattispecie oggetto del sindacato della Corte, dunque, non viene in rilievo soltanto il «diritto» di donare il sangue per i maschi omosessuali o bisessuali – se di «diritto» si può a stretto rigore parlare, collocandosi la donazione piuttosto nell’ambito dei doveri di solidarietà – ma anche il più corretto approccio allo stile di vita omosessuale e i rischi di un intreccio pericoloso tra generalizzazione, stigma e discriminazione.
Da un lato, pertanto, è lecito domandarsi – con preoccupazione – quali possano essere gli effetti della sentenza in esame sulla tenuta della giurisprudenza europea in tema di protezione antidiscriminatoria in ragione dell’orientamento sessuale; d’altro canto, l’attenzione mostrata dalla Corte di giustizia verso una considerazione più comprensiva dello stile di vita omosessuale (e bisessuale) sembra delineare un percorso complesso verso la parità di trattamento, in un contesto nel quale è lo stesso principio di precauzione – unitamente al delicato bilanciamento tra interesse generale alla protezione della salute e obbligo di protezione della dignità del singolo – ad imporre una valutazione differenziata e concreta dei comportamenti, evitando ogni forma di generalizzazione.
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