diritto internazionale pubblico

L’azione di contrasto agli atti di terrorismo perpetrati da Boko Haram nei rapporti tra Nazioni Unite, organizzazioni regionali e subregionali

Emanuele Cimiotta è ricercatore confermato nell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”

Mi perdonerà il lettore, ma non credo di potermi definire un blogger. Non so se sarò in grado di cogliere le potenzialità della sede destinata a ospitare questo scritto, stimolando reazioni flash da condividere a caldo e dare in pasto alla rete. Approfitto però di questo spazio, non senza un qualche imbarazzo, perché alcune delle suggestioni che proverò a rappresentare sono frutto di riflessioni, sganciate in realtà dalla crisi nigeriana, che credo meriterebbero di essere raffinate. Ogni critica o indicazione è seriamente benvenuta. Ad ogni modo, procederò dapprima mettendo in evidenza i fatti per sommi capi e poi tentando di esaminare i problemi giuridici che tale crisi sembrerebbe comportare, limitandomi ad affrontare un’unica prospettiva.

La barbarie che dal 2009 sta dilagando nel nord est della Nigeria, per l’imperversare del gruppo armato d’ispirazione estremista islamica Boko Haram, ripropone infatti il problema dei rapporti tra Nazioni Unite, organizzazioni regionali e subregionali in materia di mantenimento e ristabilimento della pace e della sicurezza. E lo fa nel settore del contrasto al terrorismo internazionale, in cui per la prima volta le organizzazioni di riferimento – Unione africana, Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) e Commissione del bacino del lago Ciad – stanno provando ad assumere un ruolo di primo piano, a discapito del Consiglio di sicurezza dell’ONU, non foss’altro sul piano dell’impulso e della realizzazione delle attività militari. Dopo anni di attesa dettati in larga parte dalle ritrosie del Governo nigeriano (per questioni di natura sia interna che esterna, tra l’altro legate alla diffidenza verso il Camerun con il quale, si ricorderà, la Nigeria è stata anche parte di una controversia davanti alla Corte internazionale di giustizia proprio in ordine alla delimitazione delle rispettive frontiere terrestri: cfr. Land and Maritime Boundary between Cameroon and Nigeria (Cameroon v. Nigeria: Equatorial Guinea intervening), sentenza, 10 ottobre 2002), l’attivazione di tali organizzazioni ha risentito probabilmente del particolare momento storico che si sta attraversando, caratterizzato da una certa (almeno apparente) mobilitazione collettiva verso la lotta al terrorismo, a seguito degli attentati parigini di inizio anno e del proliferare del c.d. Stato islamico in Medio oriente.

Sta di fatto che il 31 gennaio scorso l’Unione africana ha finalmente deciso il dispiegamento di una forza militare subregionale – a cui dovrebbero partecipare Benin, Ciad, Camerun, Niger e Nigeria – per contrastare l’offensiva lanciata da Boko Haram in Nigeria e nei Paesi limitrofi.

Dalla prima decade di gennaio assistiamo infatti a una feroce recrudescenza delle violenze, caratterizzate da uccisioni di massa, brutalità ai danni di donne e bambini, assalti e devastazioni di città e villaggi, perfino dall’utilizzo di minori come bombe umane. I miliziani sono arrivati ai confini con Camerun, Ciad e Niger. Incursioni sempre più frequenti all’interno di tali territori stanno ulteriormente complicando la situazione sul terreno e allargando l’area del conflitto. Il gruppo ha oramai acquisito il controllo di alcune province settentrionali della Nigeria. L’obiettivo è costituire uno Stato di matrice islamica. Tutto ciò ha provocato massicci flussi migratori e una vera e propria crisi umanitaria (per una prima sintesi dei principali avvenimenti si rimanda al post di Federica Musso; Ngassam). Crisi che però per varie ragioni non ha attirato l’attenzione che avrebbe meritato (Allison, “Silenzio colpevole sul massacro in Nigeria”, in Internazionale del 16 gennaio 2015, p. 26).

