diritto internazionale pubblico

Il TTIP e la risoluzione delle controversie tra investitore e Stato: ipocrisia, schizofrenia o preoccupazioni giustificate?

Luca Pantaleo è Senior Researcher (Postdoc) all’Université du Luxembourg

La recente pubblicazione, da parte della Commissione europea, dei documenti relativi all’esito delle consultazioni pubbliche, lanciate su iniziativa della stessa, concernenti il meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (ISDS) previsto dal Transatlantic Trade and Investment Partnership (meglio noto come TTIP), ha riacceso il dibattito che accompagna i negoziati di tale accordo sin dal loro inizio. L’opposizione al TTIP e, in misura minore, all’accordo “gemello” che l’Unione europea si appresta a concludere con il Canada (il c.d. CETA, ovvero Comprehensive Economic and Trade Agreement) è animata da un vasto ed eterogeneo fronte di contrari, che annovera tra le sue fila rappresentanti della società civile (si pensi all’ormai noto comitato Stop TTIP), autorevoli esponenti del mondo accademico, oltre ad un nutrito gruppo di Stati membri, ivi compresi due pesi massimi dell’Eurozona come Francia e Germania. Nel presente contributo si cercherà di sintetizzare gli elementi principali di tale dibattito, nel tentativo di offrire al lettore un quadro il più possibile esaustivo.

In primo luogo, è opportuno ricordare come l’ISDS non sia il frutto dell’inventiva dei negoziatori del TTIP. Meccanismi in tutto e per tutto simili sono previsti, ed attualmente in vigore, nella stragrande maggioranza dei circa 1400 trattati bilaterali d’investimento (BIT) conclusi dagli Stati membri dell’Unione europea a partire dal 1959, anno in cui, come è noto, la Germania concluse il primo BIT con il Pakistan. Sebbene l’esistenza di tali accordi, in alcune occasioni, non abbia mancato di attirare critiche da parte dell’opinione pubblica (si pensi, in particolare, al recente caso Vattenfall), l’avversità ai meccanismi di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato sembra essere esplosa solo dopo che l’UE ha intrapreso le prime, concrete azioni finalizzate all’esercizio della sua nuova competenza in materia.

Le critiche generalmente mosse nei confronti degli ISDS (ed in particolare nei confronti del TTIP) possono essere così sommariamente compendiate. In primo luogo, la presenza di un tale meccanismo nell’accordo in discorso avrebbe l’effetto di limitare significativamente i poteri di regolamentazione delle parti contraenti, specialmente in alcuni settori particolarmente sensibili come la tutela dell’ambiente, della salute, del lavoro, ecc. L’esempio più significativo di simili limitazioni che asseritamente deriverebbero dalla conclusione di un accordo come il TTIP è quello relativo al caso Philip Morris. Quest’ultima, come è noto, ha in tempi recenti avviato due procedimenti arbitrali contro l’Australia e l’Uruguay per contestare l’introduzione della legislazione anti-fumo (in particolare, l’imposizione dei c.d. pacchetti anonimi, o plain packaging) da parte di tali paesi. Siffatti procedimenti sono fondati, rispettivamente, sul BIT tra l’Australia ed Hong Kong (dove ha sede la filiale asiatica di Philip Morris), e sul BIT tra l’Uruguay e la Svizzera (dove ha sede, invece, il quartier generale europeo). La vicenda, peraltro, rappresenta in qualche modo un caso di scuola, in quanto illustra perfettamente come le grandi imprese multinazionali, potendo contare sovente su molteplici sedi sussidiarie e succursali ubicate in paesi diversi, riescano a beneficiare della rete di BIT esistenti attraverso un oculato utilizzo dei requisiti relativi alla determinazione della giurisdizione ratione personae dei tribunali arbitrali (Wisner e Gallus).

In secondo luogo, le stesse caratteristiche strutturali dell’ISDS sembrano essere fonte di preoccupazione. Si fa riferimento, in particolare, al fatto che i tribunali arbitrali in materia di investimento non hanno, in genere, carattere permanente; che il sistema di nomina degli arbitri, fondato sulla scelta degli stessi effettuata caso per caso dalle parti in causa (sebbene, per lo più, sulla base di c.d. roster messi a punto dagli Stati) non favorirebbe la certezza del diritto, atteso che i lodi arbitrali hanno efficacia inter partes; che, infine, l’indisponibilità di un meccanismo di appello renderebbe il sistema incoerente e particolarmente imprevedibile, a tutto vantaggio dei grandi investitori privati e delle imprese multinazionali (i quali potrebbero infatti contare su enormi potenzialità lobbistiche, oltre che sul supporto di agguerriti avvocati in grado di approfittare delle incertezze suddette).

