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L’attivazione della clausola UE di mutua assistenza a seguito degli attacchi terroristici del 13 novembre 2015 in Francia

Antonino Alì, Università di Trento

L’invocazione della clausola contenuta nell’art. 42, par. 7, TUE.

Nel discorso del 16 novembre 2015 al Parlamento riunito in seduta comune il Presidente francese Hollande esordiva:

«La France est en guerre. Les actes commis vendredi soir à Paris et près du Stade de France, sont des actes de guerre. Ils ont fait au moins 129 morts et de nombreux blessés. Ils constituent une agression contre notre pays, contre ses valeurs, contre sa jeunesse, contre son mode de vie».

Nel considerare gli attentati terroristici avvenuti a Parigi il 13 novembre “atti di guerra” e una “aggressione”, il Presidente francese comunicava di aver chiesto al Ministro della Difesa di attivare i suoi colleghi europei a norma dell’articolo 42., par. 7, del Trattato sull’Unione europea («J’ai demandé au ministre de la Défense de saisir dès demain ses homologues européens au titre de l’article 42-7 du traité de l’Union qui prévoit que lorsqu’un Etat est agressé, tous les Etats membres doivent lui apporter solidarité face à cette agression car l’ennemi n’est pas un ennemi de la France, c’est un ennemi de l’Europe») (v. il commento di Dickinson e di Anthony Dworkin).

Secondo l’articolo in esame, «Qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri.

Gli impegni e la cooperazione in questo settore rimangono conformi agli impegni assunti nell’ambito dell’Organizzazione del Trattato del Nord-Atlantico (NATO) che resta, per gli Stati che ne sono membri, il fondamento della loro difesa collettiva e l’istanza di attuazione della stessa».

La richiesta di solidarietà formulata dal Presidente francese veniva così sollecitata il 17 novembre dal Ministro della Difesa Le Drian in occasione della riunione del “Consiglio difesa”. Il Consiglio affari esteri nella composizione dei Ministri della Difesa degli Stati membri UE esprimeva all’unanimità «forte sostegno e piena disponibilità a fornire tutto l’aiuto e assistenza richiesto e necessario».

In maniera similare a quanto avvenuto all’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001, quando, a seguito di colloqui tra gli USA e gli Stati membri NATO, il 2 ottobre 2001, fu attivata per la prima volta la clausola di difesa collettiva contenuta nell’art. 5 del Trattato di Washington, viene oggi richiesta l’applicazione della clausola di mutua assistenza contenuta nell’art. 42, par. 7, TUE, che rappresenta una delle novità introdotte dal Trattato di Lisbona nel campo della Politica estera di sicurezza e difesa comune dell’Unione europea (PESDC).

Nella conferenza stampa successiva alla riunione del “Consiglio difesa” l’Alto rappresentante Mogherini precisava alcuni punti in relazione alla novità determinata dall’attivazione della clausola e, in particolare, che: l’art. 42, par. 7, non avrebbe richiesto alcuna decisione formale da parte degli Stati membri o del Consiglio; l’azione non avrebbe implicato la creazione di una missione dell’Unione europea; non vi sarebbe stato bisogno di ulteriori formalità; e, infine, l’attivazione dell’art. 42, par. 7, non avrebbe implicato missioni o operazioni dell’Unione europea nel campo della politica di sicurezza e di difesa comune PSDC. Veniva, infine, precisato che l’aiuto e l’assistenza richiesti dalla Francia sarebbero stati prestati a seguito di accordi bilaterali e che l’UE, eventualmente, avrebbe potuto facilitare e coordinare l’azione se ciò fosse stato considerato utile e necessario (sull’eventuale coinvolgimento dell’Unione europea, esclusa dalla lettera dell’art. 42, par. 7, e su un eventuale ricorso alla clausola di flessibilità dell’art. 352 TFUE, v. Tosato).

A conferma di quanto affermato dall’Alto rappresentante, il Ministro della Difesa francese sottolineava che l’invocazione della clausola dell’art. 42, par. 7, costituiva «un atto politico di grande portata», che avrebbe consentito di dare luogo a discussioni bilaterali e al coordinamento necessario per tradurre questo impegno in azioni degli Stati membri UE.

L’attivazione dell’articolo in esame può consentire alcune brevi osservazioni.

L’art. 42, par. 7: una “novità” del Trattato di Lisbona.