Possono distinguersi alcuni tratti di analogia, sotto profili volta a volta diversi, con i recenti conflitti in Mali (dove negli anni 2010-2013 gruppi terroristici legati alla rete di Al-Qaeda hanno sostenuto i movimenti separatisti locali nel tentativo di conquistare il nord del Paese), in Iraq e in Siria (dove da questa estate è in corso l’avanzata dello Stato islamico, che è andato via via appropriandosi di parti sempre più estese di territorio). Nonostante le analogie tra le modalità e le finalità dei vari conflitti in discorso (per le gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario, le modalità terroristiche delle attività poste in essere dai gruppi armati, l’obiettivo di costituire, attraverso l’uso della forza, nuovi Stati all’interno di Stati preesistenti o comunque di acquisire il controllo di vaste zone all’interno dei medesimi), le reazioni della comunità internazionale si stanno rivelando piuttosto eterogenee. In Iraq, infatti, ha giocato un ruolo predominante l’unilateralismo (Picone, “Unilateralismo e guerra contro l’ISIS”, in corso di pubblicazione in Rivista di diritto internazionale, 2015, p. 5 ss.), in Mali il subregionalismo, col coordinamento dell’Unione africana e l’autorizzazione all’uso della forza del Consiglio di sicurezza (v. Cellamare, p. 239 ss.).

Il tema dei rapporti tra sistemi di sicurezza collettiva universali e regionali è un classico della letteratura internazionalistica, ma non ha mai cessato di suscitare l’interesse degli studiosi (v., nell’ambito di una letteratura straripante, Villani, “Les rapports entre l’ONU et les organisations régionales dans le domaine du maintien de la paix”, in Recueil des cours de l’Académie de droit international de La Haye, 2001, vol. 290, p. 225 ss.; Abass, Regional Organisations and the Development of Collective Security. Beyond Chapter VIII of the UN Charter, Hart Publishing, Oxford, 2004; Boisson de Chazournes, “Les relations entre organisations régionales et organisations universelles”, in Recueil des cours de l’Académie de droit international de La Haye, 2010, vol. 347, p. 79 ss.). A partire dalla seconda metà degli anni ’90 esso è tornato di attualità per via delle novità prospettate da una prassi che è andata diversificandosi ed ampliandosi notevolmente, non soltanto nel continente africano, e che ha spinto a rivedere ruoli, competenze e rapporti tra le varie organizzazioni e a mettere in discussione l’impianto normativo originario, incentrato sul cap. VIII della Carta delle Nazioni Unite e il primato del Consiglio di sicurezza. È noto come l’intensificarsi dei conflitti di dimensioni locali sia andato di pari passo, da un lato, col progressivo ridimensionamento della centralità dell’ONU e, dall’altro, con l’acquisizione e l’estensione di competenze in tema di mantenimento e ristabilimento della pace – sotto profili materiali e/o territoriali – da parte di organizzazioni regionali e subregionali. Nella sua prassi più recente, poi, sempre più di frequente il Consiglio di sicurezza, rivolgendosi al contempo agli Stati singolarmente considerati e agli Stati in qualità di membri di organizzazioni regionali, tende a ricorrere al cap. VII della Carta, anziché al cap. VIII, per autorizzare attività militari coercitive da parte, o nell’ambito, delle pertinenti organizzazioni. Talvolta, per giunta, nelle delibere autorizzative non si trovano riferimenti né all’uno nell’altro capitolo della Carta. Talaltra, infine, tali delibere hanno ad oggetto operazioni già avviate di loro iniziativa dalle organizzazioni regionali o subregionali, intervenendo ex post facto per sanare, dalla prospettiva della Carta, ogni pretesa illegittimità delle attività militari così poste in essere. Inoltre, si sono moltiplicati i modelli di cooperazione tra le Nazioni Unite e le organizzazioni regionali nella gestione delle operazioni di pace, ciascuna con propri compiti e proprie responsabilità (si pensi al c.d. co-deployment, alle c.d. joint operations, alle c.d. hybrid operations). Ne escono dunque nobilitati il ruolo e l’autonomia istituzionale delle organizzazioni regionali, con conseguenti fenomeni di decentramento del mantenimento e del ristabilimento della pace e della sicurezza internazionale. L’ONU, secondo alcuni, finirebbe così per utilizzare le organizzazioni regionali al fine di perseguire i propri scopi ed esercitare le proprie funzioni, nel tentativo di ovviare alle difficoltà che incontra nel reperire mezzi, strutture, capacità e risorse da destinare alle sempre più frequenti sollecitazioni di cui è oggetto in materia di prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti. In quest’ottica, a loro volta le organizzazioni regionali finirebbero per mettersi a disposizione dell’ONU, in via sussidiaria rispetto alle capacità di intervento autonome dell’Organizzazione (di «complémentarité organisée» parla ad esempio Kamto, “Le rôle des «accords et organismes régionaux» en matière de maintein de la paix et de la sécurité internationales à la lumière de la Charte des Nations Unies et de la pratique internationale”, in Revue générale de droit international public, 2007, p. 771 ss., p. 799).

