La tutela della salute e la protezione dell’ investimento: la possibile composizione di interessi antagonisti
Benedetta Cappiello, Università di Milano
1. La necessità di regolare in modo equilibrato il rapporto tra le parti di un’operazione di investimento non è nuova ma rimane difficile trovare gli strumenti per bilanciare interessi contrapposti e, apparentemente, non componibili (Dupuy et al.). Ci riferiamo, in particolare, alla necessità per lo Stato ospite di tutelare il diritto alla salute garantendo, contestualmente, il proseguimento dell’operazione di investimento nel proprio territorio.
Questo breve elaborato si propone di comprendere se in seno all’Unione si stia sviluppando una nuova prassi, volta a definire un diritto degli investimenti più equilibrato e a difesa di uno sviluppo che, perché sia sostenibile, deve garantire anche il diritto alla salute (Montini).
In primo luogo, ci domanderemo se l’Unione abbia la facoltà, ovvero il dovere, di definire le proprie relazioni esterne tutelando, anche, i diritti fondamentali; proseguiremo, poi, interrogandoci su quali siano gli strumenti a disposizione dell’Unione per garantirli. Il fine è quello di dimostrare che, nonostante si stia assistendo ad una “contrattualizzazione” dei diritti fondamentali, l’operatore economico/investitore non è ancora adeguatamente responsabilizzato.
2. Il tema che ci si propone di trattare non è originale ma è tornato attuale da quando è entrato in vigore il Trattato di Lisbona che ha, inter alia, riconosciuto la competenza esclusiva europea in materia di investimenti esteri diretti.
Da allora, l’Unione ha iniziato a definire in tale materia una politica europea occupandosi, essenzialmente, di due aspetti: da un lato, predisporre un regime transitorio per gli accordi in vigore tra Stati membri e Paesi terzi e Stati membri tra loro e, dall’altro, negoziare accordi commerciali europei in forma mista, o bilaterale, con Paesi terzi.
Questo secondo aspetto della definenda politica europea impone di interrogarsi sulla tipologia di accordi che verranno sottoscritti, rectius sulle clausole che nei medesimi verranno inserite. Il trasferimento della competenza in materia di investimenti in capo all’Unione pare, infatti, offrire l’occasione per ridefinire le fonti normative in materia. Sembra invero possibile, nonché auspicabile, che si abbandoni l’approccio tradizionale per effetto del quale gli accordi di investimento hanno, per lo più, rappresentato “carte di diritti dell’investitore”.
Le stesse fonti normative europee inducono a pensare che l’Unione dovrà muoversi in quella direzione. Ricordiamo, infatti, che l’art. 205 TFUE, che riflette l’approccio unitario all’azione esterna europea, impone all’Unione di stringere relazioni con i Paesi terzi solo nel rispetto dei propri valori.
Ciò significa che essa deve instaurare relazioni con i Paesi terzi mantenendo il livello di tutela dei diritti fondamentali eguale a quello garantito nel territorio europeo.
L’Unione dovrebbe dunque optare per la definizione di accordi commerciali e di investimento ove i reciproci interessi delle parti siano bilanciati in modo più equilibrato, rispetto a quanto non risulti in quelli sino ad ora sottoscritti dagli Stati membri. Segnatamente, il diritto dello Stato ospite di introdurre misure normative a tutela di interessi pubblici dovrebbe essere garantito al pari di quello dell’investitore.
Così posta, la questione sembra riguardare la tutela della sovranità da un lato, e quella dell’operazione economica dall’altro.
Nella realtà, osserviamo che il diritto dello Stato ospite di introdurre modifiche legislative a tutela di valori fondamentali non ha mai trovato compiuta espressione nelle fonti di riferimento.
Con specifico riguardo agli accordi di investimento sottoscritti dagli Stati membri prima della cessione di competenze, essi, di regola, non contengono alcuna previsione a tutela del diritto dello Stato di introdurre misure normative nell’interesse pubblico. Il concetto di salute pubblica, poi, figura al più nei preamboli degli accordi divenendo, quindi, elemento interpretativo in sede di contenzioso. In parallelo, i contratti di Stato, fonti sotto-ordinate rispetto agli accordi, contengono clausole di stabilizzazione per effetto delle quali, in misura più o meno intensa, lo Stato ospite si obbliga a non modificare il proprio assetto normativo interno se ciò può negativamente colpire le operazioni di investimento sul proprio territorio. In estrema sintesi, da un lato l’esercizio della sovranità non trova espressa menzione nei rapporti Stato-Stato, dall’altro, essa risulta espressamente limitata nel rapporto sottostante Stato-investitore.