La clausola è stata attivata nel corso di una riunione degli Stati membri tenutasi in occasione di una sessione del Consiglio. Come è stato segnalato, tanto nella conferenza stampa quanto nei primi commenti (v. Parlamento europeo e Hillion-Blockmans) emerge che la discussione tra gli Stati membri UE riguardo all’attivazione della clausola è avvenuta casualmente in occasione del “Consiglio difesa”. L’art. 42, par. 7, non richiede, infatti, particolari formalità poiché nessun atto formale è richiesto dal Consiglio. Essendo già programmata una riunione del Consiglio affari esteri nella formazione dei Ministri della Difesa, si è ritenuto che i suoi componenti potessero discutere dell’attivazione della clausola in quella sede. L’attivazione della clausola, peraltro, non presuppone necessariamente una richiesta dello Stato attaccato (anche se può presumersi che l’iniziativa dello Stato aggredito avvierà la discussione tra gli Stati membri).

La natura e il contenuto della disposizione sono comprensibili in considerazione delle ragioni che hanno portato alla sua inclusione nel Trattato di Lisbona. È noto che, nonostante alcune obiezioni sollevate nell’ambito dei lavori della Convenzione europea che aveva preparato la bozza di “trattato costituzionale” (v. i par. 61-63 della Relazione finale del Gruppo VIII “Difesa” del 16 dicembre 2002), la disposizione era già presente nell’art. I-41 del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa.

In questo senso, come viene da più parti osservato, la formulazione del par. 7 tiene conto di un compromesso tra le posizioni di tre gruppi di Stati: quelli che miravano a un impegno di mutua assistenza sul piano militare; quelli “non allineati”; e, infine, quelli che ritenevano non accettabile la clausola in virtù dell’esistenza della difesa collettiva NATO e della necessità di non sminuirne la centralità del ruolo.

La considerazione di tali esigenze e la flessibilità propria della politica di difesa dell’UE emergono dalla formulazione dell’art. 42, par. 7, TUE, che presenta una struttura singolare tale da distinguerlo sia dall’analoga disposizione del Trattato NATO (art. 5), sia da quella del Trattato UEO (v. infra).

Infatti, il Trattato di Lisbona, introducendo la clausola di mutua assistenza con il par. 7 dell’art. 42, tiene conto tanto del «carattere specifico della politica di sicurezza e difesa di taluni Stati membri», quanto della necessità che «gli impegni e la cooperazione in questo settore rimangono conformi agli impegni assunti nell’ambito dell’Organizzazione del trattato del Nord-Atlantico che resta, per gli Stati che ne sono membri, il fondamento della loro difesa collettiva e l’istanza di attuazione della stessa».

Benché, in prima battuta, l’invocazione della suddetta clausola richiami quella più nota contenente il principio fondante della NATO, la struttura del par. 7 dell’art. 42 riprende, quanto meno in parte, quella dell’art. V del Trattato di Bruxelles su cui si basava l’Unione europea occidentale (UEO) (Trattato di Bruxelles del 17 marzo 1948 modificato con l’Accordo di Parigi del 23 ottobre 1954). Secondo tale disposizione:

«If any of the High Contracting Parties should be the object of an armed attack in Europe, the other High Contracting Parties will, in accordance with the provisions of Article 51 of the Charter of the United Nations, afford the Party so attacked all the military and other aid and assistance in their power».

L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha, di fatto, segnato la fine della UEO e comportato il “trasferimento” e l’“adattamento” della clausola nel Trattato UE.

Nel testo del par. 7 viene utilizzata l’espressione «aggressione armata» rispetto a quella di «attacco armato» del Trattato UEO (o dell’art. 5 NATO) e scompare l’aggettivo «militare», al fine di sottolineare che le misure di aiuto e di assistenza messe a disposizione da alcuni Stati membri neutrali potrebbero essere di carattere civile. È evidente che l’esplicito riferimento all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite tanto nell’art. 42, par. 7, TUE quanto nella parallela disposizione dell’art. V del Trattato di Bruxelles del 1948 non mancherà di riaprire il dibattito sulla configurabilità della legittima difesa in relazione ad attori non statali, questione ancora controversa in dottrina e in parte in giurisprudenza (tuttavia, quasi esclusivamente nelle opinioni dissenzienti; si pensi a quelle in relazione al parere della Corte internazionale di giustizia del 2004 sulle “Conséquences juridiques de l’édification d’un mur dans le territoire palestinien occupé” dei giudici Higgings, Kooijmans, Buergenthal e nel caso del 2005 “Activités armées sur le territoire du Congo (République démocratique du Congo c. Ouganda)” dei giudici Kooijmans e Simma), nonostante la dottrina e la giurisprudenza prevalente ritengano che l’art. 51 si applichi solo in relazione ad attacchi da parte di enti statali.

