diritto internazionale pubblico

La sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti sul matrimonio omosessuale e il diritto internazionale

Chiara Vitucci, Seconda Università di Napoli

Dallo scorso 26 giugno, giorno in cui è stata pubblicata l’attesissima sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti sul matrimonio omosessuale nel caso Obergefell v. Hodges, su giornali, periodici, blog non si fa che esaltare l’importanza di questa decisione, che mette un punto a più di vent’anni di dibattito sul tema.

Sarebbe agevole unirsi al coro (non privo di voci dissenzienti, come quella del governatore del Texas, che ha immediatamente emanato un memorandum in cui invita i vertici dell’apparato amministrativo a garantire il diritto all’obiezione di coscienza da parte dei pubblici ufficiali) e sottolineare i passi importanti della decisione. La prospettiva del diritto internazionale è però più limitata e non permette di valorizzare ogni singolo aspetto della sentenza. Ci limiteremo dunque, dopo averne fatto una rapida sintesi, ad analizzare i soli aspetti che ci sembrano di rilievo per il diritto internazionale.

I ricorrenti avevano posto alla Corte due domande: se il XIV emendamento imponesse l’autorizzazione del matrimonio omosessuale. E se lo stesso emendamento esigesse il riconoscimento del matrimonio omosessuale celebrato in uno degli Stati dove è permesso.

La decisione è stata adottata con una maggioranza di 5 a 4. All’opinione della maggioranza, del giudice Kennedy, si contrappongono quattro veementissime opinioni dissidenti. Quella argomentata meglio, del presidente Roberts (ma anche il giudice Scalia si sofferma sul medesimo tema), solleva un punto molto dibattuto dai costituzionalisti statunitensi: come si debba interpretare la costituzione, se debba prevalere un’interpretazione tradizionale o a chi spetti il compito di garantire nuovi diritti, se al legislatore o alle corti. Il ruolo dei giudici nel processo democratico, di sicuro interesse per la teoria costituzionale, riveste un’importanza più limitata per l’internazionalista, per il quale sia un’importante decisione quale quella in esame, sia il DOMA (Defense of Marriage Act) e i cosiddetti mini DOMA, rispettivamente legge federale e leggi statali che permettevano il non riconoscimento dei matrimoni omosessuali celebrati all’estero o in altri Stati membri della federazione, costituiscono prassi dello Stato. Ugualmente, l’opinione del giudice Thomas tocca il problema della definizione di libertà, che può essere intesa sia come libertà da azioni dello Stato che come diritto a ottenere prestazioni dal governo. Per Thomas la costituzione statunitense garantisce una libertà solo negativa e ogni altra interpretazione porrebbe a repentaglio la libertà di religione. Infine il giudice Alito affronta i problemi del radicamento dei diritti nella tradizione, sostenendo tesi analoghe a quelle già tratteggiate da Roberts.

L’opinione di maggioranza afferma il diritto costituzionale al matrimonio tra persone dello stesso sesso; in particolare si tratta di un diritto fondamentale.

La prima parte della motivazione, suddivisa in due sottoargomenti, è tesa a sostanziare il significato del valore del matrimonio per la realizzazione della propria personalità, sia individuale, sia nel contesto sociale. Viene quindi evidenziata la connessione tra il matrimonio e un’ampia nozione di libertà.

Successivamente la Corte utilizza l’argomento secondo cui il diritto al matrimonio egualitario è fondamentale per tutelare i bambini nati e cresciuti all’interno di una famiglia omogenitoriale, bambini che altrimenti vedrebbero la propria dignità sminuita. Al tempo stesso l’opinione di maggioranza è attenta a svincolare il matrimonio dalla procreazione.

Da ultimo si afferma che il matrimonio costituisce una pietra miliare dell’ordine sociale ed è per questo motivo che al matrimonio sono connessi alcuni benefici. Ciò è vero a prescindere dalla circostanza che i coniugi siano o non dello stesso sesso. Altrimenti si imporrebbe uno stigma sociale sulle coppie omosessuali, che lederebbe la loro libertà e dignità.

