diritto dell'Unione europea

Come risolvere la “questione Taricco” … senza far leva sull’art. 4, par. 2, TUE

Lucia Serena Rossi, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna*

1. Una possibile soluzione per Taricco II

Dato che su Taricco I (causa C-105/14) e sul conseguente invito della Corte costituzionale italiana alla Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) di pronunciarsi nuovamente sono ormai stati scritti moltissimi commenti (ex multis, Gallo, Amalfitano, Bin, Sarmiento, Streinbeis, Faraguna, Bassini and Pollicino, Repetto, Gradoni, Tega e Sarmiento), in un recente post avevo provato ad immaginare direttamene un possibile dispositivo della futura sentenza Taricco II.

Proseguo il discorso su questo blog per chiarire, in risposta alla domanda di alcuni Colleghi, perché non avevo fatto riferimento all’art. 4, par. 2, TUE ed al concetto di identità nazionale degli Stati membri, a cui invece si richiama l’ordinanza di rinvio della Corte costituzionale.

Nel post sopra citato avevo cercato di immaginare una soluzione che non compromettesse i principi strutturali supremi su cui si fonda l’Unione, per un caso che pone un problema serio e concreto. Una soluzione, cioè, che trovasse un punto di incontro fra le Corti, senza che nessuna delle due dovesse rinunciare a quanto di essenziale è per ciascuna implicato in questa vicenda, vale a dire i principi di autonomia e primato per la Corte di Lussemburgo e i diritti fondamentali legati al processo penale per la Consulta.

Riassumendo quanto scritto in quella sede, ecco dunque i punti attraverso i quali potrebbe svolgersi il ragionamento della futura sentenza Taricco II (ovvero un ipotetico dispositivo):

  1. La dottrina degli effetti diretti del Trattato è nata in collegamento ai benefici che ne derivano per i cittadini, come era in Van Gend.
  2. Mentre però per le direttive non attuate è stato chiarito che tali effetti possono essere fatti valere dagli individui contro gli Stati (SACE), ma non viceversa (Ratti), non è escluso che talune norme dei Trattati possano creare obblighi anche per gli individui. Tuttavia, poiché l’art. 325 TFUE si rivolge chiaramente agli Stati, il riconoscimento di effetti diretti che pregiudichino le posizioni degli individui deve essere valutato attentamente, esaminando tutti i principi fondamentali in gioco.
  3. Innanzitutto va riconosciuto che quelli di autonomia, primato e dell’effetto diretto sono i più alti principi strutturali dell’ordinamento giuridico dell’Unione. Sono principi costituzionali supremi, correlati all’esistenza stessa di quest’ordinamento. Di conseguenza, i giudici degli Stati membri hanno il dovere di disapplicare le norme nazionali in contrasto con quelle dell’Unione.
  4. Tuttavia, come è stato affermato dalla stessa Corte in Taricco I (punto 53), nel fare questo i giudici devono verificare il rispetto dei diritti fondamentali. I diritti fondamentali sono infatti, come specifica l’art. 6 TUE, anche principi fondamentali dell’ordinamento dell’UE, che risultano chiaramente accessibili ai giudici nazionali tramite la Carta dei diritti fondamentali.
  5. Nel caso di specie, spetta dunque al giudice nazionale verificare innanzitutto se l’estensione del periodo di prescrizione costituisce un diritto che può essere definito come fondamentale in quello specifico ordinamento, anche alla luce del diritto dell’Unione europea, della Carta dei diritti fondamentali e della giurisprudenza della CGUE.
  6. Qualunque attenuazione degli effetti diretti dell’art. 325 TFUE risultasse indispensabile per tutelare i diritti fondamentali dovrebbe limitarsi alla sfera penale, ma non potrebbe tuttavia estendersi agli effetti civili ed amministrativi.
  7. Rimane comunque in capo agli Stati membri l’obbligo di combattere e prevenire attività illegali ai danni del bilancio dell’Unione, nel rispetto dei principi di equivalenza, efficacia e dissuasività delle sanzioni. E rimane in capo alla Commissione l’obbligo di monitorare e far rispettare questi obblighi con tutti i mezzi in suo possesso, incluso il giudizio di infrazione.