A tale proposito è interessante osservare che nel discorso del Presidente francese l’espressione “legittima difesa” non compare mai nell’intervento alle Camere riunite. L’invocazione dell’art. 51 è invece esplicita nelle lettere inviate l’8 settembre 2015 al Segretario generale delle Nazioni unite e al Presidente del Consiglio di sicurezza, in cui la Francia comunica che: «In accordance with Article 51 of the Charter of the United Nations  France has taken actions involving the participation of military aircraft in response to attacks carried out by ISIL from the territory of the Syrian Arab Republic» (v. in relazione agli interventi militari francesi in Siria questo commento).

Appare evidente, tuttavia, come sia l’Alto rappresentante UE sia il Ministro della Difesa francese abbiano precisato l’effettiva portata (c’è chi ha parlato di ridimensionamento) della clausola segnalandone gli effetti politici e solidaristici e allontanando dall’immaginario collettivo l’idea di un’Unione europea e dei sui Stati membri “in guerra” con i mandanti degli attacchi di Parigi in forza di un automatismo giuridico.

La disposizione è, infatti, espressione di un principio fondamentale della politica estera e di sicurezza dell’Unione esplicitato nell’art. 24, par. 3, TUE, laddove si afferma che «gli Stati membri sostengono attivamente e senza riserve la politica estera e di sicurezza dell’Unione in uno spirito di lealtà e di solidarietà reciproca e rispettano l’azione dell’Unione in questo settore». Come è stato efficacemente notato (Koutrakos, p. 70), in un campo come quello della politica estera dell’Unione «the obvious often needs to be stated» e, pertanto, è in questo contesto che va compresa la clausola di mutua assistenza. Non a caso si sottolinea che la clausola riveste un «forte significato politico, come espressione dell’esistenza di un principio di solidarietà tra gli Stati membri», ma «meno rilevante sul piano operativo» (Adam – Tizzano, p. 838).

La competenza della Corte di giustizia è esclusa.

Sono in ogni caso gli Stati membri ad agire, non l’UE (e, quindi, le sue istituzioni). Quest’ultima – se richiesto – può semmai svolgere un ruolo di coordinamento o di facilitazione dei contatti tra lo Stato attaccato e gli altri Stati membri dell’UE. La competenza della Corte di giustizia è esclusa in termini generali «per quanto riguarda le disposizioni relative alla politica estera e di sicurezza comune» e per «gli atti adottati in base a dette disposizioni» (v. art. 275 TFUE e art. 24, par. 1, TUE).

Le uniche deroghe in materia, infatti, sono quelle previste per l’impugnazione delle misure restrittive nei confronti di persone fisiche o giuridiche (nel campo della lotta al terrorismo e più in generale della PESC) e quelle previste dall’art. 40 TUE, in relazione ai poteri delle istituzioni. L’attuazione della politica estera e di sicurezza comune non può, infatti, incidere su «l’applicazione delle procedure e la rispettiva portata delle attribuzioni delle istituzioni previste dai trattati per l’esercizio delle competenze dell’Unione di cui agli articoli da 3 a 6 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea» e su quelle «previste dai trattati per l’esercizio delle competenze dell’Unione nel campo della PESC. Nel caso dell’art. 42, par. 7, in assenza di un coinvolgimento delle istituzioni dell’Unione, è difficile ipotizzare un intervento della Corte di giustizia in relazione all’attivazione della clausola, così come in riferimento alla concreta attuazione degli obblighi di solidarietà da parte degli Stati membri.

Dovrebbe pertanto escludersi anche la competenza della Corte in caso di una procedura di infrazione, sia in quella ad iniziativa della Commissione (art. 258 TFUE), che in quella ad iniziativa di uno Stato membro (art. 259 TFUE).

In particolare, in relazione a quest’ultima ipotesi, nonostante possa apparire alquanto improbabile, ci si può domandare se, a seguito del mancato rispetto degli impegni previsti di aiuto e assistenza da parte di uno Stato membro e in assenza della competenza della Corte a verificare dell’infrazione, potrebbe essere utilizzato un altro meccanismo di soluzione delle controversie a livello internazionale.

