diritto dell'Unione europea

“Chi non lavora…”: Alcune considerazioni su cittadinanza europea, solidarietà e accesso ai benefici sociali a margine della sentenza Dano

Francesco Costamagna è ricercatore di diritto dell’Unione europea presso l’Università degli Studi di Torino

Dopo quello dell’idraulico polacco, un altro spettro si aggira per l’Europa: quello dei ‘turisti sociali’. Si tratta di cittadini europei non economicamente attivi che, avvalendosi del loro diritto alla libera circolazione e di soggiorno, si spostano in un altro Stato membro con il solo obiettivo di beneficiare dell’aiuto sociale da questo offerto. Alcuni Stati membri, soprattutto quelli dotati di sistemi di welfare più generosi, ritengono che tale fenomeno possa costituire un rischio per la sostenibilità finanziaria di sistemi di protezione sociale già duramente provati dalla crisi (sul punto vd. le considerazioni di Cecilia Sanna) e debba essere contrastato attraverso un irrigidimento delle norme UE in materia di libera circolazione dei cittadini europei. In realtà, i dati forniti da alcuni studi recenti (qui e qui) non sembrerebbero giustificare questo tipo di timori, mostrando come il fenomeno del cd. turismo sociale abbia, nei fatti, un impatto molto ridotto sulle finanze degli Stati ‘riceventi’. È sì vero che, per ammissione dei loro stessi autori, questi studi offrono spesso una fotografia parziale del fenomeno, prendendo in considerazione l’impatto sul sistema nazionale nel suo complesso e trascurando, ad esempio, che la situazione potrebbe essere diversa, e meno sostenibile, a livello locale. A questo si aggiunga che il turismo sociale è ormai divenuto, spesso in maniera impropria, un aspetto del più ampio dibattito/scontro sull’immigrazione e molte delle posizioni bellicose assunte da alcuni Stati costituiscono il disperato tentativo da parte dei governanti di fermare l’emorragia di voti verso partiti nazionalisti e xenofobi che fanno della retorica anti-immigrazione il loro segno distintivo.

Al di là di tali aspetti contingenti, non può negarsi come la questione dell’accesso ai benefici sociali da parte di cittadini europei non economicamente attivi tocchi alcuni nodi cruciali del processo di integrazione europea, mettendo a nudo tensioni e fratture che segnano il suo percorso attuale. In particolare, il fenomeno del turismo sociale può considerarsi espressione della tensione tra, da un lato, la logica di apertura che caratterizza il processo di integrazione europea e, in particolare, la rimozione degli ostacoli alla libera circolazione e, dall’altro, la logica di chiusura su cui si fondano i sistemi nazionali di welfare, i quali presuppongono l’individuazione di una “comunità solidale” al cui interno è possibile l’istituzione di meccanismi di redistribuzione per far fronte a rischi e necessità comuni (M. Ferrera, The Boundaries of Welfare. European Integration and the New Spatial Politics of Social Protection, OUP, 2005).

In questo contesto assume particolare interesse una recente sentenza (Dano, C-333/13) pronunciata dalla Corte di Giustizia dell’UE (‘Corte’) relativa ad una vicenda che può considerarsi un caso paradigmatico di turismo sociale. Come puntigliosamente sottolineato dalla Corte, la protagonista della vicenda, la signora Dano, è una cittadina rumena che “non aveva mai esercitato alcuna attività lavorativa né in Germania, né in Romania”, né aveva mai cercato un impiego (punto 39 della sentenza). Stabilitasi a Lipsia con il figlio Florin, la signora Dano – la quale si era vista riconoscere prestazioni per figli a carico (184 euro mensili) e, sempre per il figlio, un anticipo sulla pensione alimentare versato dal servizio di assistenza sociale alla gioventù e all’infanzia della città di Lipsia (133 euro mensili) – aveva deciso di richiedere per sé prestazioni assicurative di base previste dalla legislazione tedesca al fine di assicurare una vita dignitosa a persone indigenti aventi la residenza abituale in Germania. La richiesta, presentata prima nel 2011 e poi nel 2012, era stata respinta in entrambe le occasioni dal Jobcenter Leipzig, non avendo la signora Dano un diritto di soggiorno in Germania. La signora Dano, insieme con il figlio, aveva proposto ricorso contro la decisione del 2012 e il giudice adito, il Sozialgericht Leipzig, aveva ritenuto necessario rivolgersi alla Corte, formulando quattro quesiti pregiudiziali.