Infine, la presenza di un tale meccanismo di risoluzione delle controversie non sarebbe necessaria nel contesto di un accordo concluso da due parti contraenti il cui livello di sviluppo sarebbe in grado di offrire, di per sé, sufficienti garanzie ai reciproci investitori. Sotto questo profilo, si è soliti ricordare come la ragione storica che è all’origine della creazione del sistema dei BIT fosse, in buona sostanza, quella di garantire che gli operatori economici dei Paesi sviluppati interessati ad investire in Paesi in via di sviluppo beneficiassero di un circuito di tutela giurisdizionale alternativo ai tribunali interni di tali paesi, considerati spesso inaffidabili, politicizzati e corrotti. Le medesime esigenze di tutela non troverebbero giustificazione in relazione ad un accordo per così dire simmetrico, cioè a dire stipulato tra parti contraenti dotate di un sistema amministrativo e giurisdizionale in cui la corruzione, l’inefficienza e l’imprevedibilità non superano, di regola, livelli considerati fisiologici in un contesto democratico.

Nell’ambito del dibattito concernente il TTIP, alcune proposte sono state avanzate con l’intento di emancipare tale accordo dai limiti insiti nel sistema di arbitrato internazionale in materia di investimenti. Tuttavia, anche di primo acchito, non soltanto le soluzioni proposte non sembrano poter essere risolutive. Al contrario, come si vedrà, esse potrebbero addirittura rilevarsi dannose.

In primo luogo, secondo la posizione sostenuta, ad esempio, dalla Francia, risulterebbe più opportuno puntare su un (non meglio specificato) maggior coinvolgimento delle corti interne, piuttosto che creare un foro (esterno) riservato ai soli investitori stranieri. Tale proposta, peraltro, sembrerebbe di recente aver fatto breccia nella Commissione, la quale, secondo quanto riportato da Bronckers, avrebbe manifestato l’intenzione di voler approfondire tale possibilità. Come giustamente osservato da tale autore, tuttavia, l’ipotesi in discorso non sembra in grado di rappresentare un’alternativa credibile. Infatti, è noto come la giurisprudenza della Corte di Giustizia, in ciò sostanzialmente sostenuta dalle istituzioni dell’Unione, ma anche da molti Stati membri spesso intervenuti a difesa delle stesse, abbia negli anni progressivamente ridotto le possibilità, da parte dei ricorrenti privati, di invocare in giudizio le disposizioni di accordi internazionali conclusi dall’UE (si pensi al recente caso della Convenzione di Aarhus, commentato da Pirker). Per quanto non sia possibile in questa sede entrare nel merito di tale questione (si veda, per approfondire, Cannizzaro), non sembra che alle corti interne, Corte di Giustizia inclusa, possa essere attribuito alcun ruolo specifico in relazione alla risoluzione di controversie fondate su un accordo internazionale quale il TTIP. In altre parole, tale proposta potrebbe (mal)celare il tentativo di eliminare, puramente e semplicemente, qualsivoglia ISDS dal testo dell’accordo. Allo stesso modo, non sembra percorribile neanche l’ipotesi di un diverso coinvolgimento degli organi giurisdizionali dell’Unione, magari attraverso la creazione di un istituto simile al rinvio pregiudiziale. Infatti, le procedure e la tempistica di un tale meccanismo si porrebbero in radicale contrasto con l’idea di promozione degli investimenti, ed in particolare con l’obiettivo di garantire agli operatori economici l’accesso a mezzi di risoluzione delle controversie ragionevolmente rapidi ed efficienti. In buona sostanza, la proposta francese (non a caso definita «schizofrenica» dall’autore citato) equivarrebbe a nient’altro che all’eliminazione tout court dell’ISDS previsto dal TTIP.