L’art. 344 TFUE (ex art. 292 TCE), in base al quale «gli Stati membri si impegnano a non sottoporre una controversia relativa all’interpretazione o all’applicazione dei trattati a un modo di composizione diverso da quelli previsti dal trattato stesso», sembrerebbe escluderlo. La Corte, in questo senso, nel caso Mox, ha affermato che: «l’obbligo degli Stati membri, previsto dall’art. 292 CE, di ricorrere al sistema giurisdizionale comunitario e di rispettare la competenza esclusiva della Corte che ne costituisce un tratto fondamentale dev’essere inteso come manifestazione specifica del loro più generale dovere di lealtà risultante dall’art. 10 CE» (par. 169).

Tuttavia, in questa ipotesi, come sopra evidenziato, una competenza della Corte è esclusa espressamente dai Trattati, mentre la ratio dell’art. 344 TFUE è assicurare la competenza esclusiva della Corte.

Sembrerebbe, pertanto, che gli Stati debbano egualmente impegnarsi a risolvere un’eventuale controversia per le vie diplomatiche evitando di utilizzare vie giurisdizionali esterne. Qualcuno potrebbe, invece, obiettare che potrebbe trattarsi di uno di quei (rari) casi in cui l’utilizzo di un meccanismo esterno all’ordinamento UE non generebbe una violazione del diritto dell’Unione.

“Un’aggressione armata all’unanimità …”

Gli Stati hanno ritenuto all’unanimità che i fatti di Parigi costituissero un’aggressione armata ai sensi dell’art. 42, par. 7, e che pertanto l’attivazione della clausola fosse possibile in considerazione della particolare gravità degli attacchi terroristici (v. Tosato, Gestri e Dickinson).

L’aggressione è avvenuta in Francia da parte di individui che, in base alle prime ricostruzioni, risulterebbero in prevalenza di nazionalità francese e belga e alcuni dei quali avevano partecipato come foreign fighters al conflitto in Siria nelle file dello Stato islamico. In molti casi si trattava di quelli che, con un’espressione riassuntiva, vengono definiti nella risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite n. 2178/2014foreign terrorist fighters” («individuals who travel to a State other than their States of residence or nationality for the purpose of the perpetration, planning, or preparation of, or participation in, terrorist acts or the providing or receiving of terrorist training, including in connection with armed conflict, and resolving to address this threat») o più correttamente degli ex foreign terrorist fighters (per un’analisi dei numerosi problemi giuridici in relazione al fenomeno dei foreign fighters, v. questo Rapporto; sia, inoltre, consentito rinviare anche al nostro e, per quanto riguarda la definizione di FTF, a Sossai).

Gli attacchi terroristici di Parigi sono stati la prima manifestazione di rilievo del rientro in Europa di foreign fighters e cioè del fenomeno del c.d. blowback. La possibilità che determinati combattenti stranieri, dopo aver partecipato agli scontri in Siria ed aver partecipato alle ostilità con modalità terroristiche (rectius violando il principio di distinzione tra civili e militari e commettendo altre violazioni del diritto internazionale umanitario che in tempo di pace verrebbero qualificati come atti di terrorismo), possano partecipare ad azioni terroristiche anche negli Stati di provenienza o impegnarsi in azioni di proselitismo, ha destato forte preoccupazione (per un’analisi del fenomeno del blowback nel contesto di altri conflitti, v. De Roy Van Zuijdewijn, Bakker).

Occorre, inoltre, tenere presente che una settimana dopo i fatti di Parigi del 13 novembre, il Consiglio di sicurezza con la risoluzione n. 2249(2015) del 20 novembre 2015, condannando tanto gli attentati di Parigi quanto quelli avvenuti  il 26 giugno 2015 a Sousse, ad Ankara il 10 ottobre 2015, il 31 ottobre 2015 nel Sinai, il 12 novembre a Beirut e le altre azioni terroristiche, affermava che erano stati commessi dallo Stato islamico («attacks perpetrated by ISIL also known as Da’esh»). Per tutti questi motivi e per i «continued gross, systematic and widespread abuses of human rights and violations of humanitarian law» il Consiglio di sicurezza, rafforzando ulteriormente quanto già affermato nelle risoluzioni 2170 (2014), 2178 (2014) and 2199 (2015), definiva lo “Stato islamico” «a global and unprecedented threat to international peace and security».

Le risposte degli Stati membri dell’Unione europea a «una aggressione armata».