È questo il quadro in cui s’inserisce la gestione della vicenda nigeriana, sintomatica del fitto intreccio esistente tra organizzazioni internazionali, regionali e subregionali nel campo della sicurezza collettiva. Pressoché tutte le organizzazioni africane con competenze in tema di mantenimento della pace, e la cui area geografica di pertinenza comprenda l’epicentro degli attacchi lanciati da Boko Haram, se ne sono interessate: Unione africana (che dispone del potere di intervenire militarmente all’interno dei propri Stati membri quando si verifichino gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario: cfr. l’art. 4, lett. h), dell’atto istitutivo dell’11 luglio 2000), ECOWAS (v., ad effetti simili, l’art. 22 del Protocollo del 10 dicembre 1999 relativo al meccanismo per la prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti), Commissione del bacino del lago Ciad (che, per la verità, non ha competenze in senso stretto nel settore indicato – come affermato anche dalla Corte internazionale di giustizia nel caso Land and Maritime Boundary between Cameroon and Nigeria (Cameroon v. Nigeria), eccezioni preliminari, sentenza, 11 giugno 1998, p. 306, par. 67, la quale, pur riconoscendole i tratti tipici delle organizzazioni internazionali, non la considera un’organizzazione regionale ai sensi del cap. VIII della Carta – ma che dal 1994 ha istituto una forza militare, la Multinational Joint Task Force (MJTF), acquartierandola in prossimità del lago, a presidiare la pacifica convivenza degli Stati rivieraschi, giusto nella zona dove stanno avendo luogo gli scontri di queste settimane).

Ne deriva, da un lato, la complessità della rete degli enti che sono stati istituiti o potenziati nel corso del tempo, con sovrapposizioni di competenze, funzioni, poteri; dall’altro, la progressiva regionalizzazione della gestione della crisi in esame. Proviamo allora a ripercorrere le tappe salienti di quest’ultimo fenomeno, prima di rilevarne i profili giuridici che ci interessano più da vicino.

a) In un comunicato del 7 ottobre 2014, i Membri della Commissione del bacino del lago Ciad (Camerun, Ciad, Niger e Nigeria) e il Benin hanno annunciato di voler mobilitare la Multinational Joint Task Force (MJTF) lungo i confini degli Stati coinvolti. Tale forza subregionale avrebbe dovuto attivarsi per fronteggiare i miliziani di Boko Haram a partire dal 1° novembre 2014, grazie al dispiegamento di 700 militari per Paese e alla costituzione di un quartier generale comune, che avrebbe dovuto coordinare le attività militari nazionali (par. 6-9). A tal proposito, è stata ritenuta necessaria l’autorizzazione delle Nazioni Unite e dell’Unione africana (par. 11).

