diritto internazionale pubblico

In morte di Giulio Regeni

Gabriella Carella, Università degli studi Aldo Moro – Bari

Il ritrovamento del corpo martoriato del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni non poteva non suscitare una prorompente domanda di verità e giustizia a tutti i livelli. Talune misure adottabili de iure condito per soddisfare tale esigenza, morale oltre che giuridica, sono state individuate opportunamente – anche nei loro risvolti problematici – nel post di Luca Pasquet e non sarebbe utile ritornare sull’argomento. Mia intenzione è invece rimarcare le misure de iure condendo che sono implicate dal caso Regeni come impellente necessità.

La prima scaturisce dalla notizia che la Procura di Roma sta indagando sulla vicenda. Non è noto quale sia l’ipotesi di reato formulata, ma una certezza c’è: sicuramente non si tratta di indagine per tortura perché nel nostro ordinamento questa figura di crimine internazionale contro l’umanità tuttora non costituisce reato. Qualora l’indagine fosse coronata da insperato successo e si riuscisse ad individuare e rinviare a giudizio i responsabili dell’ipotetico atto di tortura, essi non potrebbero essere giudicati e condannati per l’efferato crimine posto in essere, ma per qualche altro reato che, per quanto grave, costituirebbe una mistificazione della realtà e non darebbe voce alla domanda di verità. Perché questa sia soddisfatta, quindi, sarebbe necessario che il Parlamento approvi finalmente l’introduzione del reato di tortura nel codice penale.

L’impresa si è rivelata nel tempo inaspettatamente ardua, al punto da poter essere paragonata solo – ci si perdoni l’accostamento ardito, ma efficace – al completamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. A spingere per un superamento della originaria lacuna del nostro codice penale – inquadrabile nel contesto storico-culturale della sua adozione – non sono bastate né la Costituzione, né la partecipazione alle numerose convenzioni internazionali sui diritti umani che vietano la tortura, né, infine, la ratifica, nel lontano 1989, della Convenzione contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli disumani e degradanti, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1984, la quale, oltre a vietare la tortura, pone agli Stati parti un preciso obbligo di incriminarla e di reprimerne la realizzazione. Nel tempo, agli obblighi normativi si sono aggiunti gli inviti reiterati, e poi le condanne, degli organi preposti al controllo dell’attuazione delle predette convenzioni internazionali. Si tratta di una serie continua di reprimende succedutesi regolarmente e puntualmente negli anni, a partire dalle osservazioni del 3 agosto 1994 del Comitato dei diritti dell’uomo – preposto all’osservanza del Patto sui diritti civili e politici del 1966 – (par. XV) e da quelle del 1° gennaio 1995 del Comitato contro la tortura (CAT)–istituito a garanzia della predetta Convenzione ONU contro la tortura – (par. 157), fino ai richiami vigorosi nel rapporto del 2012 del Comitato di prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa (CPT) (par.6)e, per finire, alla condanna della Corte europea dei diritti umani (CEDU) nella sentenza del 7 aprile 2015, ricorso n. 6884/11, nel caso Cestaro c. Italia, parr. 245 s.

L’elenco puntuale, anno per anno, di tali reprimende sarebbe troppo lungo: può rinviarsi, per una adeguata sintesi, ai paragrafi 112-121 della predetta decisione CEDU nel caso Cestaro o alla consultazione dei database relativi ai rapporti sia del CAT che del CPT.

Per vero, iniziative legislative volte a colmare la lacuna sono state intraprese puntualmente già nel 1989 e poi ripetutamente reiterate, ma, disgraziatamente, i vari disegni di legge non sono mai riusciti a completare il loro iter:la loro funzione ed utilità esclusiva, finora, è stata quella di offrire al nostro governo un argomento per sottrarsi alle reprimende internazionali, dimostrando che esse dovevano considerarsi superate perché l’ordinamento italiano… era in procinto di adeguarsi a quanto richiesto!