Le scelte degli Stati sono apparse fin dall’inizio diverse. Pur in presenza di un obbligo di «aiuto e di assistenza» per gli Stati membri rispetto allo Stato attaccato, le modalità e le forme  dell’esercizio di questa attività ricadono nelle scelte discrezionali degli Stati membri in considerazione dello status di Paese neutrale, ma anche di scelte politiche squisitamente interne. La scelta dei mezzi è stata (e sarà) il frutto degli accordi bilaterali tra la Francia e i singoli Stati membri. Si è sottolineato a tale proposito che, da un lato, lo Stato richiedente non può decidere in via unilaterale le misure e, dall’altro, gli altri Stati non possono sollevare «irragionevoli dinieghi» e pertanto le modalità e le forme vanno negoziate in buona fede (v. Tosato e Gestri).

Per quanto è possibile conoscere, il Ministro della Difesa francese ha finora richiesto un’effettiva solidarietà da realizzare sotto forma o di cooperazione alle operazioni militari in Siria e Iraq o di supplenza rispetto all’attuale coinvolgimento della Francia in altri contesti (v., ad esempio, quello nel Mali o nel Libano).

In questo senso si può ben ritenere che la posizione italiana, contraria a un intervento diretto nel conflitto siriano, non sia incompatibile con gli obblighi previsti dal 42, par. 7. L’adempimento dell’obbligo di assistenza potrebbe, ad esempio, manifestarsi nelle forme di un supporto/sostituzione delle truppe francesi impegnate in altri contesti. Si può forse obiettare che possono esserci forme di aiuto e di assistenza di diversa intensità, ma è l’art. 42, par. 7, a lasciare volutamente aperte le modalità di attuazione senza che sia pregiudicato lo spirito di solidarietà europeo. Semmai, la prudenza italiana rispetto ad un intervento in Siria è giustificata dai discutibili risultati dell’“intervento umanitario” in Libia.

Peraltro, anche in considerazione del fatto che nell’art. 42, par. 7, viene sottolineato che, in caso di aggressione armata ad uno Stato membri, gli altri «sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite», lo spettro dei mezzi utilizzabili nel quadro della solidarietà europea è limitato a quegli strumenti che sono compatibili con il principio della legittima difesa incorporato nell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite (CNU). L’aiuto e l’assistenza da parte degli Stati membri dovrebbe pertanto necessariamente rispettare i limiti e le condizioni proprie per l’esercizio della legittima difesa. Colla conseguenza che uno Stato membro dell’Unione potrebbe legittimamente rigettare una richiesta di supporto che in qualche modo violi l’art. 51 della CNU.

Certo è che, al di là dei parallelismi testuali e delle vicende che hanno condotto all’adozione dell’art. 42, par. 7 TUE, l’invocazione della clausola da parte della Francia riecheggia l’attivazione della clausola di assistenza ex art. 5 del Trattato NATO a seguito degli attacchi terroristici subiti dagli USA l’11 settembre 2001.

Perché non l’art. V del Trattato NATO?

Le ragioni del mancato utilizzo dell’art. V NATO sono probabilmente diverse. Esse hanno spinto la Francia a non invocare la clausola “più pesante” e di carattere squisitamente militare rispetto a quella più aperta dell’art. 42, par. 7.

In base all’art. 5 NATO:

«The Parties agree that an armed attack against one or more of them in Europe or North America shall be considered an attack against them all and consequently they agree that, if such an armed attack occurs, each of them, in exercise of the right of individual or collective self-defence recognised by Article 51 of the Charter of the United Nations, will assist the Party or Parties so attacked by taking forthwith, individually and in concert with the other Parties, such action as it deems necessary, including the use of armed force, to restore and maintain the security of the North Atlantic area.

Any such armed attack and all measures taken as a result thereof shall immediately be reported to the Security Council. Such measures shall be terminated when the Security Council has taken the measures necessary to restore and maintain international peace and security».

Un primo apprezzamento riguarda l’intensità degli attacchi in Francia rispetto al precedente caso dell’11/9. I fatti francesi, pur nella loro drammaticità, non hanno assunto forse un livello tale da poter essere configurati come attacco armato ai sensi del Trattato NATO (non è mancata ovviamente la condanna nelle parole del Segretario generale della NATO, v. qui e qui). Ci si può chiedere in questo senso se la soglia di innesco da un punto di vista politico dell’art. V NATO e del 42, par. 7 TUE sia diverso.

