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L’esercizio dell’azione penale nei confronti dei trafficanti di migranti: le responsabilità dell’Italia… e quelle degli altri

Alessandra Annoni, Università Magna Graecia di Catanzaro

Stando a quanto affermato dal Presidente del Consiglio dei ministri nelle sue Comunicazioni al Senato alla vigilia del Consiglio europeo straordinario del 23 aprile scorso, le autorità italiane avrebbero ad oggi arrestato più di mille persone implicate nel traffico di migranti attraverso il Mediterraneo. Solo una minima percentuale di queste, però, è stata o sarà effettivamente processata in Italia.

Eppure non mancano, nel nostro ordinamento, fattispecie incriminatrici assistite da sanzioni severe per i trafficanti. Viene in rilievo, anzitutto, il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, previsto dall’art. 12 del testo unico sull’immigrazione, e sanzionato – oltre che con aspre multe – con pene che possono arrivare fino a trenta anni di reclusione nelle ipotesi, tutt’altro che rare, in cui gli atti diretti a procurare illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato siano stati compiuti a scopo di lucro e abbiano riguardato cinque o più migranti le cui vite, o la cui incolumità personale, siano state messe a rischio durante il trasporto. In ragione del trattamento riservato ai migranti, poi, la condotta dei trafficanti potrebbe integrare i delitti di percosse (art. 581 c.p.), lesioni personali (art. 582 c.p.), ingiuria (art. 594 c.p.), sequestro di persona (art. 605 c.p.), violenza sessuale (art. 609-bis), violenza privata (art. 610 c.p.) o minaccia (art. 612 c.p.). Nei casi, fin troppo frequenti, in cui la traversata si concluda tragicamente, ai trafficanti potrebbero essere contestati anche il delitto di naufragio doloso (art. 428 c.p.) o colposo (art. 449 c.p.) e quello di omicidio colposo (art. 589 c.p.) o di morte o lesione come conseguenza di altro delitto (art. 586 c.p.).

Come già evidenziato nel post di Gabriella Carella, l’applicazione della fattispecie di tratta di persone, di cui all’art. 601 c.p., risulta più difficoltosa. Introdotta nel 2003 e poi modificata nel 2014, la norma punisce con la reclusione da otto a venti anni «chiunque recluta, introduce nel territorio dello Stato, trasferisce anche al di fuori di esso, trasporta, cede l’autorità sulla persona, ospita una o più persone che si trovano [in condizioni di schiavitù o di servitù, così come definite nell’art. 600 c.p.], ovvero realizza le stesse condotte su una o più persone, mediante inganno, violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica, psichica o di necessità, o mediante promessa o dazione di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità, al fine di indurle o costringerle a prestazioni lavorative, sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportano lo sfruttamento o a sottoporsi al prelievo di organi». Il traffico di persone attraverso il Mediterraneo non integra necessariamente tutti gli elementi costitutivi di questo complesso delitto, alcuni dei quali (come la sussistenza della pregressa condizione di assoggettamento dei migranti o, in alternativa, del particolare dolo specifico richiesto dalla norma) sono in ogni caso assai difficili da provare. Allo stesso modo, e sebbene il traffico di migranti sia indiscutibilmente gestito da organizzazioni criminali transnazionali assai ben strutturate, non sempre è possibile contestare agli scafisti arrestati dalle autorità italiane il reato di associazione a delinquere, di cui all’art. 416 c.p. La conduzione dei “barconi”, invero, è sovente affidata a persone estranee all’organizzazione criminale; si tratta, in molti casi, di migranti che si prestano a questa attività in cambio di uno sconto sul prezzo della traversata.

A ben guardare, peraltro, l’ostacolo principale all’esercizio dell’azione penale nei confronti dei trafficanti non riguarda tanto il contenuto delle norme penali italiane, quanto l’ambito di applicazione spaziale delle stesse (cfr. sul punto le proposte operative avanzate dal Procuratore nazionale antimafia per la soluzione dei problemi di giurisdizione). In linea di principio, infatti, la legge penale italiana si applica esclusivamente ai reati commessi, almeno in parte, nel territorio dello Stato (art. 6 c.p.). È necessario, cioè, che almeno una frazione della condotta criminosa o dell’evento che ne è la conseguenza siano avvenuti nel territorio o nelle acque territoriali italiane; nel caso di concorso di persone nel reato, si richiede che in Italia sia stata posta in essere una qualsiasi attività di partecipazione da parte di almeno uno dei concorrenti (così Cass. pen., sez. V, 9 luglio 2008-20 ottobre 2008, n. 39205, in Ced Cassazione, Rv. 241695). L’esercizio della giurisdizione penale rispetto a crimini consumati interamente all’estero rappresenta, nel nostro ordinamento, un’eccezione. Esso è consentito per i reati puntualmente elencati nell’art. 7, nn. 1-4, c.p, per quelli rispetto ai quali speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana (art. 7, n. 5, c.p.), ovvero alle condizioni stabilite dagli art. 8 c.p. (per i delitti politici), 9 c.p. (per i delitti comuni commessi dal cittadino) e 10 c.p. (per i delitti comuni commessi dallo straniero). Quest’ultima disposizione, in particolare, consente di giudicare in Italia i delitti di una certa gravità commessi da stranieri all’estero ai danni dello Stato o di un cittadino italiano esclusivamente se il reo è presente nel territorio dello Stato e se vi è richiesta del ministro della giustizia o istanza o querela della persona offesa.

