diritto dell'Unione europea

LuxLeaks: fine del “coordinamento fiscale” o (ri)avvio dell’armonizzazione?

Giuseppe Melis è professore ordinario di diritto tributario presso la LUISS Guido Carli di Roma

La recente rivelazione dei c.d. rulings fiscali “confidenziali” stipulati dal Lussemburgo con numerose società multinazionali, finalizzati a definire anticipatamente il regime fiscale loro applicabile con effetti vincolanti per l’amministrazione finanziaria, ha provocato grande indignazione nell’opinione pubblica e persino posto in dubbio l’opportunità che la Commissione continui ad essere presieduta da J.C. Juncker.

Sotto il profilo giuridico, la vicenda ha comportato, come noto, l’avvio di una indagine formale da parte della Commissione per appurare se questi rulings siano stati o meno “selettivi”, secondo lo schema proprio della disciplina sugli aiuti di Stato; indagine estesa anche al sistema dei rulings olandese ed irlandese.

Tuttavia, nulla di nuovo: una prospettiva di “contrasto” ben nota ad una pratica pure ben nota (prima nella sua esistenza e adesso, sia pure limitatamente ai rulings stipulati in Lussemburgo con l’assistenza di Price Waterhouse Coopers, anche nella sua consistenza).

La non desiderabilità (se non l’illegittimità tout court) dei rulings non trasparenti è invero affermata da almeno un ventennio.

Risale infatti alla Comunicazione della Commissione al Consiglio “Verso il coordinamento fiscale nell’Unione Europea: un pacchetto di misure volte a contrastare la concorrenza fiscale dannosa” (COM [97] 495 del 1° ottobre 1997), l’introduzione, sotto il “cappello” del “coordinamento fiscale”, della distinzione tra una concorrenza fiscale “legittima” ed una “dannosa” (harmful tax competition), per impedire agli Stati membri di adottare o mantenere misure fiscali che siano tali da falsare in modo “sleale” il gioco della concorrenza, attraendo in modo non trasparente capitali ed imprese di altri Stati membri in pregiudizio dei relativi interessi finanziari.

Da un lato, la Comunicazione si rivolgeva agli investimenti di origine finanziaria, rispetto ai quali proponeva l’introduzione di un’aliquota di ritenuta alla fonte non inferiore al 20% sugli interessi corrisposti a non residenti o, in alternativa, di un sistema di scambio di informazioni diretto allo Stato di residenza del percettore. Dall’altro, guardava agli investimenti di origine produttiva, con l’introduzione di un Code of conduct per imporre agli Stati di astenersi dall’adottare, ovvero di eliminare, tutte le misure fiscali, di carattere non generalizzato (ergo, selettive), in grado di incidere sensibilmente sulla localizzazione delle attività produttive all’interno dell’Unione europea.

L’importanza di questo nuovo approccio sta nel fatto che l’intervento europeo in materia fiscale non viene più visto come rivolto al solo obiettivo di eliminare gli ostacoli al raggiungimento del mercato interno, ma anche a quello di tutelare gli interessi finanziari dei singoli Stati membri. L’integrazione in materia di imposizione diretta non rappresenta, dunque, solo più un elemento (negativo) di perdita di sovranità fiscale per gli Stati membri, bensì, in un certo senso, anche uno strumento (positivo) per preservarla.

L’attenzione si rivolge così alle politiche tributarie sleali e dannose, finalizzate ad attrarre investimenti produttivi e finanziari dei soggetti non residenti che, indebolendo le finanze degli Stati membri con pressione fiscale più elevata, ne condizionano la politica economica e sociale e, in definitiva, le scelte politiche sui livelli di welfare ritenuti più soddisfacenti.

Il progetto in materia di fiscalità del risparmio si è tradotto nella c.d. “Direttiva risparmio” (2003/48/CE). Da allora, tuttavia, il contrasto del trasferimento illegale di capitali all’estero ha conosciuto uno straordinario sviluppo, al punto da comportare ormai la rinunzia all’anonimato anche da parte di quei Paesi europei (Austria, Belgio e Lussemburgo) cui, nell’ambito della direttiva medesima, era stata concessa la possibilità di “sostituire” la comunicazione del nominativo del percettore dei redditi finanziari con una ritenuta alla fonte da versare allo Stato di residenza e così preservare l’anonimato; rinunzia che si inquadra nella prospettiva di avviare, già dal 2016, un meccanismo di scambio automatico di informazioni tra Stati e così garantire la piena disclosure sui titolari dei capitali esteri.

Quanto al Codice di condotta, la soppressione dei regimi ritenuti nocivi alla concorrenza dell’Unione – tra i quali, appunto, i rulings non trasparenti – è passata talvolta, ove ne ricorrevano i presupposti, attraverso le disposizioni del Trattato in materia di aiuti di Stato, altre volte ha formato oggetto di eliminazione spontanea, ed altre volte ancora, infine, di negoziazione con le istituzioni europee in vista dell’ottenimento di una proroga al termine per la loro eliminazione.