b) Questa decisione ha riscosso il favore del Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione africana. In un comunicato del 25 novembre 2014, dopo aver considerato le attività terroristiche di Boko Haram una minaccia non solo per la Nigeria ma per la regione e per l’intero continente, evidenziato l’esigenza di una reazione collettiva di portata africana (par. 5), manifestato in proposito pieno appoggio al dispiegamento della MJTF (par. 6-7), avvertendo l’urgenza della sua pronta attivazione, il Consiglio ha chiesto alla Commissione dell’Unione africana di consultarsi urgentemente con il Benin e i Membri della Commissione del bacino del lago Ciad per procurare al più presto l’auspicato appoggio internazionale: in particolare, l’adozione da parte del Consiglio di sicurezza dell’ONU di una risoluzione che autorizzasse il dispiegamento della MJTF per un periodo iniziale di un anno e l’istituzione da parte del Segretario generale dell’ONU di un fondo per finanziare le relative operazioni militari (par. 8). Infine, è stato rivolto un appello al Consiglio di sicurezza e alla comunità internazionale affinché agevolassero l’attivazione della MJTF, sostenendola sul piano logistico e finanziario (par. 9).

c) Anche l’ECOWAS ha preso parte al balletto delle iniziative e lo ha fatto il 16 gennaio 2015, tramite il suo Presidente, che ha sollecitato l’Unione africana a concentrare l’attenzione, nel corso dell’imminente sessione ordinaria della sua Assemblea, sulla minaccia terroristica in Africa occidentale per concordare un piano di azione militare. In quell’occasione, ha annunciato, egli domanderà all’Unione africana di costituire una forza subregionale per contrastare Boko Haram, precisando che, una volta decisa la creazione della forza, l’Unione dovrà chiedere al Consiglio di sicurezza l’autorizzazione a renderla operativa, anche attraverso l’istituzione di un fondo di finanziamento.

d) A simili sollecitazioni il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha reagito con una certa calma. Lo ha fatto solo pochi giorni fa, forse perché in qualche modo costretto dall’escalation di violenza di cui s’è detto in premessa. Tuttavia, il suo intervento non è stato granché incisivo, essendosi finora concretizzato in una mera dichiarazione presidenziale: la 4 del 19 gennaio 2015. Sarà un caso, ma Camerun e Nigeria figuravano e figurano tuttora tra i suoi membri non permanenti. Dopo aver qualificato Boko Haram come un gruppo terroristico (par. 4) e chiesto l’immediata cessazione delle ostilità e degli abusi, nonché il disarmo e la smobilitazione del gruppo (par. 5), il Consiglio ha sottolineato come i ripetuti attacchi dei jihadisti stiano minacciando la pace e la stabilità dell’Africa occidentale e centrale (par. 7). Sul piano operativo, esso si è limitato a santificare le iniziative già prese a livello regionale e unilaterale, incoraggiandone la realizzazione senza però assumerne la direzione, nonostante abbia a più riprese affermato che il terrorismo, in tutte le sue forme e manifestazioni, costituisce una delle più gravi minacce alla pace e alla sicurezza internazionale, come tale suscettibile di provocare un’azione di contrasto su scala globale. Al contrario, si è dunque puntato sull’opportunità di una risposta regionale alla crisi. Infatti, da un lato il Consiglio ha preso atto della predetta decisione di mobilitare la MJTF, incoraggiando l’adozione delle misure necessarie ad attivarla (par. 9-10; la missione infatti era rimasta congelata a causa delle tensioni e delle divergenze di natura diplomatica e strategica soprattutto tra Camerun e Nigeria), benedicendo il vertice regionale in programma per il giorno seguente in Niger allo scopo di concordare i termini della risposta regionale alla minaccia posta da Boko Haram (par. 10), infine sottolineando che tutte le operazioni della MJTF dovranno essere condotte nel rispetto del diritto internazionale (par. 11). Dall’altro, esso ha preso nota della decisione del Ciad di inviare proprie forze armate a supporto delle truppe camerunesi e nigeriane impegnate nella lotta contro i terroristi (par. 12). In effetti, in attesa che si costituisca la forza subregionale, il 17 gennaio 2015 il Ciad ha provveduto in tal senso, inviando un proprio contingente militare in Camerun, in adesione alla richiesta avanzata pochi giorni prima dalle massime autorità locali.