Per consentire l’esercizio dell’azione penale nei confronti dei trafficanti catturati dalle autorità italiane, la giurisprudenza ha talvolta avvalorato interpretazioni piuttosto “fantasiose” delle disposizioni citate. Significativa, in questo senso, è la sentenza n. 14510 del 2014 della Cassazione. Nel caso di specie, come sempre più spesso accade, i trafficanti avevano abbandonato i migranti in acque internazionali, senza cibo né acqua, a bordo di un natante del tutto inadatto a tenere il mare, confidando nel pronto intervento del soccorso marittimo, probabilmente allertato dagli stessi trafficanti prima di dileguarsi a bordo di un’altra imbarcazione. I naufraghi erano stati poi effettivamente soccorsi da una nave liberiana, quando ancora si trovavano in alto mare, e condotti in salvo sulla costa italiana. Le testimonianze dei migranti avevano quindi consentito alle autorità di polizia italiane di identificare fra loro il soggetto cui i trafficanti avevano affidato la conduzione del natante e nei suoi confronti era stata avviata l’azione penale. La Cassazione ha confermato la sussistenza della giurisdizione italiana per entrambi i reati contestati: il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e l’associazione a delinquere. Nel primo caso, i giudici hanno ritenuto pertinente l’art. 6 c.p., considerando di poter addossare allo scafista ed ai suoi complici la responsabilità per la condotta tenuta dai soccorritori nelle acque territoriali italiane, obiettivamente qualificabile come favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. I giudici di legittimità hanno ritenuto che la situazione in cui versavano i migranti alla deriva configurasse uno stato di necessità ai sensi dell’art. 54 c.p., tale da giustificare l’intervento di soccorso della nave liberiana e l’accompagnamento dei naufraghi sulla costa siciliana. Sottolineando come la condizione di pericolo per i migranti fosse stata artatamente generata dai trafficanti proprio per sollecitare l’intervento dei soccorritori, però, la Cassazione ha considerato pertinente l’art. 54, 3° co., c.p., ai sensi del quale se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo. Quella accolta dalla Cassazione costituisce senza dubbio un’interpretazione inedita di questa norma. Nella condotta dei trafficanti, infatti, è difficile scorgere i tratti del “costringimento psichico” che tipicamente caratterizza le ipotesi di applicazione dell’art. 54, 3° co., c.p., come nel caso di chi induce un soggetto a commettere un crimine puntandogli una pistola alla tempia o minacciando la vita dei suoi cari. Ma, nel caso di specie, è lo stesso riferimento alla scriminante dello stato di necessità a suscitare perplessità. Secondo la dottrina prevalente, infatti, il c.d. “soccorso di necessità” presuppone l’assenza del dovere di intervento in capo al soccorritore (Viganò, Stato di necessità e conflitto di doveri. Contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti, Giuffrè, Milano, 2000, p. 512 ss.). Quello di adoperarsi per salvare le persone in pericolo di “perdersi in mare”, invece, è un vero proprio obbligo giuridico, previsto da numerose convenzioni internazionali e corrispondente ad una regola ormai consolidata di diritto internazionale generale (Scovazzi, “La tutela della vita umana in mare, con particolare riferimento agli immigrati clandestini diretti verso l’Italia”, in Rivista di diritto internazionale¸2005, p. 106 ss). Più correttamente, dunque, la condotta dei soccorritori avrebbe dovuto essere inquadrata come adempimento di un dovere, scriminata non già in base all’art. 54 c.p., ma ai sensi dell’art. 51 c.p. Questa soluzione, tuttavia, avrebbe verosimilmente pregiudicato la possibilità di considerare i trafficanti quali “autori mediati” del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina materialmente posto in essere dai soccorritori in acque territoriali italiane, impedendo, in ultima analisi, l’esercizio della giurisdizione ai sensi dell’art. 6.