Perché, allora, dopo quasi venti anni, ci troviamo nuovamente di fronte a tali fenomeni?

La realtà è che mentre il contrasto ai regimi di attrazione degli investimenti finanziari è sensibilmente avanzato, quello ai regimi di attrazione degli investimenti produttivi – almeno a livello europeo – si è sostanzialmente arrestato. E’ ben vero che a livello internazionale il contrasto ai meccanismi di erosione ed elusione fiscale si sta adesso concretizzando con il c.d. “BEPS” (Base Erosion and Profit Shifting), ma a livello europeo si è rimasti fermi al concetto di “concorrenza fiscale dannosa” e – ove il soft law non conduca alla spontanea soppressione di tali regimi – all’approccio in termini di aiuti di Stato. Con tutti i limiti che ne conseguono, tra cui appunto la “selettività” della misura – la cui esistenza i governi indagati ovviamente negano ostinatamente nel caso dei rulings da essi concessi – e che, comunque, legittima la previsione di aliquote fiscali anche modeste, purché generalizzate.

C’è allora da chiedersi se il “coordinamento fiscale” abbia sostanzialmente esaurito (se non fallito) la sua “doppia” missione, consistente, da un lato, nel costituire una valida alternativa al meccanismo di armonizzazione – arenatosi nel vincolo della decisione all’unanimità – e, dall’altro, nel tutelare gli interessi finanziari degli Stati membri e con ciò consentire loro di mantenere livelli adeguati di welfare.

In effetti, le prime dichiarazioni della Commissione all’indomani della rivelazione dei rulings sono state proprio nel senso del riavvio del percorso di armonizzazione della tassazione delle società.

Ma i dubbi sulla reale perseguibilità di questa strada sono davvero molti; basta pensare che l’esigenza di un’armonizzazione nel settore delle imposte dirette, già avvertita nel lontano 1962 in seno al c.d. “Comitato Neumark”, si è concretizzata negli anni in poche iniziative, di cui soltanto alcune si sono concluse in modo positivo e peraltro con una forte discontinuità temporale.

Non hanno tra l’altro trovato attuazione, per quanto di nostro interesse, né la proposta di direttiva del 1975 riguardante l’armonizzazione dei sistemi di imposizione societaria, dei regimi di ritenuta alla fonte sui dividendi, dei sistemi di integrazione della tassazione tra società ed azionisti e delle aliquote (in particolare, mediante la previsione di una relativa “forchetta”), né quella relativa all’armonizzazione delle regole per la determinazione del reddito d’impresa, né quella sull’armonizzazione del trattamento delle perdite nazionali.

Quanto sopra è, dunque, alla base dell’esistenza, allo stato attuale, di sensibili differenze in ordine alla determinazione della base imponibile del reddito delle persone fisiche e delle imprese, nei sistemi di tassazione di società ed azionisti e nelle aliquote societarie, che finiscono per riflettersi sulle condizioni concorrenziali e le relative scelte di localizzazione delle imprese operanti all’interno dell’Unione.

In questa prospettiva, merita sicuramente di essere portata a compimento l’azione intrapresa dalla Commissione Europea sin dal 2001 (Comunicazione COM(2001)582), in vista dell’adozione di un sistema di tassazione “unitario” delle imprese articolate su più Stati membri, che ha condotto ad una Proposta di direttiva presentata il 16 marzo 2011. Si tratta di una proposta non scevra da problematiche soprattutto in relazione al formulary apportionment, ma anche di una scelta non ulteriormente differibile, sia per migliorare la competitività delle aziende europee, sia per ridurre i sempre più frequenti fenomeni di delocalizzazione all’interno della stessa Unione europea. Poiché, tuttavia, questi ultimi sono ad oggi appannaggio di alcuni Stati europei, pare legittimo ipotizzare che detti Stati difficilmente presteranno il consenso necessario a raggiungere l’unanimità. Il problema, pertanto, rischia di rimanere tale.

Per legittimare un intervento più incisivo in materia fiscale mi pare allora necessario ripartire dalla relazione esistente tra la sottrazione agli Stati di entrate fiscali determinata dai fenomeni di evasione ed elusione fiscale internazionale, agevolati dai processi di globalizzazione, e la stessa possibilità di garantire sistemi di welfare adeguati, che è stata alla base della “rivoluzione” nell’approccio alle politiche fiscali adottate dagli Stati membri sopra evidenziata, posto che la medesima relazione inizia ormai ad essere ben chiara anche alla Comunità internazionale.