e) Come da programma, poi, il 20 gennaio 2015 si è tenuto a Niamey (Niger) un vertice tra i Ministri degli affari esteri e della difesa di sei Paesi africani (Benin, Camerun, Ciad, Guinea equatoriale, Niger e Nigeria), i rappresentanti di altri sette Paesi (Canada, Cina, Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna e Stati Uniti) e i rappresentanti di alcune organizzazioni regionali (Commissione del bacino del lago Ciad, Unione africana e Unione europea). In quella sede si è lavorato per perfezionare un progetto di risoluzione da sottoporre al Consiglio di sicurezza dell’ONU e all’Unione africana in modo da definire una volta per tutte la base giuridica dell’intervento militare collettivo dei Paesi africani contro Boko Haram. Il vertice ha consacrato l’approccio regionale alla gestione del conflitto. Le organizzazioni e i Paesi africani partecipanti si sono infatti impegnati a rendere al più presto operativa una coalizione subregionale la più ampia possibile, partecipando con uomini, mezzi e risorse e concordando strategie comuni per il suo effettivo dispiegamento. A tal fine, essi hanno ulteriormente ribadito di voler sollecitare l’ONU a sostenere tale coalizione sul piano logistico e finanziario (Miranda).

f) Infine, come anticipato in premessa, alla sua ventiquattresima riunione ordinaria, svoltasi ad Addis-Abeba (Etiopia) dal 23 al 31 gennaio 2015, l’Assemblea dell’Unione africana ha deciso il dispiegamento della suddetta forza subregionale (al momento in cui si scrive il testo della delibera non è ancora stato pubblicato). Con ciò l’Unione africana ha ufficializzato il proprio sostegno a tale forza, che sarà composta da contingenti in larga parte messi a disposizione dagli Stati che si affacciano sul lago Ciad (al momento si parla di 7.500 uomini). Il compito è di prevenire ulteriori espansioni di Boko Haram e sradicarlo dai territori che è andato occupando. Non è ancora chiaro tuttavia se i militari si assesteranno lungo i confini, per proteggere gli Stati interessati dalle incursioni del gruppo terroristico, o se invece potranno spingersi all’interno del territorio nigeriano per attaccarlo ed eliminarlo. Al più presto gli Stati che hanno manifestato l’intenzione di aderire all’iniziativa s’incontreranno per concordarne la struttura di comando e le regole di ingaggio. Da più parti si spinge per autorizzare le truppe ad attraversare i vari confini, dal momento che i terroristi sembrano non volerne riconoscere alcuno.

Ora, diversi sono i problemi e le perplessità che l’episodio in esame e la regionalizzazione della sua gestione sollevano. Proveremo qui di seguito a individuarli anche se, per motivi di spazio e per la complessità di alcuni di loro, non sarà sempre possibile risolverli.