Non meno controversa appare la soluzione elaborata dalla Cassazione, nella sentenza in esame, per affermare la sussistenza della giurisdizione italiana con riferimento al reato di associazione a delinquere. La rilevanza dell’art. 6 c.p. è stata in questo caso esclusa, perché l’organizzazione criminale a cui lo scafista era accusato di partecipare non risultava avere alcuna ramificazione in Italia. La Corte ha però ritenuto di poter fondare la giurisdizione sull’art. 7, n. 5, c.p., in combinato disposto con l’art. 15, par. 2, lett. c), della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale del 2000, che consente (ma non impone) agli Stati parti di esercitare la propria potestà punitiva nei confronti di chi abbia costituito all’estero un’associazione criminale finalizzata alla commissione di reati gravi nel loro territorio. Non sembra, tuttavia, che il rinvio dell’art. 7, n. 5, c.p. alle «convenzioni internazionali che stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana» possa valere con riferimento a titoli di giurisdizione meramente facoltativi, come quello previsto dalla disposizione citata. Per divenire pienamente operativi nel nostro ordinamento, simili titoli di giurisdizione necessitano di un intervento del legislatore nazionale che estenda la rilevanza della legge penale italiana all’ipotesi contemplata dalla norma internazionale meramente “facoltizzante”. La l. 16 marzo 2006, n. 146, che ha reso esecutiva la Convenzione del 2000 nel nostro ordinamento, non contiene alcuna disposizione di questo tipo.

Le soluzioni prospettate nella sentenza n. 14510 del 2014 sono state ulteriormente sviluppate dalla Cassazione nella sentenza n. 3345 del 2015. In quel caso, l’imbarcazione sulla quale viaggiavano i migranti aveva fatto naufragio in acque internazionali e 17 persone avevano perso la vita prima che i soccorsi – allertati dagli scafisti – potessero intervenire. La Corte ritenne di poter affermare la sussistenza della giurisdizione italiana non solo in ordine al delitto di cui all’art. 12 del testo unico sull’immigrazione, ma anche con riferimento al reato di naufragio e a quello di omicidio, «in forza della loro stretta connessione con quello di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina […] parzialmente commesso in territorio italiano, sia pure per il tramite dell’intervento dei soccorritori». Questa conclusione, difficilmente giustificabile alla luce degli art. 6 ss. c.p., non è in alcun modo motivata, se non con il richiamo ad un’altra precedente sentenza (Cass. pen., sez. I, 20 novembre 2001-8 gennaio 2002, n. 325, in Ced Cassazione, Rv. 220436), che pure non sembra del tutto pertinente. In quel caso, il gommone su cui viaggiavano i migranti era stato intercettato in prossimità della costa salentina da alcune navi militari italiane, che l’avevano inseguito fino in acque internazionali, dove – a seguito di manovre avventate eseguite dagli scafisti – esso era stato travolto da una delle navi inseguitrici. La Cassazione aveva rinvenuto il fondamento per l’esercizio extraterritoriale dell’azione penale in ordine ai reati di naufragio e omicidio colposo nell’art. 23 della Convenzione sull’alto mare del 1958, ritenendo che dal “diritto di inseguimento” sancito in tale disposizione dovesse necessariamente discendere, quale logico corollario, il diritto di perseguire tutti i reati, quantunque consumati in acque internazionali, in rapporto di connessione necessaria con quello di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, o con qualsiasi altra violazione di leggi e regolamenti dello Stato rivierasco posta in essere dall’imbarcazione inseguita nelle acque territoriali, o in altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato.

Se, da un lato, gli sforzi della Cassazione di cui si è dato conto hanno consentito l’esercizio dell’azione penale con riferimento a fatti gravissimi che, altrimenti, rischiavano di restare impuniti, è del tutto evidente che una seria strategia di repressione del traffico di migranti non può essere affidata alle “acrobazie ermeneutiche” della giurisprudenza: le esigenze di certezza del diritto rendono non più procrastinabile un intervento del legislatore, che estenda espressamente l’ambito della giurisdizione penale italiana agli atti inequivocabilmente preordinati a favorire l’ingresso illegale di migranti in Italia, anche se posti in essere esclusivamente all’estero o in acque internazionali, e alla partecipazione ad associazioni criminali prive di ramificazioni in Italia ma finalizzate al compimento di crimini gravi nel Paese.