Senza voler analizzare in dettaglio ciascuno di essi, in questo breve contributo ci si concentrerà su una delle questioni sollevate dal giudice a quo, vale a dire se il diritto dell’UE in materia di libera circolazione e soggiorno dei cittadini europei consenta agli Stati membri di escludere un cittadino di un altro Paese membro dal godimento di talune prestazioni sociali aventi carattere non contributivo che pure sono garantite a cittadini dello Stato ospite che si trovino nelle medesime condizioni. Tale esclusione, infatti, sembrerebbe in contrasto con il principio di non discriminazione sancito in termini generali agli articoli 18 e 20 TFUE e disciplinato in termini più specifici all’articolo 24 della Direttiva 2004/38/CE (‘Direttiva’).

La risposta offerta dalla Corte sul punto si caratterizza per l’estremo rigore con cui sono state interpretate le norme che fissano i limiti del diritto al soggiorno per i cittadini europei (come giustamente osservato da Francesca Capotorti). La sentenza, pur non esimendosi dal ribadire che la cittadinanza è destinata ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri e che questo garantisce loro il diritto a non essere discriminati, rileva che tale diritto non sia assoluto, ma debba sottostare alle condizioni ai limiti previsti dai Trattati e dal diritto derivato. In particolare, l’articolo 24 delle Direttiva stabilisce che il divieto di discriminazione operi solo nei confronti dei cittadini che abbiano diritto a soggiornare nel territorio dello Stato ospitante ai sensi della Direttiva stessa. Diritto a soggiornare che, una volta passati i primi tre mesi, sussiste solo per i lavoratori o, nel caso di persone non economicamente attive, per coloro che dispongano, inter alia, “di risorse economiche sufficienti”, così da non diventare “un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il periodo di soggiorno” (articolo 7 della Direttiva). Pertanto, conclude la Corte, riconoscere agli Stati la possibilità di escludere dalla concessione di prestazioni sociali quei cittadini che, non disponendo di risorse proprie sufficienti, non abbiano diritto a soggiornare sul loro territorio costituisce “conseguenza inevitabile della Direttiva 2004/38”. (punto 77).

Ciò che merita di essere sottolineato è come in questo caso la Corte consideri il criterio delle “risorse sufficienti” come avente carattere non solo necessario, ma anche sufficiente ai fini del riconoscimento di un diritto di soggiorno a favore di soggetti economicamente inattivi. Infatti, secondo la Corte, le autorità nazionali sono semplicemente tenute a valutare se la signora Dano soddisfi tale requisito, attraverso “un esame concreto della situazione economica [dell’] interessato”, e non anche determinare se l’aiuto economico richiesto per far fronte a tale situazione costituisca un onere per il loro sistema di assistenza sociale. Tale impostazione contrasta con quanto la Corte aveva avuto modo di affermare in precedenti pronunce, quale, da ultimo, la sentenza Brey del settembre 2013. In quest’ultimo caso, i giudici di Lussemburgo si erano premurati di sottolineare che la richiesta di un aiuto sociale rappresenta solo “un indizio atto a dimostrare che [il cittadino di un altro Stato membro] non dispone di risorse economicamente sufficienti a evitare di divenire un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale” dello Stato ospitante (punto 63) che non esime le autorità nazionali dal procedere ad “una valutazione globale dell’onere che […] la concessione di tale prestazione rappresenterebbe” per detto sistema. Questo perché la Direttiva 2004/38 “non esclude affatto, nello Stato membro ospitante, la possibilità di concedere prestazioni sociali ai cittadini di altri Stati membri” (punto 65) e, anzi, in alcuni casi addirittura lo presuppone (punti 66 ss.), posto che essa “ammette […] una certa solidarietà finanziaria dai cittadini dello Stato membro ospitante verso quelli degli altri Stati membri” (punto 72). Affermazione già formulata nella sentenza Grzelczyk, punto 44). È chiaro che la linea interpretativa seguita nella sentenza Dano esclude in radice tale possibilità, facendo del requisito delle “risorse sufficienti” un limite invalicabile alla costruzione di una (seppur limitata) ‘solidarietà sovranazionale’, almeno per ciò che riguarda i soggetti che si trovino nelle condizioni della signora Dano.