Innanzitutto occorre verificare quali siano gli effetti giuridici della dichiarazione del Presidente del Consiglio di sicurezza n. 4/2015: in particolare, se essa possa essere assimilata alle autorizzazioni di cui al cap. VIII (o al cap. VII) della Carta, rendendo quindi superfluo un ulteriore pronunciamento del Consiglio a seguito della decisione dell’Unione africana da ultimo richiamata. Vari motivi inducono a privilegiare una risposta negativa. La dichiarazione non contiene alcun accertamento circa l’esistenza dei presupposti previsti dall’art. 39 della Carta, né è stata adottata in base al cap. VIII. Il riferimento a quest’ultimo (o eventualmente al cap. VII) non è neppure ricavabile in via implicita, dall’esame del linguaggio impiegato nel testo. Inoltre, l’autorizzazione all’uso della forza deve essere contenuta in una delibera vera e propria, un atto messo ai voti, mentre le dichiarazioni presidenziali (e la n. 4/2015 del 19 gennaio 2015 non fa eccezione) non sono formalmente oggetto di votazione. La loro emanazione – per effetto di una prassi consolidatasi nel corso del tempo, trattandosi di atti non previsti dalla Carta né dal Regolamento di procedura del Consiglio – presuppone la partecipazione di tutti i membri dell’organo alla predisposizione del testo e l’adozione per consensus. Infine, benché si tratti di atti formalmente attribuibili al Consiglio, non al suo Presidente, vi si ricorre quando l’approvazione di vere e proprie risoluzioni tende a complicarsi, divenendo improbabile, ad esempio per la minaccia del veto di un membro permanente o per altri motivi di natura politica. Pertanto, nonostante in principio possano avere contenuti simili a quelli delle risoluzioni, le dichiarazioni presidenziali non producono gli stessi effetti giuridici (Tavernier, “Les Déclarations du Président du Conseil de Sécurité”, in Annuaire français de droit international, 1993, p. 86 ss.; Talmon, “The Statements by the President of the Security Council”, in Chinese Journal of International Law, 2003, p. 419 ss.). La dichiarazione n. 4/2015 appare dunque inadatta agli scopi sopra indicati, per i quali si rende necessaria l’adozione di una vera e propria delibera da parte del Consiglio di sicurezza.