Un simile intervento si renderà viepiù necessario se prenderà corpo l’ipotesi di istituire nel quadro della politica di sicurezza e di difesa comune una missione europea di polizia internazionale, finalizzata a smantellare le reti dei trafficanti, assicurare i responsabili alla giustizia e sequestrare i loro beni. La proposta, ventilata durante il Consiglio europeo straordinario del 23 aprile scorso (sul quale v. il post di Chiara Favilli), è quella di costruire tale operazione sul modello della missione UE Atalanta, che dal 2008 svolge funzioni antipirateria al largo delle coste somale. Nelle intenzioni dei promotori, l’ambito di intervento della nuova missione dovrebbe comprendere, oltre alle acque internazionali del Mediterraneo, il mare territoriale e il territorio libico, permettendo di intercettare, visitare ed eventualmente sequestrare i barconi anche senza il consenso dello Stato di bandiera (nelle ipotesi, per la verità piuttosto rare, in cui i trafficanti si servano di imbarcazioni registrate) e consentendo la cattura non solo degli scafisti, ma anche di coloro che gestiscono il traffico di migranti da terra. Come avvenuto per Atalanta, la missione dovrebbe essere autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell’ONU e godere del consenso del governo locale, ma la guerra civile attualmente in corso in Libia renderà verosimilmente assai ardua l’individuazione dell’autorità legittimata ad esprimere un simile consenso.

Se verrà effettivamente istituita, la missione UE rischierà comunque di trovarsi a fronteggiare problemi simili a quelli che si presentarono durante il primo periodo di funzionamento delle missioni antipirateria istituite al largo delle coste somale, quando i militari impegnati nelle operazioni si vedevano costretti a rilasciare i pirati appena catturati, perché nessuno Stato era disposto a farsi carico di esercitare l’azione penale nei loro confronti. All’epoca, l’Italia fece la propria parte per combattere l’impunità, inserendo nell’art. 5 del d.l. 30 dicembre 2008, n. 209 (contenente la proroga della partecipazione italiana a missioni internazionali) una disposizione speciale, rilevante ai fini dell’art. 7, n. 5, che consente di punire in Italia i reati di pirateria e di rapina a mano armata in mare e quelli a essi connessi ai sensi dell’art. 12 c.p.p., se commessi a danno dello Stato o di cittadini o beni italiani in alto mare o in acque territoriali altrui e accertati nelle aree in cui svolge la missione UE Atalanta.

Come nel caso della lotta alla pirateria, d’altra parte, la responsabilità per la punizione dei criminali catturati non può gravare su un unico Paese. Se davvero la repressione del traffico di migranti risponde a un interesse comune degli Stati membri, come dichiarato dal presidente del Consiglio europeo nella sua recente relazione al Parlamento europeo, anche il peso dell’esercizio dell’azione penale dovrà essere in qualche modo condiviso. Del resto, la violazione delle frontiere esterne dell’Unione danneggia tutti gli Stati appartenenti all’area Schengen e non soltanto gli Stati di “primo ingresso” dei migranti. Né pare che l’eventuale estensione della giurisdizione penale di Stati diversi dall’Italia ai crimini di traffico di migranti perpetrati nel Mediterraneo possa essere considerata in contrasto con il diritto internazionale. Salva l’ipotesi di divieti puntualmente previsti da norme pattizie o consuetudinarie, infatti, l’unico limite che lo Stato incontra nell’esercizio extraterritoriale della propria potestà punitiva è quello dell’abuso di diritto, che subordina la pretesa di esercitare l’azione penale alla presenza di un collegamento significativo fra lo Stato e il crimine. Il legame può riguardare la nazionalità del reo (principio della personalità attiva), quella della vittima (principio della personalità passiva), o la “titolarità” del bene offeso dal reato (principio della difesa). In base a quest’ultimo principio, lo Stato può senza dubbio estendere la propria giurisdizione penale agli atti, quantunque perpetrati all’estero, volti a favorire l’ingresso irregolare di migranti nel proprio territorio. A seguito dell’abolizione delle frontiere interne all’area Schengen, però, il principio della difesa sembra giustificare anche un maggiore attivismo da parte degli Stati europei, consentendo loro di esercitare la propria potestà punitiva rispetto a qualsiasi atto teso a favorire la violazione delle frontiere esterne della “fortezza Europa”. Va considerato, poi, che il traffico di migranti attraverso il Mediterraneo non rappresenta soltanto un vulnus per la sovranità territoriale degli Stati di destinazione, ma comporta anche gravi e sistematiche violazioni dei diritti fondamentali dei migranti, che oltretutto sono sovente persone bisognose di protezione internazionale (si veda sul punto il post di Francesca De Vittor). In quest’ottica, l’esercizio della potestà punitiva di qualsiasi Stato europeo nei confronti dei trafficanti sembrerebbe ulteriormente legittimato, alla luce del principio della difesa, perché volto a salvaguardare i valori di civiltà e di rispetto della persona umana su cui si fonda la stessa Unione (art. 2 del Trattato UE).

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