Mentre la sentenza Lawrence v. Texas che aveva sancito l’incostituzionalità dell’incriminazione della sodomia aveva fatto perno su molte decisioni straniere, quasi a voler sostenere una sorta di opinio iuris internazionale, l’approccio seguito dalla Corte per affermare la costituzionalità del matrimonio egualitario è interamente fondata sul diritto interno, su due emendamenti della Costituzione e su una lettura evolutiva della Carta costituzionale. La maggioranza poggia le proprie argomentazioni sulla sinergia tra equal protection clause sancita nel XIV emendamento, corrispondente al principio di eguaglianza, e due process clause contenuta nel V emendamento, che afferma il principio in base al quale per negare l’accesso a un diritto fondamentale occorre che il governo abbia un’adeguata giustificazione, giustificazione che non viene rinvenuta nel caso di specie. Certo non basta l’argomento tradizionale per cui i diritti devono essere ben radicati nella storia e nelle tradizioni: «The right to marry is fundamental as a matter of history and tradition, but rights come not from ancient sources alone. They rise, too, from a better informed understanding of how constitutional imperatives define a liberty that remains urgent in our own era» (pp. 18-19).

Si ripercorre poi la storia del matrimonio per vedere come si tratti di un’istituzione non certo immutabile. A chi sostiene che non vi sia stato un sufficiente dibattito pubblico sul tema del matrimonio egualitario e che simile modifica debba essere ottenuta attraverso il processo democratico, la Corte risponde in maniera molto netta, nella piena consapevolezza del proprio ruolo contro-maggioritario: «An individual can invoke a right to constitutional protection when he or she is harmed, even if the broader public disagrees and even if the legislature refuses to act». Di qui l’urgenza di una decisione favorevole al matrimonio per tutti, per evitare che l’assenza di riconoscimento, col carico di stigma sociale e emarginazione che porta con sé, possa continuare a violare la libertà e dignità degli omosessuali. In questo passaggio troviamo un’affermazione in cui viene rovesciata la vecchia concezione di libertà negativa, quella secondo cui lo Stato non può ingerirsi in comportamenti privati che non rechino danno (harm) ad altri. Ora infatti è l’inerzia dello Stato, e in particolare del legislatore, che produce un danno, perpetuando quel trattamento differenziato, che fa sentire gli omosessuali esclusi e umiliati. Inerzia cui la Corte sente il dovere di rimediare, in modo da far cessare il danno.

Dopo aver quindi affermato che le coppie dello stesso sesso debbono poter esercitare il proprio fondamentale diritto al matrimonio in tutti gli Stati, la Corte applica lo stesso ragionamento al riconoscimento dei matrimoni egualitari celebrati in altri Stati membri della federazione. Le situazioni giuridiche claudicanti che altrimenti si verificherebbero nello spazio degli Stati Uniti contribuirebbero a quello stato di instabilità e incertezza da solo idoneo a violare la libertà e dignità delle persone.

Il riconoscimento di un matrimonio celebrato in un altro Stato membro della federazione (sister State) non corrisponde perfettamente al riconoscimento di un matrimonio celebrato all’estero, anche se le due situazioni presentano un forte grado di analogia.

Nel diritto internazionale, i cui soggetti sono gli Stati sovrani, non vi è alcun obbligo di riconoscere situazioni venute in essere in altri Stati, anche se, in tempi recenti, la protezione dei diritti fondamentali dell’individuo sembra porre qualche limite al disconoscimento di effetti a situazioni sorte all’estero, almeno in contesti regionali. Ad esempio, a esito della sentenza adottata dalla Corte europea dei diritti umani nel caso Wagner c. Lussemburgo, il Lussemburgo ha dovuto riconoscere gli effetti di un’adozione peruviana effettuata da una donna single nonostante le disposizioni lussemburghesi non prevedessero tale tipo di adozione.

Limitatamente all’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’Unione europea, norme in materia di libera circolazione come la direttiva 2004/38/CE impongono il riconoscimento di taluni effetti agli status creati all’estero. Diversi tribunali di merito italiani, ad esempio, hanno fatto valere alcuni diritti derivanti dallo status acquisito all’estero per far ottenere la carta di soggiorno a stranieri coniugati all’estero con cittadini comunitari dello stesso sesso. E solo pochi giorni fa è stata depositata la sentenza nella quale la Corte d’appello di Napoli ha ordinato all’ufficiale di stato civile del comune di Santo Stefano del Sole (AV) di trascrivere nei registri di stato civile il matrimonio tra due donne francesi (una delle quali in possesso anche della cittadinanza italiana) che, dopo essersi validamente sposate in Francia, si erano trasferite in Italia per lavoro. Anche in questo caso la motivazione del giudice si fonda, tra l’altro, sul diritto fondamentale riconosciuto ai cittadini dell’Unione di circolare o soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri (art. 21 TFUE).