In ogni caso, quello indicato non è stato l’unico argomento invocato dal governo dinanzi agli organi internazionali; ad esso se ne sono aggiunti altri, con la preoccupante uniformità di un “copia-e-incolla”. In particolare, i nostri rappresentanti – a partire dalla risposta del 1994 alle osservazioni del CAT, par. 5, fino alla risposta del 2013 alle osservazioni del CPT e alla difesa nel caso Cestaro, par. 198–hanno sempre sostenuto che, sebbene non formalmente incriminati, i fatti di tortura siano comunque adeguatamente perseguibili e punibili nel nostro ordinamento, grazie alla presenza di una pluralità di norme utilizzabili a tal fine. Viene elaborata, cioè, l’inedita figura del “reato puzzle” o “à la carte”, ricostruibile attraverso il ricorso ad una decina di disposizioni che possono essere variamente assortite tra loro (artt. 575, 581, 582, 583, 605, 606, 610, 612 c.p. cui va aggiunto, per le aggravanti, l’art. 61 c.p., nonché artt. 64, par. 2, e 188, par. 6, c.p.p.). La prassi giudiziaria, però, ha dimostrato che tale variegata griglia normativa è come un letto di Procuste nel quale i fatti di tortura stanno troppo stretti e che la intensità repressiva è inversamente proporzionale al numero di disposizioni utilizzabili. Difatti, la tenuità delle pene previste per la maggior parte dei reati richiamati e la loro natura di fattispecie di “diritto comune” fanno sì che, pressoché puntualmente, le persone giudicate per fatti che possono essere considerati di tortura conseguano l’impunità per prescrizione o per applicazione di amnistia, indulto o grazia. Ci limitiamo a ricordare, a tal proposito, la sola sentenza della Corte d’Appello di Genova, sez. II, del 5 marzo 2010, sui fatti accaduti durante il vertice G8 del 2001– che ha dovuto accertare la prescrizione rispetto a molti imputati – e la denuncia del primo presidente della Cassazione nel rapporto sull’amministrazione della giustizia nel 2013, p. 29. Tali inconvenienti non si verificherebbero se fosse possibile procedere in base al reato di tortura perché ad esso non sono applicabili la prescrizione e tutte le misure che escludano l’effettività della sanzione, come deciso dalla CEDU, da ultimo, nel caso Cestaro, par. 205-208,ove, anche per questo aspetto, è stato accertato un inadempimento strutturale dell’Italia rispetto all’art. 3 (ma si veda anche la decisione nel caso Abu Omar di cui parliamo diffusamente oltre, par. 263, lett. v) e vi)).

L’impunità assicurata ai torturatori dalla lacuna del nostro ordinamento non preoccupa, però, il governo alla luce di quella che, a quanto pare, sarebbe la motivazione decisiva per escludere radicalmente l’urgenza e la necessità della introduzione della tortura in Italia. Non si tratta di ragioni giuridiche, ma di, logicamente prioritarie,ragioni etnico-culturali. Ed invero, come testualmente argomentato, a mo’ di giustificazione – nella risposta del 27 aprile 2006, p. 5 -ai richiami del CPT sulla questione: “torture does not exist because this is a practice far from our mentality”. In pratica, sarebbero i naturali tratti di bonomia dell’italica indole a rendere la tortura un reato artificioso, prima ancora che inutile.

Ebbene, proprio su questo punto il caso Regeni può offrire, purtroppo, utili controargomentazioni sfuggite finora a governo e parlamento. Supponendo che sia vero l’assunto di partenza (e prescindendo dalla sua possibile incoerenza con alcuni fatti di cronaca giudiziariamente accertati, come nel caso delle citate sentenze della Corte d’Appello di Genova e della CEDU), resta il fatto che è necessario punire gli atti di tortura commessi, nei confronti di nostri cittadini, eventualmente anche all’estero, da parte di persone non appartenenti all’italica stirpe, come potrebbe darsi nel caso Regeni. Il disvelamento, che tale caso produce, dell’esistenza di un mondo oscuro, al di fuori dell’oasi in cui viviamo, dovrebbe indurre ad adeguati provvedimenti. Se davvero, quindi, ci si vuole impegnare per la verità e la giustizia, prima di richiederle agli altri dobbiamo assicurarle nel nostro ordinamento dando un’accelerata ai lavori relativi all’ultimo disegno di legge sulla tortura del 5 aprile 2014 che, approvato dalla Camera il 9 aprile 2015 (se ne veda il testo qui), pende dinanzi al Senato dopo essere stato licenziato con modifiche dalla 2° Commissione permanente giustizia il 7 luglio 2015 (testo qui).