In verità, la mancanza di un’espressa menzione del libero esercizio della sovranità non dovrebbe stupire, considerato che di sovranità si parla quando la si vuole ridurre ovvero modificare. Non sembra invece necessario citarla al sol fine di ribadirla. Sicuramente censurabile è, invece, la tendenza degli Stati di limitare il proprio diritto sovrano con clausole di stabilizzazione.
3. Esaminando la più recente prassi europea risulta, invece, che è sempre più spesso sancito il diritto dello Stato ospite di modificare il proprio assetto normativo per tutelare interessi pubblici, tra i quali figura, inevitabilmente, anche la tutela della salute. Segnatamente, ci riferiamo agli accordi negoziati in forma mista, tra UE-Canada (CETA), UE-USA (TTIP) e UE-Vietnam.
In tutti, e in molti altri ancora, la tutela degli interessi pubblici degli Stati ospiti figura addirittura non solo nel preambolo ma anche in più parti dell’accordo, che regola sia gli scambi commerciali sia le operazioni di investimento. Inoltre, alcune clausole a tutela dell’operazione di investimento sono state riformulate in termini più precisi, così aumentando la libertà di azione dello Stato ospite che potrà, ad esempio, introdurre modifiche normative che, se nel rispetto delle previsioni dell’accordo, non saranno passibili di censura (Van Harten, pp. 152-184). Al riguardo, sembra facile sostenere che l’Unione Europea abbia abbandonato i tradizionali modelli di accordi, facendo propri quelli NAFTA e U.S.A. (Fontanelli et al.) Ciò si evince, ad esempio, guardando la nuova formulazione della clausola sull’espropriazione che, come nei modelli d’oltreoceano, definisce anche le ipotesi di espropriazione indiretta. Tale fattispecie non si concretizza nel caso in cui lo Stato ospite abbia introdotto modifiche legislative in modo non discriminatorio e a tutela, anche, del diritto alla salute (espressamente previsto). Lo stesso vale per la clausola sul trattamento giusto ed equo che contiene l’elenco delle azioni che, se compiute dello Stato ospite, si pongono in violazione della clausola medesima. A contrario, ciò significa, però, che non tutte le misure legislative introdotte dallo Stato ospite implicano la violazione dell’accordo, anche qualora una tra esse dovesse colpire negativamente l’operazione di investimento. Rileviamo, inoltre, che nella clausola arbitrale del CETA è stata introdotta una previsione che vieta l’apertura di procedimenti arbitrali qualora l’investimento abbia all’origine un atto di corruzione ovvero di esso sia stata inizialmente fatta una rappresentazione ingannevole.
Sul piano normativo, la tutela della salute risulta quindi essere maggiormente garantita rispetto al passato, essendo l’Unione e gli Stati membri espressamente liberi di modificare il proprio assetto normativo interno a tutela di valori non economici.
4. Per quel che rileva in questa sede, ci si chiede se sia sufficiente “contrattualizzare” il diritto alla salute oppure, per tutelarlo, sia necessario introdurre previsioni maggiormente vincolanti. In termini pratici, ci si domanda quali saranno le conseguenze dell’introduzione di una misura legislativa a tutela del diritto alla salute, ma in violazione di un’operazione di investimento. Al riguardo, le alternative sono due: o non verranno più aperti contenziosi sul modello di quello pendente contro il Tobacco Plain Packaging Act, 2011, poiché giuridicamente infondati (ICSID, ARB/10/7, FTR Holding SA, Holding SA, Philipp Morris Products S A and Abal Hermanos S A c. Oriental Republic Uruguay; UNCITRAL, n. 2012/12, Philip Morris Asia c. Australia);oppure, l’investitore continuerà ad iniziare tali procedimenti che avranno, però, minor possibilità di accoglimento, considerato che gli arbitri hanno meno discrezionalità interpretativa e gli accordi non paiono più mere carte dei diritti dell’investitore.
Ovviamente, la risposta arriverà dalla prassi. Ora, rileva solo evidenziare che la riformulazione delle clausole degli accordi che esplicitano la tutela, inter alia, del diritto alla salute, può comportare anche dei rischi.