Secondo un orientamento diverso, invece, sarebbe opportuno uscire dallo stallo attraverso una sorta di posizione di compromesso, che consenta di conservare le disposizioni relative alla protezione sostanziale degli investimenti previste dal TTIP, privando quest’ultimo, tuttavia, della sua componente più controversa, cioè a dire esattamente l’istituzione di un ISDS. L’uovo di Colombo sarebbe rappresentato da un sistema di risoluzione delle controversie di natura esclusivamente interstatale, ispirato al modello OMC. Come sottolineato da Weiler, tuttavia, tale rimedio rischia di essere peggiore del male. Le ragioni di una tale conclusione sono tali e tante che non è possibile darne conto dettagliatamente in questa sede. In estrema sintesi, sia sufficiente notare come: a) un meccanismo di tutela riservato alle parti contraenti (e non anche alle persone fisiche e giuridiche aventi la nazionalità delle stesse) rischierebbe di favorire gli investitori e le imprese di maggiori dimensioni, in quanto in grado di esercitare una più forte pressione lobbistica sui rispettivi governi; b) non diversamente dalla maggior parte dei meccanismi di risoluzione delle controversie di tipo intergovernativo, non garantirebbe il ristoro (quanto meno in via diretta) di coloro che subiscono in prima persona gli effetti pregiudizievoli di una violazione dell’accordo in questione; c) non sarebbe in grado di prevenire il rischio di politicizzazione delle controversie, ponendosi in contrasto, in buona sostanza, con le ragioni che sono alla base dell’origine stessa dell’arbitrato internazionale in tema di investimenti (come dimostra la prassi del NAFTA, infatti, i sistemi amministrativi e giurisdizionali dei Paesi sviluppati non sono del tutto privi di fibre nazionalistiche – si vedano le considerazioni di Sattorova, in particolare sul caso Loewen).

Sia ben chiaro: col presente contributo non si intende certo sminuire l’entità dei problemi che tradizionalmente caratterizzano il sistema dell’arbitrato internazionale nel settore degli investimenti. In linea di principio, infatti, alcune delle critiche sollevate nei confronti dello stesso appaiono motivate e del tutto condivisibili. Tuttavia, ad una più attenta analisi, appare forse ragionevole sostenere che il TTIP, e con esso, in generale, gli altri accordi d’investimento che l’UE si appresta a concludere, contengano degli importanti elementi di novità in grado di porre rimedio, almeno parzialmente, alle criticità sopra esposte. In altre parole, il TTIP et similia, almeno per quanto attiene agli aspetti relativi agli investimenti esteri, sembrano poter segnare un positivo passo in avanti rispetto ai trattati preesistenti.

Prima di procedere ad una breve analisi di tali elementi di novità, occorre fare una precisazione. Infatti, nonostante gli sforzi (soprattutto della Commissione) nel senso di una maggiore trasparenza dei negoziati, il testo del TTIP, e con esso degli elementi che caratterizzano il suo ISDS, non sono ancora pubblicati. Le considerazioni che seguono, pertanto, non potranno non avere un carattere almeno parzialmente speculativo. Tuttavia, come ipotesi di lavoro, appare ragionevole ritenere che il meccanismo di risoluzione delle controversie previsto dal TTIP possa essere modellato su quello del CETA (a sua volta ispirato al modello NAFTA), il cui testo è invece noto. L’analisi che segue, pertanto, prenderà le mosse dall’ISDS contenuto nel CETA, per compiere un’analisi di tipo comparativo con i BIT di origine nazionale.

Sotto questo profilo, giova ricordare come attualmente la prassi consenta di individuare due grandi modelli di accordi di investimento. Da un lato vi è il c.d. modello OCSE del 1962, cui sono ispirati i BIT maggiormente diffusi tra i paesi europei. Tale modello, considerato tra quelli più favorevoli agli interessi degli investitori, è in un certo senso portato alle estreme conseguenze dal modello di BIT adottato dai Paesi Bassi, non a caso soprannominato Dutch Golden Standard (cfr. Nelson, nonché Lavranos). Dall’altro lato, è possibile individuare un secondo grande modello di BIT, cioè a dire il c.d. modello NAFTA. Quest’ultimo, da taluni considerato più completo ed equilibrato rispetto al suo omologo prevalente in Europa (v. Fontanelli e Bianco), ha con gli anni finito col prevalere in maniera generalizzata sull’altra sponda dell’Atlantico, ispirando, in particolare, i nuovi modelli di BIT adottati da Stati Uniti e Canada (cfr. Alvarez). Orbene, stando alle rilevanti disposizioni del CETA, è forse possibile affermare che il modello di trattato d’investimento adottato dall’UE, cui lo stesso TTIP dovrebbe conformarsi, non solo si distanzia notevolmente dall’“Eldorado olandese” (Eldorado per gli investitori, s’intende), ma sembra, per alcuni aspetti, andare persino oltre i livelli di affidabilità ed accuratezza raggiunti dal modello NAFTA e derivati. Alcuni esempi aiuteranno ad illustrare questo punto.