Per le ragioni sopra espresse (coinvolgimento di “ex foreign fighters”), si può ritenere che non abbia pesato negativamente che gli attacchi siano stati compiuti da cittadini in prevalenza francesi su territorio francese. Potrebbe aggiungersi anche che un mese prima ad Ankara in Turchia (altro Stato membro della NATO) si era verificato un attacco terroristico di proporzioni analoghe a quello francese (v. a tale riguardo la condanna del Segretario generale della NATO) e anche in quella occasione le manifestazioni di solidarietà degli Stati NATO non avevano “superato l’asticella” dell’attivazione della clausola di mutua assistenza.

Tra le varie opzioni sul tavolo, la Francia ha così scelto di richiedere l’attivazione della clausola contenuta nell’art. 42, par. 7, fermo restando che, come è sottolineato nel par. 7, comma 2, gli impegni e la cooperazione non solo non pregiudicano il Trattato NATO (l’espressione «rimangono conformi» può intendersi nel senso che vadano attuati conformemente a quelli NATO), ma che quest’ultimo accordo continua a rivestire per i suoi membri «il fondamento della loro difesa collettiva e l’istanza di attuazione della stessa».

Per inciso, giova segnalare che quando nei giorni successivi ai fatti di Parigi la Francia ha bombardato delle postazioni dell’esercito islamico a Raqqa, la selezione dei targets, secondo quanto ricavabile dalle fonti giornalistiche, è avvenuta sulla base delle indicazioni offerte dagli Stati Uniti d’America, dotati sul campo di una maggiore capacità di intelligence. Si tratta di un segnale abbastanza evidente di quanto la politica di difesa dei Paesi UE non possa prescindere da una qualche forma di raccordo o coordinamento con gli alleati “pesanti” della Nato, in primis gli Stati Uniti, e non ultimi il Regno Unito e la Germania. Sotto alcuni aspetti, pertanto, il ruolo della NATO, o quanto meno di alcuni dei suoi membri, non potrà non avere un impatto sulle modalità delle risposte operative. Non a caso è stato evidenziato correttamente che alla riunione del “Consiglio difesa” era presente il segretario dell’Alleanza Stoltenberg (v. Gestri).

In linea teorica, poi, non si può escludere l’attivazione contemporanea tanto della clausola NATO che di quella UE (v. 1). Sul piano operativo, nonostante che in questo caso la clausola di mutua assistenza NATO non sia stata attivata, la reazione degli Stati sembra sempre più delinearsi nelle forme di un intervento di tipo ibrido con il coinvolgimento di Stati membri UE/Stati membri Nato (extra UE).

Perché non l’art. 222 TFUE ?

Accanto alla clausola di difesa reciproca dell’art. 42, par. 7, TUE, l’art. 222 TFUE contiene una “clausola di solidarietà” inserita nel Titolo sull’Azione esterna UE.

Si tratta di un articolo che prevede espressamente un intervento solidale dell’Unione e dei suoi Stati membri in caso di attacco terroristico. L’introduzione di tale clausola, a poco più di un anno dagli attacchi dell’11 settembre, era stata raccomandata nel gruppo VIII «Difesa» della Convenzione europea (CONV 461/02), per far fronte alle nuove minacce del terrorismo internazionale e al possibile utilizzo di armi di distruzione di massa da parte di gruppi terroristici. Successivamente all’abbandono del processo di ratifica del “Trattato sulla Costituzione in Europa”, l’art. I-43 contenente la clausola di solidarietà e l’art. III-329 sull’attuazione della stessa sono stati accorpati senza modifiche nell’attuale testo dell’art. 222 TFUE.

Già dalla rubrica dell’art. 222 emerge la finalità solidaristica della disposizione. In particolare il par. 1 dell’articolo dispone che:

«L’Unione e gli Stati membri agiscono congiuntamente in uno spirito di solidarietà qualora uno Stato membro sia oggetto di un attacco terroristico o sia vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo. L’Unione mobilita tutti gli strumenti di cui dispone, inclusi i mezzi militari messi a sua disposizione dagli Stati membri, per:

  1. a) — prevenire la minaccia terroristica sul territorio degli Stati membri;

proteggere le istituzioni democratiche e la popolazione civile da un eventuale attacco terroristico;

  • prestare assistenza a uno Stato membro sul suo territorio, su richiesta delle sue autorità politiche, in caso di attacco terroristico

Il par. 2 prosegue:

«Se uno Stato membro subisce un attacco terroristico o è vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo, gli altri Stati membri, su richiesta delle sue autorità politiche, gli prestano assistenza. A tal fine gli Stati membri si coordinano in sede di Consiglio».