Da più parti (qui e qui) si è messo in luce come il rigore che caratterizza la sentenza Dano abbia una forte valenza politica, rappresentando il tentativo della Corte di rispondere alle preoccupazioni espresse da alcuni Stati membri per ciò che riguarda l’accesso ai loro sistemi di welfare da parte di cittadini di altri Stati membri economicamente inattivi. In effetti, la Corte sembrerebbe voler dimostrare come il diritto dell’UE consenta già un intervento efficace contro il turismo sociale, senza che si renda necessaria alcuna modifica del quadro normativo di riferimento (vd, in particolare, punto 78).

Al di là di tale aspetto, è possibile affermare che la sentenza segni una svolta in senso rigorista destinata a travolgere le (pur modeste) aperture alla costruzione di una qualche forma di solidarietà sovranazionale compiute in passato? Si ritiene che la risposta al quesito debba essere negativa. L’approccio adottato nella sentenza in esame deve, infatti, essere riferito alla particolare situazione in cui si trova la signora Dano – la quale richiede un aiuto sociale nonostante sia potenzialmente abile al lavoro, ma non abbia mai cercato occupazione e dimostri un basso livello di integrazione nella società del Paese ospitante – e non pare, quindi, automaticamente estendibile ad altre categorie di cittadini non economicamente attivi, quali studenti o soggetti in cerca di lavoro (ambiti nei quali, per altro, la Corte ha già provveduto a ridimensionare alcune delle aperture fatte in passato: vd., per ciò che riguarda gli studenti, la sentenza Förster). A volerne dare un lettura ottimistica, ma al momento plausibile, la sentenza in esame si limita a definire l’ambito soggettivo di applicazione di “quella certa solidarietà finanziaria” di cui dovrebbero beneficiare anche i cittadini economicamente inattivi, escludendo coloro che neppure potenzialmente siano in grado di contribuire al finanziamento del sistema di protezione sociale del Paese ospitante, ma lasciando intatta la possibilità che essa operi per altre categorie. Una soluzione che, per quanto non certo soddisfacente dal punto di vista della creazione di una vera cittadinanza sociale europea, appare in linea con le finalità di un quadro normativo che, nonostante gli indubbi passi avanti che sono stati compiuti, tradisce ancora in maniera evidente le sue origini ‘mercantili’.

In termini più generali, resta l’intrinseca inadeguatezza del modello dell’integrazione negativa alla creazione di un autentico spazio solidale sovranazionale. Tale passaggio, infatti, non può avvenire semplicemente attraverso il progressivo smantellamento dei limiti posti dagli Stati all’accesso da parte di cittadini non economicamente attivi di altri Paesi membri alle prestazioni sociali, ma implica la creazione di meccanismi redistributivi che operino su scala sovranazionale. Compito questo ultimo che, evidentemente, non spetta alla Corte, presupponendo il conferimento di nuove competenze e di un’accresciuta capacità di spesa all’Unione o, quanto meno, l’istituzione di strumenti di compensazione interstatali. Le proposte al riguardo non mancano, ma al momento non sembra vi siano le condizioni politiche per l’adozione di scelte che, per quanto certamente molto impegnative, risultano sempre più necessarie per consentire al processo di integrazione europea di riconquistare un po’ della legittimità perduta.

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