 

Seguendo un simile ragionamento, la Corte di giustizia potrebbe innanzitutto ribadire l’importanza di alcuni principi strutturali supremi dell’ordinamento dell’Unione, quelli cioè che ne costituiscono il fondamento stesso (autonomia, primato, effetto diretto), chiarendo in via generale la loro prevalenza in caso di contrasto fra ordinamenti. Questo non le impedirebbe tuttavia di trovare per il caso concreto una soluzione “interna” all’ordinamento dell’Unione, dando spazio ai diritti fondamentali, non come controlimiti “esterni” (provenienti dalle Costituzioni degli Stati membri), ma come principi dell’ordinamento europeo.

È importante rilevare che la Corte potrebbe adottare una Taricco II in tal senso senza contraddire quanto affermato in Taricco I. Infatti essa potrebbe riallacciarsi al punto 53 della precedente sentenza, in cui ha affermato che: «occorre aggiungere che se il giudice nazionale dovesse decidere di disapplicare le disposizioni nazionali di cui trattasi, egli dovrà allo stesso tempo assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati. Questi ultimi, infatti, potrebbero vedersi infliggere sanzioni alle quali, con ogni probabilità, sarebbero sfuggiti in caso di applicazione delle suddette disposizioni di diritto nazionale». La stessa sentenza, del resto, nell’esprimere dubbi sul fatto che la disapplicazione della legge italiana possa costituire una violazione dell’art. 49 della Carta, lo fa «con riserva di verifica da parte del giudice nazionale» (ibid., punto 55).

Una seconda possibilità per la Corte di giustizia sarebbe applicare essa stessa la Carta, sostenendo che il primo giudice di rinvio non aveva spiegato in maniera sufficientemente chiara l’incidenza sui diritti fondamentali dell’imputato. Essa potrebbe, cioè, decidere che, alla luce dei maggiori chiarimenti forniti nell’ordinanza della Corte costituzionale, un’applicazione diretta al caso concreto dell’art. 325 TFUE contrasterebbe con l’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali.

In ogni caso, l’applicazione dei diritti fondamentali come limite all’efficacia dell’art. 325 TFUE non dovrebbe estendersi oltre quanto strettamente necessario per tutelare i diritti in campo penal-processualistici del signor Taricco, fermo restando non solo il diritto, ma anche il dovere dello Stato italiano di procedere nei suoi confronti con ogni altro tipo di sanzione. È poi evidente che, per evitare casi come questo, la Commissione dovrebbe meglio vigilare a che gli Stati membri non adottino o mantengano leggi contrarie al diritto dell’Unione.

 

2. Malintesi ed eccessive aspettative sull’art. 4, par. 2, e necessità di un suo inquadramento sistematico alla luce del Trattato UE

Le soluzioni sopra ipotizzate non menzionano l’art. 4, par. 2, TUE, che afferma il rispetto dell’identità nazionale degli Stati membri. Tale disposizione, che non è stata peraltro richiamata nemmeno dalla CGUE in Taricco I, è stata invece evocata – per la verità abbastanza timidamente – dalla Corte costituzionale nella sua ordinanza di rinvio, come possibile fonte di principi atti a risolvere il caso.

Credo però che risolvere Taricco senza fare riferimento all’art. 4, par. 2, sia non solo più semplice, ma anche più corretto dal punto di vista giuridico. L’art. 4, par. 2, norma introdotta dal Trattato di Lisbona, rischia di dare luogo a malintesi e sopravvalutazioni, che possono essere evitati solo inquadrando tale norma alla luce del Trattato UE nel suo complesso.

Proprio alla luce del caso Taricco, ed in relazione al più generale problema dei “controlimiti” costituzionali, mi sembra importante innanzitutto chiarire il rapporto fra questa norme e l’art. 6, par. 3, TUE. Vi è una sovrapposizione fra loro, nel senso che i principi strutturali dell’ordinamento nazionale comprendono anche i diritti fondamentali o invece esse si riferiscono ad ipotesi diverse? A mio avviso si tratta di norme complementari, che coesistono a livello di principi generali nel Trattato UE e che si applicano a situazioni distinte.