Cominciamo da alcune significative disposizioni relative alla protezione sostanziale degli investimenti. In primo luogo, colpisce nel CETA (sulla falsariga del NAFTA) l’assenza totale di una c.d. umbrella clause, la quale, come è noto, può avere l’effetto di estendere notevolmente l’ambito di applicazione dei BIT, fino ad includere controversie di natura essenzialmente contrattuale (v. Schill). Atteso che anche il modello di BIT statunitense non contiene una clausola siffatta, non vi è ragione di ritenere che una soluzione diversa possa essere inserita nel TTIP. Al contrario, i principali BIT degli Stati membri contengono tale disposizione, salvo sparute eccezioni.

In secondo luogo, il CETA prevede la possibilità per le parti contraenti di integrare il contenuto esatto del c.d. “trattamento giusto ed equo” degli investimenti stranieri (FET, acronimo dell’inglese «Fair and Equitable Treatment»). Come è noto, la determinazione dell’esatto contenuto dello standard di protezione incluso in tale trattamento ha dato luogo ad un acceso dibattito, non ancora sopito, soprattutto nell’ambito del NAFTA. In particolare, una decisione della Free Trade Commission (FTC), che ai sensi di tale accordo è dotata del potere di adottare interpretazioni del testo normativo vincolanti per le parti in causa (anche in caso di contenzioso già pendente al momento dell’adozione della decisione) ha statuito, non senza sollevare critiche (Dumberry), che ai sensi del NAFTA il FET equivale alla protezione dovuta in base al diritto internazionale generale (c.d. «international minimum standard»), non costituendo, pertanto, uno standard di protezione a sé stante. Il CETA, dal canto suo, pur non avendo esplicitamente ancorato il FET al diritto internazionale generale, prevede la possibilità per le parti contraenti di procedere ad una revisione periodica dell’esatto contenuto dello stesso, attraverso decisioni del Trade Committee (TC) istituito dall’accordo in discorso. Anche in tal caso, considerato che tale impostazione corrisponde ormai alla prassi consolidata dei paesi nordamericani, Stati Uniti inclusi, è ragionevole ritenere che essa possa ugualmente ispirare le rilevanti disposizioni del TTIP. Inutile sottolineare come, invece, i BIT prevalenti tra gli Stati membri dell’UE adottino di regola l’impostazione investor-friendly.

Infine, per concludere la rassegna delle disposizioni relative alla protezione sostanziale degli investimenti contenute nel CETA, e che appaiono in predicato di confluire nel TTIP, è opportuno osservare: a) che la nozione di full protection and security è riferita esclusivamente alla sicurezza fisica dell’investitore e dell’investimento, non anche a quella giuridica; b) che la clausola della nazione più favorita (MFN) non è applicabile alle disposizioni di natura procedurale, ma solo a quelle di natura sostanziale (al fine di scongiurare fenomeni di c.d. forum shopping); c) che, infine, la nozione di espropriazione indiretta (autentico grimaldello utilizzato spesso dagli investitori a danno dei poteri regolamentari degli Stati) appare ridimensionata rispetto a quella contenuta nei BIT nazionali. Anche in tal caso, la circostanza che il modello di BIT adottato dagli Stati Uniti contenga disposizioni molto simili al CETA, consente di ritenere che le medesime soluzioni potrebbero confluire nel TTIP.