In vista ed in attesa della sospirata approvazione, si potrebbe approfittarne per un utile perfezionamento del testo legislativo: veniamo così alla seconda misura de iure condendo evidenziatasi come necessaria anche in occasione del caso Regeni.

Per una (im)provvida coincidenza, negli stessi giorni in cui si iniziavano ad accertare le tragiche circostanze della morte del nostro connazionale, la CEDU pubblicava la sentenza del 23 febbraio 2016,(ricorso n. 44883/09),nel caso Nasr e Ghali c. Italia, meglionoto come caso Abu Omar. Si tratta di unavicendatantoistruttiva quantocomplessa,sullaquale non è possibile soffermarsi, che ci limitiamo a richiamare solo per gli aspetti che rilevano in questa sede. Il ricorso ha ad oggetto il rapimento, a Milano, il 17 febbraio 2003, dell’imam Abu Omar, sospettato di terrorismo, da parte di agenti della CIA che lo consegnavano ai servizi segreti del Cairo perché fosse sottoposto a tortura. La vicenda si inseriva nella prassi di “delocalizzazione” della tortura attuata con i programmi di extraordinary rendition dal governo statunitense, avvalendosi della complicità di alcuni suoi alleati occidentali. Tale prassi ha sostanziato da subito un grave illecito internazionale, condannato da varie istanze (par. 176 ss. della decisione) e finalmente abbandonato dagli stessi Stati Uniti. In relazione al caso Abu Omar, la Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 12 febbraio 2013, accertava che, oltre le responsabilità di agenti della CIA, sussisteva il concorso materiale e morale di agenti dei servizi segreti italiani i quali avevano cooperato al reato con la consapevolezza che la vittima sarebbe stata trasferita in Egitto ed ivi sarebbe stata sottoposta a torture. Tuttavia, le prove alla base del giudizio venivano coperte dal segreto di Stato, che veniva considerato legittimamente apposto dalla Corte costituzionale nella decisione del 13 febbraio 2014 n. 24. Pertanto,la Cassazione, investita di ricorso rispetto alla decisione di appello, era costretta ad annullarla senza rinvio con pronuncia del 24 febbraio 2014, n. 20447. A questo punto della vicenda, che sembrava irrevocabilmente chiusa, si inserisce il giudizio della CEDU, investita del caso in base a ricorso congiunto di Abu Omar e dalla moglie. La decisione adottata ha accertato, all’unanimità e al di là di ogni ragionevole dubbio, che (riportiamo schematicamente, per brevità, i punti principali della motivazione di condanna): 1) il ricorrente era stato sottoposto ad atti disumani di tortura dai servizi segreti del Cairo (par.18-19 unitamente ai par. 285 ss.); 2) gli organi italiani, di conseguenza, avevano violato il divieto di tortura, nel suo contenuto di diritto sostanziale, perché avevano collaborato al rapimento sapendo della sottoposizione a tortura (par. 63 congiunto ai par. 235 e 288); 3) gli elementi di prova raccolti dai giudici di Milano e che la Corte stessa utilizza erano sufficienti per condannare gli agenti italiani ed erano utilizzabili perché, essendo stati diffusi su internet e sui giornali prima della apposizione del segreto, erano diventati fatti di comune conoscenza (par. 65); 4) un segreto di Stato invocato su fatti di comune conoscenza non può assolvere la propria funzione legittima di preservare la confidenzialità a tutela della sicurezza e, pertanto, assolve solo la funzione illegittima di garantire l’impunità di agenti dello Stato per gravi illeciti commessi (par.268); 5) per effetto del ricorso inammissibile al segreto di Stato, l’Italia aveva violato il divieto di tortura sotto il profilo degli obblighi positivi procedurali, che da esso discendono, di svolgimento di indagini effettive e di effettiva repressione.

