Why always me? (says the European Union). Il referendum svizzero sull’immigrazione, le relazioni con l’UE e le ricadute sull’economia
Sono passati solo pochi giorni dal referendum sull’immigrazione che ha coinvolto la Svizzera, ed il dibattito è passato in secondo piano soltanto per la cronaca politica. Il problema che ha dato fuoco alle polveri è quello della regolamentazione dei flussi migratori all’interno del piccolo stato alpino. Un sistema che fatica a bilanciare fra l’esigenza di manodopera qualificata e l’arrivo, sicuramente in proporzioni superiori alle aspettative, di lavoratori a basso costo dagli stati limitrofi (Francia e soprattutto Italia).
A questo fragile equilibrio si deve aggiungere un ulteriore fattore: l’integrazione della Svizzera all’interno dello spazio economico e giuridico europeo è avvenuta per la quasi totalità con lo strumento dei negoziati bilaterali, a causa del rifiuto di aderire agli ordinamenti sovranazionali che sono centrali nello scacchiere politico ed economico del vecchio continente. Questo metodo di gestione delle relazioni internazionali ha prodotto benefici per lo sviluppo dell’economia del paese, che è diventato il luogo privilegiato di attrazione dei capitali stranieri, ma ha avuto l’effetto non secondario di escluderlo dai luoghi dove si decidono le politiche sociali e di immigrazione dell’Europa. I rapporti bilaterali fra la Svizzera e l’Unione Europea hanno disposto, oltre alla disciplina sulla circolazione delle persone, l’applicazione delle regole sul mercato interno (eccezion fatta per quelle sull’unione doganale) e l’adesione all’accordo di Schengen. Questi sono solo alcuni esempi degli accordi intercorsi fra i due ordinamenti, fra i quali vi sono anche due pacchetti di misure (i Bilaterali I e i Bilaterali II, siglati nel 1999 e nel 2004) che stabiliscono regole comuni sugli ostacoli al commercio, sulla normativa sugli appalti pubblici, l’agricoltura, la tassazione del risparmio privato, le frodi, la partecipazione all’Agenzia Europea dell’Ambiente e quella agli importanti programmi quadro sulla ricerca scientifica. La figura appena tratteggiata ha originato il paradosso per cui, tramite questi strumenti bilaterali, alla Svizzera si applica una percentuale maggiore di norme europee rispetto a quella che si applica al Regno Unito. Non si può dunque certo dire che questa strategia li abbia portati ad un isolamento improduttivo. Tuttavia, ogni volta che il governo federale ha tentato di includere la Svizzera all’interno di un processo sovranazionale, la risposta del popolo svizzero è sempre stata negativa. L’ultimo esempio importante è stato l’adesione alla European Economic Area, spazio di integrazione economica di cui fanno parte oltre agli stati dell’Unione anche Norvegia, Lichtenstein e Islanda. La Svizzera ha rifiutato l’adesione proposta dal proprio governo sulla base di un referendum popolare del 6 Dicembre 1992 che si schierava contro la partecipazione all’EEA.
Il dovere della confederazione svizzera di sottoporre a referendum obbligatorio la sua partecipazione alle organizzazioni sovranazionali rischia dunque di essere un handicap considerevole. E’ oltretutto un obbligo costituzionale, perché è proprio l’art. 140 della costituzione federale svizzera che impone al governo di sottoporre a referendum l’adesione alle organizzazioni internazionali. Dunque alla Svizzera si applica la normativa europea in materia di libera circolazione delle persone, delle merci, eccezion fatta per l’unione doganale, sugli appalti pubblici, sull’agricoltura e sulla tassazione del risparmio privato (ambito in cui però vi sono anche bilaterali con le singole nazioni che fanno parte dell’Unione). Ma la Svizzera non può partecipare alla stesura delle regole che le vengono applicate, perché non prende parte all’EEA e neppure all’Unione Europea (e fino al 2002 era persino fuori dalle Nazioni Unite, organizzazione di cui ospita gran parte delle istituzioni).
Alla luce di questa analisi, si può leggere il referendum sulla rinegoziazione degli accordi bilaterali sulla circolazione delle persone come un tentativo di mandare un segnale di rottura nei confronti di politiche che fanno paura. Il timore infatti che attraversa il popolo svizzero è che l’immigrazione esterna, ma soprattutto interna, all’Unione Europea possa mettersi in competizione con quella nazionale. Gli svizzeri temono la manodopera italiana a basso costo nello stesso modo in cui gli italiani e gli inglesi temono quella rumena ed i francesi quella ungherese.