Il contesto normativo non era particolarmente favorevole ad un utilizzo della clausola di cui all’art. 222 TFUE per una serie di ragioni, in primis per il fatto che in base all’art. 4, par. 2, TUE, l’Unione «[…] rispetta le funzioni essenziali dello Stato, in particolare le funzioni di salvaguardia dell’integrità territoriale, di mantenimento dell’ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale. In particolare, la sicurezza nazionale resta di esclusiva competenza di ciascuno Stato membro». L’azione dell’UE in questo campo è sempre sussidiaria, a seguito di una richiesta esplicita dello Stato attaccato.

Le opzioni delineate dall’art. 222 sono due. La prima (par. 1) prevede un intervento congiunto dell’Unione e degli Stati membri e la mobilitazione degli strumenti di cui dispone l’Unione e di eventuali mezzi militari messi a disposizione dagli Stati. Nella seconda (par. 2) è prevista un’azione degli Stati membri innescata dalla necessaria richiesta dello Stato membro e un coordinamento di carattere procedurale all’interno del Consiglio.

Si tratta, già a prima vista, di un’ipotesi diversa da quella riscontrabile nella clausola dell’art. 42, par. 7, TUE che non prevede una forma di coordinamento in seno al Consiglio. Come è già stato ricordato, quest’ultima è stata casualmente attivata in occasione del “Consiglio difesa”, ma le modalità di coordinamento tra gli Stati stanno avvenendo su base bilaterale all’esterno del contesto istituzionale UE.

Nonostante non venga esplicitato nel par. 1, anche in questa ipotesi è necessaria per l’attivazione della clausola una richiesta di assistenza da parte dello Stato membro interessato. Può forse ipotizzarsi l’ipotesi limite che, in caso di manifesto impedimento delle autorità politiche di uno Stato membro attaccato, l’Unione e gli Stati membri intervengano in via autonoma in soccorso dello Stato.

Ai sensi, infatti, dell’art. 4 della decisione del Consiglio (2014/415/UE), del 24 giugno 2014, relativa all’attuazione della clausola di solidarietà di cui all’art. 222 TFUE da parte dell’Unione (v. art. 222, par, 3, TFUE), in caso di attacco terroristico lo Stato membro interessato può invocare la clausola di solidarietà se, dopo essersi avvalso delle possibilità offerte dai mezzi e dagli strumenti esistenti a livello nazionale e dell’Unione, ritiene che la crisi oltrepassi chiaramente le capacità di risposta di cui dispone».

Si tratta, evidentemente, di situazioni eccezionali in cui, a motivo della portata e degli effetti dell’azione, lo Stato non riesce a fronteggiare un attacco terroristico (nei casi peggiori un attacco nucleare, batteriologico o chimico) e la risposta può essere conseguita meglio a livello di Unione. In questo quadro va dunque letta la clausola dell’art. 222 TFUE, che può essere attivata in casi eccezionali quando lo Stato in difficoltà ritenga «che la crisi oltrepassi chiaramente le capacità di risposta di cui dispone» (art. 4 della decisione).

Non si può escludere in questa prospettiva l’utilizzo simultaneo delle due clausole di cui all’art. 42, par. 7, TUE e all’art. 222 TFUE, soprattutto in relazione ad episodi estremi di terrorismo. È evidente ormai da tempo che un attacco terroristico possa coinvolgere tanto aspetti concernenti la difesa quanto la sicurezza interna ed esterna.

Non si dimentichi, tuttavia, che anche l’art. 222 TFUE, così come il 42, par. 7, tengono conto delle differenti sensibilità degli Stati membri rispetto alle questioni relative alle questioni di PESDC. Non a caso la dichiarazione n. 37 relativa all’articolo 222 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea afferma che «Fatte salve le misure adottate dall’Unione per assolvere agli obblighi di solidarietà nei confronti di uno Stato membro che sia oggetto di un attacco terroristico o sia vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo, si intende che nessuna delle disposizioni dell’articolo 222 pregiudica il diritto di un altro Stato membro di scegliere i mezzi più appropriati per assolvere ai suoi obblighi di solidarietà nei confronti dello Stato membro in questione».