Occorre poi chiarire che tipo di rapporto si sia instaurato tra Nazioni Unite e organizzazioni regionali e subregionali nella gestione della crisi in Nigeria. Con ciò s’intende verificare, in linea più generale e almeno in via di prima approssimazione, se questo episodio della prassi sia suscettibile di confermare (anche nello specifico comparto delle misure di contrasto al terrorismo internazionale implicanti l’uso della forza) ovvero, in alternativa, di modificare l’assetto delle relazioni tra Nazioni Unite e organizzazioni africane nel campo delle attività militari di natura coercitiva, come si è andato delineando negli ultimi anni. Stando all’impostazione prevalente, nonostante si sia sviluppata una prassi di operazioni militari regionali e subregionali avallate solo ex post dal Consiglio di sicurezza (e in taluni casi non autorizzate affatto), la decisione di un’organizzazione regionale o subregionale di ricorrere alla forza armata – in assenza di un’esplicita richiesta o del consenso delle autorità territoriali e fuori dai casi di legittima difesa di cui all’art. 51 della Carta – deve necessariamente incontrare l’autorizzazione del Consiglio, non disponendo tali organizzazioni del potere di intraprendere azioni militari a prescindere dal sistema dell’ONU (Balmond, “La sécurité collective, du droit des Nations Unies au droit regional?”, in La sécurité collective entre légalité et défis à la légalité (a cura di Arcari e Balmond), Giuffré, Milano, 2008, p. 45 ss., p. 62 ss.; de Wet, “The Evolving Role of ECOWAS and the SADC in Peace Operations: A Challenge to the Primacy of the United Nations Security Council in Matters of Peace and Security?”, in Leiden Journal of International Law, 2014, p. 353 ss., p. 356 ss.). È questo chiaramente anche l’approccio del Consiglio di sicurezza, che a più riprese negli ultimi anni ha sottolineato l’importanza, sempre nel rispetto della sua responsabilità principale, del rafforzamento della cooperazione con le organizzazioni regionali e subregionali, in particolare l’Unione africana e l’ECOWAS, nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, sempreché si agisca appunto in conformità al cap. VIII della Carta e al primato del suo ruolo e dei suoi poteri (si vedano, ad esempio, le risoluzioni n. 1809 del 16 aprile 2008, n. 2033 del 12 gennaio 2012, n. 2167 del 28 luglio 2014; dello stesso tenore, peraltro, una dichiarazione presidenziale adottata lo stesso giorno della dichiarazione n. 4/2015). Tra i vari settori d’intervento in cui la cooperazione è ritenuta determinante, espressamente elencati nelle relative delibere consiliari, non figura il contrasto al terrorismo internazionale. In quest’ottica, può dirsi, l’episodio in esame sembra potersi considerare un ulteriore elemento della prassi a sostegno della prospettiva secondo cui, fuori dai casi di legittima difesa e da altre ipotesi eventualmente regolate dal diritto internazionale generale (inattività del Consiglio di sicurezza unita alla natura collettiva e fondamentale dei valori tutelati dalle norme violate; circostanze, queste, che andrebbero comunque accertate in concreto), affinché un’operazione militare coercitiva di portata subcontinentale, qual è la MJTF, possa essere legittimamente istituita è necessaria l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Gli atti dell’Unione africana, dell’ECOWAS, della Commissione del bacino del lago Ciad e delle conferenze intergovernative che abbiamo riportato in precedenza muovono in tale direzione. In proposito, spicca come, sebbene l’atto istitutivo dell’Unione africana attribuisca all’Organizzazione poteri di intervento militare all’interno degli Stati membri al ricorrere di situazioni contraddistinte da gross violations – qual è quella provocata da Boko Haram – senza prevedere, nel preambolo o nel testo, riferimenti o collegamenti all’ordinamento delle Nazioni Unite, allo scopo di coordinarsi con quest’ultimo (pertanto, secondo alcuni autori, entrando in conflitto con esso e attentando al primato del Consiglio di sicurezza e del diritto dell’ONU rispetto al diritto e all’attività dell’Unione africana, la quale in determinate circostanze finirebbe per godere di un potere di intervento autonomo: v. Kolb, “Article 53”, in La Charte des Nations Unies. Commentaire article par article (a cura di Cot et al.), Economica, Paris, 20053, p. 1403 ss., p. 1421 ss.), la stessa Unione, in occasione della recente sessione dell’Assemblea, abbia ribadito ancora una volta la necessità, affinché possa usare la forza, dell’autorizzazione del Consiglio di sicurezza. Forse solo perché si avverte, date le condizioni socio-economiche in cui versano i Paesi e le prevalenti organizzazioni africane, che l’effettiva realizzazione delle operazioni militari dipende in ultima analisi dal contributo finanziario e logistico delle Nazioni Unite e della più ampia comunità di Stati che queste rappresentano. Difficile però concludere, in queste circostanze, che il fondamento giuridico della missione in causa non risieda nella delibera che il Consiglio di sicurezza vorrà eventualmente adottare. Al momento, infatti, l’intervento del Consiglio si rende necessario per l’assenza del consenso del Governo di Abuja alla presenza di militari stranieri sul proprio territorio, il quale per vari motivi non appare granché entusiasta di tale prospettiva (non da ultimo per via, oltre che dei predetti contrasti con alcuni dei Paesi confinanti, delle imminenti elezioni presidenziali, programmate per metà febbraio, e dell’atteggiamento di una parte delle proprie forze armate). Ciò evidentemente comporta la natura coattiva dell’azione decisa dall’Unione africana e la sua riconducibilità alla disciplina prevista dal cap. VIII o – data la prassi di cui s’è detto – del cap. VII della Carta dell’ONU. Certo, lo scenario cambierebbe radicalmente di fronte all’eventuale inerzia del Consiglio e all’inasprimento dell’emergenza umanitaria. In tal caso, occorrerebbe guardare al diritto internazionale generale (nonché al diritto dell’Unione africana e delle altre organizzazioni subregionali interessate) per verificare se e che misura tali organizzazioni possano comunque godere di un potere di intervento autonomo (v., con riguardo agli interventi statali, Picone, “Interventi delle Nazioni Unite e obblighi erga omnes”, in Interventi delle Nazioni Unite e diritto internazionale (a cura di Picone), CEDAM, Padova, 1995, p. 517 ss.).