E’ in questa prospettiva che si inquadra infatti il documento dell’International Bar Association dell’ottobre 2013 denominato “Tax abuses, Poverty and Human Rights, che rinviene il fondamento della lotta ai fenomeni elusivi ed evasivi internazionali nell’obbligo – contenuto nell’art. 2(1) del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali – che gli Stati hanno assunto di destinare alla progressiva, ma piena, realizzazione dei diritti umani previsti dalla medesima Convenzione, le massime risorse disponibili («to the maximum of its avalaible resources»).

Si tratta di una posizione che trova peraltro dei precedenti, anche qui recentissimi, in quelle assunte, in tema di evasione fiscale e diritti umani, da associazioni e gruppi di pressione di carattere internazionale quali il Business and Human Rights Resource Centre e il Tax Justice Network.

Il predetto art. 2(1) non coinvolge solo gli Stati, ma anche il settore privato e le società in particolare, atteso l’impatto che le loro azioni possono avere sul godimento dei diritti economici, sociali e culturali. Il Comitato delle NU sui diritti economici, sociali e culturali ha individuato varie ipotesi relative al ruolo delle corporations e/o del settore privato in generale, di dimensione sia nazionale che sovranazionale, quale il lavoro dei minori, le condizioni di lavoro insalubri, gli effetti della produzione sul diritto alla salute o i comportamenti corruttivi. In questo senso, pertanto, nulla vieta di estendere questa line of reasoning anche a quei comportamenti evasivi ed elusivi riferibili ai soggetti privati e al ruolo che gli Stati, sotto la cui giurisdizione ricadono, hanno nel prevenire siffatti comportamenti.

Si tratta di un profilo del più generale tema della Corporate Social Responsibility (CSR), affrontato sia dalle NU (cfr. i noti UN Guiding Principles on Business and Human Rights), sia dall’OCSE (cfr. le Guidelines for Multinational Enterprises). In quest’ultimo documento viene peraltro dedicato un intero capitolo all’importanza dell’adempimento degli obblighi tributari da parte delle multinazionali (Chapter XI-Taxation) le quali, come noto, sono tra i principali “protagonisti” della discussione in sede BEPS.

Anzi, proprio quest’ultima discussione finisce per evidenziare le strette “interrelazioni” tra le scelte di localizzazione compiute dai soggetti multinazionali e le politiche fiscali perseguite da quegli Stati che incentivano, a vario titolo, il trasferimento nel loro territorio della residenza fiscale o di funzioni fondamentali.

Come dimostra il recentissimo caso della Apple – che ha visto l’avvio di una indagine formale da parte della Commissione sui rulings emessi dall’amministrazione finanziaria irlandese relativamente ai profitti attribuibili alle sue branches locali – si tratta di politiche che, sotto il profilo del diritto europeo, si pongono spesse volte, appunto, “al confine” tra quelle che costituiscono legittimo esercizio delle prerogative di ciascuno Stato membro in materia di imposizione sui redditi e quelle, invece, che in considerazione della loro “selettività” sconfinano negli aiuti di Stato.

Mentre, tuttavia, come detto, a livello europeo la fissazione di aliquote fiscali ridottissime, ma generalizzate, viene considerata, in assenza di ulteriori elementi selettivi, quale legittimo esercizio della sovranità statale, altrettanto non accade a livello internazionale, dove l’UN Independent Expert on Extreme Poverty and Human Rights ha evidenziato il rischio connesso alla diminuzione del livello di protezione dei diritti sociali (IBA, Report, cit., p. 115-116). In altri termini, a livello internazionale, la questione delle risorse disponibili sembra “trascendere” il profilo dell’evasione ed elusione e valorizzare il livello impositivo in sé considerato. Ciò potrebbe rappresentare lo spunto per rimeditare, a livello europeo, la legittimità di aliquote fiscali fortemente ridotte, ma generalizzate, certamente produttive anch’esse di gravi distorsioni nella localizzazione delle attività d’impresa.

È dunque dall’esistenza di un collegamento tra il mancato pagamento dei tributi dovuti a politiche fiscali intese a favorire fenomeni di elusione ed evasione fiscale internazionali – o, al limite, semplicemente finalizzate ad attrarre investimenti produttivi con aliquote modeste – e il pregiudizio che esso è suscettibile di recare alla possibilità di assicurare un’efficace tutela dei diritti economici, sociali e culturali, che mi pare si debba ripartire per impostare e risolvere diversamente il “problema fiscale” nell’Unione europea.

In una prospettiva, cioè, che guardi con maggiore attenzione ai valori sociali, superando quella logica economico-mercatistica che per lungo tempo ha ispirato le dinamiche dell’ordinamento europeo, “costringendo” la rilevanza della fiscalità di favore all’interno della disciplina degli aiuti di Stato, e che può trovare una sponda importante nello stesso Trattato di Lisbona, specie, ma non solo, in virtù del suo richiamo alla realizzazione in ambito europeo di un’economia sociale di mercato.

 

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