Le innovazioni introdotte dal CETA e che, in tutta probabilità, dovrebbero essere estese al TTIP, peraltro, non si limitano alle disposizioni di natura sostanziale. Numerosi, infatti, sono i meccanismi che limitano significativamente l’accesso degli investitori all’ISDS rispetto a quanto previsto dai BIT prevalenti in Europa. In primo luogo, l’introduzione dei procedimenti arbitrali è sottoposta a termini di decadenza ben più rigorosi di quelli previsti dai BIT degli Stati membri. In secondo luogo, al contrario di questi ultimi, il CETA stabilisce il divieto per gli investitori di utilizzare qualsiasi altro mezzo di risoluzione delle controversie nella pendenza di un giudizio arbitrale, o di rinunciare a tali altri mezzi (producendone la relativa prova) ai fini dell’avvio di un procedimento arbitrale; tale accordo, inoltre, a differenza dei BIT degli Stati membri attualmente in vigore, contiene una clausola d’importazione delle nuove Regole sulla trasparenza recentemente approvate dall’UNCITRAL, le quali rappresentano, probabilmente, lo standard più elevato attualmente disponibile. In aggiunta, il contenuto del lodo arbitrale è anch’esso dettagliatamente specificato, a fronte, ancora una volta, dell’approccio minimalista seguito dai BIT nazionali. Infine, sulla scorta del modello di BIT adottato dagli Stati Uniti, il CETA prevede l’istituzione (sebbene in un momento successivo alla conclusione dell’accordo) di un meccanismo di appello, oltre alla possibilità per le parti di emanare decisioni vincolanti attraverso il già citato TC.

Insomma: un’analisi attenta ed obiettiva del dato normativo sembra suggerire che l’opposizione incontrata dal CETA e dal TTIP non sia giustificata da solide ragioni giuridiche. Il sospetto, in sostanza, è che il problema non risieda tanto nel contenuto normativo degli accordi in corso di negoziazione, quanto piuttosto nell’opportunità (politica) di concludere tali accordi. Come giustamente notato da Weiler, tale situazione non sembra del tutto priva di ipocrisia. Vi è infatti un’irriducibile contraddizione nella posizione di paesi che, per anni, hanno sostenuto l’arbitrato internazionale in materia di investimenti, quanto meno nel contesto di accordi asimmetrici (ossia conclusi con paesi meno sviluppati), e che oggi si attestano su posizioni contrarie di fronte alla possibilità che tali ISDS possano essere utilizzati a proprio detrimento. L’autore citato ha efficacemente apostrofato tale contraddizione come il NIMBY (acronimo inglese per not in my back yard, letteralmente “non nel mio cortile”) del diritto internazionale dell’economia. Chi scrive condivide pienamente tale affermazione.

Se l’ISDS previsto dal TTIP seguirà, com’è probabile ed auspicabile, l’esempio tracciato dal CETA, è ragionevole concludere che lo stesso costituirà possibilmente il sistema di arbitrato internazionale in materia d’investimenti più avanzato tra quelli attualmente esistenti. Con ciò non si vuole dire che esso sarà immune da critiche. In relazione ad alcuni aspetti, infatti, sembra possibile fare molto di più. In particolare, è auspicabile che le regole in materia di trasparenza e pubblicità dei procedimenti arbitrali siano spinte oltre il modello UNCITRAL; che le possibilità d’intervento dei terzi in giudizio, in special modo degli amici curiae, siano estese oltre i confini (angusti) attualmente previsti dal CETA; che il meccanismo di appello non rimanga lettera morta, ma venga effettivamente istituito; che i criteri di nomina degli arbitri siano rivisti nel senso di una maggiore istituzionalizzazione; che, infine, sia presa in considerazione l’ipotesi di dotare i tribunali arbitrali di carattere permanente (ciò che potrebbe essere ottenuto con la creazione di un meccanismo di appello permanente).

L’Unione europea e gli Stati Uniti costituiscono ancora le due più grandi economie del pianeta. Le iniziative da essi intraprese finiscono, inevitabilmente, per influenzare l’intera comunità internazionale. Sotto questo profilo, l’istituzione di un ISDS da parte del TTIP assume un’importanza centrale, considerato che esso, se vedrà effettivamente la luce, finirebbe, in tutta probabilità, per rappresentare lo standard di riferimento in materia. L’eliminazione tout court di tale meccanismo, peraltro fondata su preoccupazioni che, come si è visto, non sembrano del tutto giustificate, rappresenterebbe senza dubbio un’occasione mancata che le parti in causa probabilmente non possono permettersi.

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