Inoltre, e siamo al terzo punto, si tratta di capire se l’eventuale autorizzazione del Consiglio di sicurezza tenda ad accorpare all’ONU l’operazione autorizzata o lasci invece un margine di autonomia all’Unione africana e, tramite questa, agli Stati partecipanti alla forza subregionale nella gestione politica e militare della missione. In particolare, occorre verificare se, in presenza dell’autorizzazione del Consiglio (e ammettendo, per semplificare, che le attività militari non possano formalmente attribuirsi agli Stati coinvolti, singolarmente o collettivamente considerati, ipotesi questa che solleva problemi autonomi e di diverso tipo, e che pure meriterebbe di essere analizzata), l’azione dell’Unione africana si svolga per conto dell’ONU – configurandosi quella come organo decentrato delle Nazioni Unite (secondo la nota impostazione di Quadri, Diritto internazionale pubblico, Liguori Editore, Napoli, 19685, p. 373 ss.) – o per conto proprio. In altri termini, se si tratti di un’operazione dell’ONU, imputabile all’ONU, o di un’operazione dell’Unione africana. Ciò potrebbe ricorrere qualora l’Unione non sia utilizzata né diretta dal Consiglio di sicurezza (nella logica dell’art. 53, par. 1, prima frase), ma agisca per conto proprio o della comunità internazionale. In tal caso, ancorché autorizzata, essa non eserciterebbe poteri delegati o trasferiti dal Consiglio in base alla Carta, come invece vorrebbe una parte della dottrina. In quest’ottica – in attesa di leggere il testo della delibera autorizzativa, se e quando il Consiglio di sicurezza intenderà adottarla, e fatte salve le considerazioni più sopra formulate in ordine agli effetti da ascrivere alla dichiarazione n. 4/2015 – rileva come finora il Consiglio di sicurezza non abbia voluto acquisire la direzione, il comando o il controllo politico o militare della missione, né ne abbia stabilito obiettivi o durata, né se ne sia garantito la supervisione. In principio, non sembra dunque potersi ragionevolmente parlare di un’operazione “utilizzata” dal Consiglio, ai termini dell’art. 53, par. 1, della Carta.

Infine, bisognerebbe anche chiarire che tipo di rapporti siano intercorsi tra le varie organizzazioni regionali e subregionali coinvolte nella gestione della crisi in Nigeria. L’assetto africano nel comparto della sicurezza collettiva è dato dalla coabitazione di organizzazioni con basi territoriali e competenze diverse. Tra Unione africana e pertinenti organizzazioni subregionali sembra potersi intravedere una connessione dai tratti piramidali (Balmond, op. cit., p. 73). Negli anni l’Unione africana, in qualità di organizzazione continentale, è andata via via assumendo compiti di raccordo e coordinamento – quanto al comando e al controllo politico e militare delle operazioni autorizzate e alla gestione delle loro componenti e finalità anche di natura civile – tra le Nazioni Unite e le organizzazioni subregionali africane, cui, in ultima analisi, è demandato l’utilizzo della forza. Si fa sempre più viva la tendenza delle organizzazioni subregionali africane a rivolgersi all’Unione africana perché questa domandi al Consiglio di sicurezza l’autorizzazione a ricorrere alla forza armata all’interno di uno dei loro Stati membri: sono le prime ad utilizzarla materialmente, sotto la guida e la regia della seconda, nell’esercizio di funzioni e competenze interne a quest’ultima, la quale finisce così per giocare un ruolo prevalente nella gestione della crisi. È quanto accaduto ad esempio nel caso del Mali (cfr. la risoluzione n. 2085 (2012) del Consiglio di sicurezza). Ebbene, questo schema sembra riproporsi anche nel caso della crisi in Nigeria, in quanto e nella misura in cui emerge il ruolo di raccordo tra Nazioni Unite e Stati africani partecipanti alla forza subregionale in via di dispiegamento contro gli estremisti di Boko Haram svolto dall’Unione africana, che verosimilmente assumerà anche la direzione e il coordinamento della missione, con conseguenti ripercussioni sul suo modo di essere e di operare rispetto alla risoluzione dei conflitti di dimensioni locali.

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