Per quanto riguarda il riconoscimento di matrimoni validamente contratti in un altro Stato membro della federazione, negli Stati Uniti, di norma, ciò avveniva sia sulla base della cosiddetta doctrine of comity, sia sulla base delle regole di diritto internazionale privato che permettevano tale riconoscimento a meno che l’atto non fosse considerato ripugnante. La soglia di ripugnanza, una sorta di eccezione di ordine pubblico, era molto alta e non ha impedito il riconoscimento di matrimoni omosessuali validamente contratti fino all’emanazione, in alcuni Stati conservatori, dei cosiddetti mini DOMA, adottati su imitazione del Defence of Marriage Act, legge federale del 1996 che impediva allo Stato federale di riconoscere validità ed effetti ai matrimoni omosessuali contratti all’estero o in uno dei sister States. Già la legge federale era stata dichiarata incostituzionale con la sentenza United States c. Windsor del giugno 2013; con la sentenza in commento si afferma ora in maniera netta che nessuno Stato federato può rifiutarsi di riconoscere matrimoni omosessuali validamente celebrati in uno dei sister States.

Nonostante, come già anticipato, si tratti di un atto statale fondato sul diritto interno, la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti è assai significativa per il diritto internazionale non solo per questa analogia con il funzionamento del diritto internazionale privato.

L’opinione di maggioranza si colloca molto avanti nel percorso di affermazione dei diritti civili, definita da Ackerman The Civil Rights Revolution, e consiste in un importante atto di prassi statale. Oltre a contare dal punto di vista quantitativo, facendo aumentare il numero di Stati che riconosce il matrimonio egualitario, la sentenza nel caso Obergefell v. Hodges rileva qualitativamente, per il modo in cui afferma tale diritto. Fino a oggi, infatti, la maggior parte dei giuristi che si sono occupati di tutela dell’orientamento sessuale, hanno affrontato la questione nell’ottica dell’esistenza o meno di un diritto umano a non essere discriminati per il proprio orientamento sessuale. Il processo di affermazione di tale diritto è stato suddiviso in tappe: dal divieto di incriminazione degli atti sessuali tra adulti consenzienti all’introduzione dell’orientamento sessuale tra i motivi di discriminazione vietata, al riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali fino ad arrivare ai diritti familiari (Waaldijk). In realtà tale percorso non si presenta lineare bensì accidentato e ricco di contraddizioni. L’ultima sentenza della Corte Suprema statunitense compie un passo in avanti, non contenendo alcun riferimento al divieto di discriminazioni. Tale tema sembra talora riemergere sottotraccia, attraverso il riferimento al passato di stigmatizzazione che lederebbe la dignità degli individui. Tutto il ragionamento della Corte è invece incentrato e argomentato sul diritto al matrimonio come diritto fondamentale e inclusivo (comprehensive) di tutti gli individui, a prescindere da questioni di razza (Loving), di libertà o prigionia (Turner) o di condizioni economiche (Zablocki). Come già aveva fatto in Lawrence, la Corte parla in maniera concreta di individui reali, di storie di vita, il che permette di poggiare il diritto al matrimonio inclusivo sul principio di libertà, uguaglianza, autodeterminazione e dignità. Questa sembra davvero la rivoluzione dei diritti civili.

Un’ultima notazione, che prescinde dal diritto internazionale: il lettore ‘laico’, formato alla scuola di David Cooper, avverte un certo disagio leggendo le pagine dell’opinione di maggioranza in cui si esalta il ruolo del matrimonio quale quasi necessaria scelta di vita se si vuole essere pienamente realizzati, dal punto di vista individuale e sociale. Probabilmente questo era il prezzo da pagare per ottenere il risultato. Ora finalmente anche un omosessuale (statunitense) sarà libero di non sposarsi.

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