È di fondamentale importanza ricordare che all’art. 2, par. 2, della decisione si sottolinea che la decisione «non comporta implicazioni nel settore della difesa». Questo principio è ribadito anche nel considerando 13, ove si afferma che «se una crisi richiede un intervento di pertinenza della PESC o della PSDC, la relativa decisione dovrebbe essere presa dal Consiglio in conformità delle pertinenti disposizioni dei trattati». Più correttamente si sarebbe dovuto aggiungere “dal Consiglio o dagli Stati membri”, per ribadire la possibilità prevista dall’art. 42, par. 7. Tuttavia, è vero che il successivo considerando 14 sottolinea che «la presente decisione lascia impregiudicato l’articolo 42, paragrafo 7, del trattato sull’Unione europea».

In ultima analisi, può ritenersi che l’utilizzo dell’art. 222 TFUE avrebbe rimarcato ulteriormente una situazione emergenziale e quindi le difficoltà dello Stato francese a far fronte alle minacce terroristiche sul piano interno. Non si dimentichi, a tale riguardo, che a seguito degli attacchi, la Francia ha decretato lo stato d’emergenza e ha comunicato una serie di misure in deroga agli obblighi CEDU (ex art. 15 della Convenzione).

In ogni caso, l’aiuto richiesto dalla Francia è apparso fin dagli inizi di tipo prevalentemente esterno. Non convince perciò la tesi che la scelta della Francia sia stata conseguenza della natura intergovernativa dell’art. 42, par. 7, e dell’esclusione della competenza della Corte di giustizia, quasi come se le due clausole fossero alternative (una più internazionale e una più comunitaria). La Francia ha chiesto principalmente aiuto in relazione alla lotta ai mandanti degli attacchi di Parigi e, quindi, come già sottolineato, un aiuto diretto nel contesto siriano/iracheno o in via indiretta in altri contesti. In questo senso la scelta dell’art. 42, par. 7, è parsa la più opportuna. Ci si può semmai domandare se l’utilizzo combinato delle due clausole avrebbe potuto fornire maggior aiuto e supporto, ma la Francia ha ritenuto non sussistessero gli estremi per una richiesta di aiuto sul piano interno.

I riflessi dell’invocazione della clausola di mutua assistenza nell’ordinamento giuridico dell’UE.

Potrebbe infine prospettarsi un possibile utilizzo indiretto dell’attivazione della clausola di mutua assistenza nel campo dell’Unione economica e monetaria (UEM).

È apparso subito abbastanza evidente che gli attacchi in Francia avrebbero potuto avere un impatto significativo di medio periodo sull’economia e quindi sul prodotto interno lordo della Francia e di altri Stati membri (v. il Belgio), ad esempio, per la diminuzione del turismo o per un aumento delle spese pubbliche nel campo della sicurezza.

Ci si può domandare, ad esempio, se, nel corso di un’eventuale procedura per lo sforamento dei conti pubblici (procedura per disavanzi eccessivi ex art. 126 TFUE e  regolamento del 1467/97 (parte del Patto di stabilità e crescita), emendato dal regolamento 1177/2011), la Commissione e il Consiglio in sede di verifica del rispetto dei parametri potrebbero valutare «eccezionale e temporaneo il superamento degli Stati che siano in grado di provare che le difficoltà economiche hanno un legame diretto con l’aggressione» (v. art. 126, par. 2, lett. a)).

Ai sensi dell’art. 2 del regolamento 1467/97, «il superamento del valore di riferimento per il disavanzo pubblico è considerato eccezionale e temporaneo […] qualora sia determinato da un evento inconsueto non soggetto al controllo dello Stato membro interessato ed abbia rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione […]». La Commissione e il Consiglio, pertanto, nel valutare e decidere sull’esistenza di un disavanzo eccessivo, potrebbero mostrare una maggiore prudenza in relazione alla situazione di particolare emergenza sul piano della sicurezza interna in alcuni Stati.

A tale riguardo, la Commissione nelle parole del suo Presidente ha affermato che le spese antiterrorismo “sono straordinarie” e in quanto tali devono trovare un trattamento “straordinario” da parte dell’UE nell’ambito del “patto di Stabilità”. Nella riunione dell’Eurogruppo del 23 novembre, inoltre, la Francia (così come il Belgio) ha affermato di volere aumentare le spese per la sicurezza interna, i controlli delle frontiere e la giustizia e che l’Unione avrebbe dovuto prendere in considerazione questi sforzi considerate le circostanze, pur assicurando il rispetto degli impegni relativi al bilancio per il 2016-2017.

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Antonino Ali

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