In realtà, i timori che hanno generato questo referendum non sembrano essere giustificati dalla concretezza dei fatti: l’Unione Europea ha stabilito un preciso sistema di controlli dell’immigrazione sia all’esterno che all’interno del suo territorio. Frontex, l’agenzia europea che controlla le frontiere dell’Unione, ha recentemente potenziato il suo impegno verso il confine orientale (la prima fonte di immigrazione all’interno dell’Unione) e verso quello meridionale, attraverso lo stabilimento dello European Patrols Network. La direttiva 2004/38/CE stabilisce invece le regole in fatto di diritti di circolazione dei cittadini europei all’interno dell’Unione, che per effetto degli accordi bilaterali citati si applicano anche alla Svizzera. Una disciplina simile è offerta dalla direttiva 2003/109/CE che stabilisce la regolamentazione del diritto di soggiorno di lungo periodo dei cittadini di paesi terzi all’interno dell’Unione. Il principio fondamentale è che il cittadino di un altro paese non può rappresentare un peso (burden) per il sistema di assistenza sociale del paese ospite. Da qui discendono le tre regole d’oro che disciplinano la permanenza dei cittadini europei nel territorio degli altri stati membri: il possesso di un documento di identità in corso di validità, un’assicurazione medica e risorse economiche sufficienti alla propria sussistenza (o un rapporto di lavoro). E la giurisprudenza della Corte di Giustizia si è spesa molto negli ultimi anni per chiarire come queste regole debbano essere interpretate in modo rigoroso. Vi sono state sicuramente eccezioni, come le sentenze Chen e Zambrano, ma non si deve dimenticare che esse erano riferite a casi particolari quali quelli di neonati o bambini in tenera età, che non potevano essere separati dai loro famigliari, fossero anche essi cittadini di paesi terzi senza sufficienti risorse economiche o non in possesso di un permesso di soggiorno.
Certo, si potrebbe argomentare che le Corti sono volubili, e cambiano spesso opinione. Ma vi è ormai da qualche anno una tendenza tenace della Corte di Giustizia all’interpretazione rigorosa delle disposizioni in materia di cittadinanza. A coloro i quali non fossero bastate le già famose McCarthy e Dereci, si sono aggiunte recentemente due ulteriori sentenze in materia di diritti di residenza e circolazione dei cittadini europei che confermano l’interpretazione attenta della Corte. La prima è Reyes, nella quale la Corte ha ricordato come il diritto al ricongiungimento familiare dei cittadini europei sia sottoposto ad un controllo degli stati membri sulla persistenza dei requisiti di dipendenza economica in capo ai familiari a carico che si vogliono fare entrare nel territorio del paese ospitante. Nella seconda, Onuekwere, la Corte ha chiarito l’interpretazione della precedente sentenza Tsakouridis, stabilendo che i periodi di detenzione cui è sottoposto il familiare del cittadino europeo non possono essere presi in considerazione per il rilascio del permesso di soggiorno permanente. In entrambi i casi la Corte avrebbe potuto ammantare il proprio ragionamento del principio generale di non discriminazione e del rispetto dei diritti fondamentali, senza dare indicazioni precise alle Corti nazionali. Ha invece deciso di discutere nel dettaglio il contenuto e l’interpretazione della norma comunitaria, proprio per ridurre al minimo i rischi di fraintendimenti. Chiaramente la Corte di Giustizia non ha alcuna giurisdizione sulla Svizzera, ma è innegabile che le sue sentenze siano un indicatore preciso dell’atteggiamento perseguito dall’Unione sui presupposti alla libera circolazione delle persone.
Se dunque il timore che vivono i cittadini elvetici è quello di un controllo lasco sui flussi migratori, che si traduce inevitabilmente in un affaticamento del mercato del lavoro e sull’assistenza sociale, è bene specificare che i lavoratori europei che hanno come destinazione finale la Svizzera hanno tutte le carte in regola per non essere un peso sul welfare della confederazione. Anzi, sono spesso manodopera altamente qualificata, ed ostacolarla può portare ad un impatto negativo sul quadro generale dell’economia. Gli esperti del Credit Suisse, una delle più importanti realtà bancarie svizzere, hanno già fatto sapere che il cambiamento delle norme sulla circolazione delle persone modificherebbe al ribasso il prodotto interno lordo della confederazione dello 0,3% per anno, riducendo dunque di quasi il 20% la percentuale di crescita dell’economia svizzera.
La questione però non è soltanto economica: probabilmente lo spettro della crisi (ben più concreta nel resto dell’Europa) aumenta in Svizzera la paura di ciò che è straniero ed ignoto. E per quanto questo atteggiamento possa essere comprensibile, è ormai fuori tempo massimo (e forse anche fuori dalla realtà) una soluzione che preveda l’irrigidimento dei confini interni.
Anche questa volta, dunque, le regole stabilite dall’Unione Europea vengono accolte dall’opinione pubblica di un paese europeo come un rischio, piuttosto che come un’opportunità. L’analisi dei fatti, invece, dimostra il contrario. Dunque, l’Unione avrebbe davvero ragione di domandarsi: perché tocca sempre a me fare un passo indietro?
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