Ci riferiamo, in primo luogo, al rischio di risultati non omogenei che possono derivare da una tutela multilivello. In altre parole, sin tanto che rimarranno in vigore gli accordi precedentemente sottoscritti dagli Stati membri, casi analoghi potranno essere risolti diversamente in base allo Stato in cui si verificano. Del resto, l’art. 168 TFUE dispone che l’Unione esercita in materia di salute pubblica una competenza di sostegno: ciascuno Stato membro legifera, dunque, in materia, in modo quasi del tutto discrezionale. Ciò significa che, presi due investitori extra-europei, il primo operativo in Francia il secondo in Italia, essi potrebbero essere oggetto di un trattamento differenziato in base alle misure introdotte dall’uno o dall’altro Stato membro a tutela della salute pubblica (l’Irlanda è il primo Stato membro dell’Unione Europea ad aver dichiarato di volere introdurre pacchetti di sigarette monocromi, v. qui e qui). Vi è poi il rischio, conseguente, che i nuovi accordi, negoziati in forma mista, assumano posizioni diverse nell’ordine delle fonti di ciascun Stato membro (che può applicare una procedura di adattamento di tipo monista o dualista).
Osserviamo, in secondo luogo, che l’aver introdotto espressamente la tutela del diritto alla salute non impone un allineamento delle normative interne delle parti dell’accordo. In argomento, ci domandiamo come, pendente la ratifica del CETA, si chiuderà la vertenza tra il Canada e la società Ely Lilly.
La questione si pone poiché l’Unione Europea ha una normativa di settore (quello delle privative industriali) diversa rispetto a quella canadese che, allo stato, pare peraltro non essere conforme alle previsioni NAFTA, nonché all’art. 29.1 TRIPs. Ad oggi, invero, un investitore europeo che operasse in Canada, anche sotto il cappello del CETA, sarebbe meno garantito di quanto non sarebbe un investitore canadese nel territorio europeo. Per il primo, infatti, la difficoltà di ottenere una privativa impedisce di avere riconosciuta la proprietà dell’invenzione e, così, di accrescere, con sicurezza, il proprio investimento.
5. In definitiva, il nuovo indirizzo dell’Unione in materia di tutela del diritto alla salute negli accordi commerciali rappresenta certo una novità ma, nella realtà, la tutela effettiva di tale diritto rimane in mano alle corti arbitrali.
Ciò si assume poiché il riconoscimento della libertà degli Stati di legiferare nell’interesse pubblico e, nello specifico, la contrattualizzazione del diritto alla salute non è andata, pari passu, con l’introduzione di una clausola c.d. condizionante: il legittimo proseguimento di un’operazione economica dovrebbe invero essere condizionato alla tutela, anche della salute pubblica. Solo così l’operatore economico si assume una responsabilità giuridica, nel senso che accetta di allineare la propria attività alle previsioni, nazionali e non, in materia, anche se introdotte pendente l’operazione di investimento.
La previsione espressa di un diritto non lo rende, di per sé, più vincolante e maggiormente rispettato. Del resto, la libertà di uno Stato di introdurre una modifica legislativa per tutelare la salute del proprio territorio, nonché dei propri cittadini, rientra nell’alveo delle libertà sovrane. Ribadirla per iscritto non ne accresce, però, la vincolatività, considerato che il diritto di esercitare una libertà sovrana dovrebbe esistere, indipendentemente da previsioni normative. Per il diritto internazionale, del resto, le fonti non scritte hanno pari valore di quelle scritte.
In definitiva, bene ha fatto l’Unione a voler esplicitare il diritto alla salute ma esso troverà effettiva tutela solo se l’introduzione di una modifica legislativa non sarà più oggetto di impugnazione ovvero, se lo fosse, sarà oggetto dello scrutinio di arbitri, inclini a riconoscere, preservandolo, il diritto sovrano dello Stato di tutelare valori non economici (per parte della giurisprudenza arbitrale la capacità di un investimento di contribuire allo sviluppo dell’economia dello Stato ospite cui accede è un fattore che, per parte della giurisprudenza arbitrale, deve essere valutato per decidere dell’esistenza di un’operazione di investimento. ICSID, ARB/00/4, Salini Costruttori s.p.a. e Italstrade s.p.a. c. Regno del Marocco). Allo stato riteniamo che, assente la clausola condizionante, sia più verosimile questa seconda soluzione. Ciò è ancora più vero considerato che, da un lato, gli arbitri hanno oggi meno discrezionalità interpretativa, essendo le nuove clausole a tutela dell’investimento maggiormente definite. Dall’altro, per il tramite dell’art. 31.3(c) della Convenzione di Vienna del 1969, gli arbitri possono interpretare l’accordo, anche alla luce di tutte le altre fonti vincolanti per le parti tra cui rientrano quelle, sempre più numerose, che tutelano diritti fondamentali.
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