La decisione è inquietante perché accerta una collusione – ancorché indiretta, per il tramite della CIA – di organi italiani con quegli stessi servizi segreti del Cairo le cui responsabilità nel caso Regeni, pur non essendo provate e, per ora, neppure delineate, emergono tuttavia sinistramente dalle cronache e dalle testimonianze (per talune utili informazioni di carattere generale, v. il post di Ursula Lindsey). Potrebbe nascere addirittura il terribile timore che – sempre che sia vera l’ipotesi di tortura – gli aguzzini di Regeni possano essere state le stesse persone fisiche del caso Abu Omar. E ammesso – ma assolutamente non concesso – che fosse così, potrebbe forse riemergere in qualche modo il segreto di Stato? Beninteso, non si tratta di ipotesi con un contenuto sia pur minimo di realtà, ma solo di incubi di una cittadina di uno Stato democratico che si interroga su ciò che significhi sicurezza. Perché se è ammissibile che si discuta circa il rapporto tra sicurezza e libertà, non ci può essere alcun dubbio sul fatto che l’arbitrio è antitetico alla sicurezza. Ora, nei casi di tortura e di privazione extragiudiziale di libertà imputabili allo Stato siamo di fronte alla più classica manifestazione dell’arbitrio assoluto, inteso come forza eversiva dell’ordine costituzionale di uno Stato democratico. Tale carattere eversivo della tortura di Stato costituisce la ratio del divieto di ricorrere ad essa anche in caso di guerra e di pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, divieto posto espressamente dall’art. 15 della Convenzione europea dei diritti umani e rafforzato dalla giurisprudenza della CEDU (v., da ultimo, tra le tante, la decisione della Grande camera del 2012 nel caso El-Masri) e da numerosi altri atti in materia di diritti umani: vi è contrasto insanabile tra la necessità di salvare lo Stato e l’adozione, a tale presunto fine, di misure che ne distruggono i tratti connotanti ed identificativi. È appena il caso di aggiungere che dallo stesso art. 15 e da tutte le altre norme internazionali di identico contenuto deriva anche, implicitamente, ma non meno chiaramente, il divieto di coprire con il segreto di Stato atti di tortura. Tale ricco e illuminante materiale normativo e giurisprudenziale, inglobato nel nostro ordinamento, avrebbe potuto agevolmente guidare, nel caso Abu Omar, l’interpretazione della nozione di “fatti eversivi dell’ordine costituzionale”, posta dall’art. 12 l. 24 ottobre 1977 n. 801 e del successivo art. 39 l. 3 agosto 2007 n. 24 come eccezione all’invocabilità del segreto. Poiché così non è stato, ed in attesa di un auspicabile mutamento della giurisprudenza della Corte costituzionale che ha esteso il segreto di Stato a tutta l’attività di “cooperazione internazionale” dei servizi segreti, è urgente che si attivi il Parlamento, cogliendo l’occasione dell’esame del disegno di legge sulla tortura per includervi un divieto espresso di invocare il segreto di Stato per tale reato. Solo così ci metteremo al riparo, per il futuro, da ulteriori condanne della CEDU che inevitabilmente conseguirebbero alla invocazione del segreto di Stato in relazione a fatti di tortura, interni o internazionali. Solo così il nostro Stato potrà pretendere con forza dall’Egitto l’accertamento della verità senza essere sospettato di ipocrisia, “doppiopesismo” o, peggio, mera propaganda “di facciata”. Soprattutto, solo così si potrà ritenere che lo Stato italiano avrà fatto tutto quanto in suo potere, indipendentemente dalle eventuali inadempienze egiziane, per rendere giustizia anche alla dignità umana violata nel caso Regeni, oltre che al suo sfortunato cittadino.

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Gabriella Carella

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