L’art. 6, par. 3, TUE fa riferimento ai diritti fondamentali, che fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali, come risultanti, fra le altre fonti, dalle «tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri». Si tratta di una formula antica, dapprima elaborata dalla Corte di giustizia e poi accolta all’interno dei Trattati con il Trattato di Maastricht, per la cui interpretazione è possibile attingere alla giurisprudenza della Corte stessa, ed oggi anche alla Carta dei diritti fondamentali. Le «tradizioni costituzionali comuni» costituiscono un concetto “comunitarizzato”, che trae ispirazione dai valori nazionali, ma non ne rappresenta la somma o il minimo comune denominatore. Ben lungi dal costituire un atto di sottomissione agli ordinamenti giuridici nazionali, esso esprime un rispetto per questi ultimi fondato però sull’autonomia dell’ordinamento giuridico dell’UE. I diritti fondamentali sono principi generali di quest’ultimo e, pur traendo ispirazione dalle costituzioni nazionali, appartengono a quest’ultimo.

Nel rapporto fra ordinamenti, i diritti fondamentali possono ormai in buona parte rappresentare, grazie alla Carta dei diritti fondamentali, dei “controlimiti condivisi”, che concorrono a formare, assieme agli altri valori di cui all’art. 2 TUE, il nucleo di quel concetto di “identità europea” evocato dai preamboli del TUE e della Carta. Certo rimane il problema di stabilire una gerarchia fra questi ultimi ed il primato, che la Corte ha risolto (in Melloni) nettamente a favore di quest’ultimo, peraltro in sintonia con quanto afferma la Carta stessa, ma che rimarrà oggetto di un bilanciamento caso per caso. Per i “controlimiti” connessi ai diritti fondamentali, l’art. 6, par. 3, TUE e la Carta dei diritti fondamentali offrono comunque un terreno di confronto fra le Corti consolidato.

L’art. 4, par. 2, invece, si riferisce all’identità nazionale di ciascuno Stato membro, «insita nella […sua] struttura fondamentale, politica e costituzionale», compreso il sistema delle autonomie locali e regionali e alle funzioni essenziali dello Stato, in particolare le funzioni di salvaguardia dell’integrità territoriale, di mantenimento dell’ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale.

Dunque sostanzialmente è riferito ai principi di organizzazione dello Stato, nei suoi vari livelli e competenze (tema molto caro alla Corte costituzionale tedesca: v. Tomuschat). Se letto alla luce dell’art. 6, par. 3, TUE, l’art. 4, par. 2, non sembra invece coprire anche i diritti fondamentali previsti dagli ordinamenti costituzionali degli Stati membri.

La Corte non ha ancora elaborato una dottrina compiuta sull’art. 4, par. 2, TUE, ma ha pronunciato una decina di sentenze, in relazione a Stati membri che invocavano, in campi assai diversi fra loro, il rispetto di principi connessi alla loro identità nazionale (v. Burgorgue-Larsen e Di Federico). Nessuno di questi principi era però relativo al rispetto dei diritti fondamentali; anzi, in taluni casi il principio era invocato dagli Stati proprio per giustificare una deroga a tali diritti (v. ad esempio Sayn e Bogendorff).

In casi come Taricco, in cui sono in gioco i diritti fondamentali, sembra dunque più opportuno fare riferimento all’art. 6, par. 3, TUE piuttosto che all’art. 4, par. 2, TUE. Certo, si potrebbe eccepire che la prescrizione attiene ai principi strutturali che regolano il processo in Italia, ma non credo che, a differenza dei diritti fondamentali, una particolare durata del termine prescrittivo (fra l’altro più volte modificata) possa essere definita come un elemento essenziale dell’identità nazionale italiana.

In questa prospettiva, l’art. 4, par. 2, assume una nuova configurazione, assai ridimensionata rispetto alle aspettative che la sua inserzione nel Trattato di Lisbona aveva creato.

Innanzitutto, se i diritti fondamentali restano fuori dal suo campo di applicazione, l’art. 4, par. 2, non può essere visto come norma che assommi in sé, giustificandoli, tutti i possibili controlimiti statali. In altre parole, l’identità nazionale cui tale norma si riferisce non coincide con quel concetto più ampio e omnicomprensivo di “identité constitutionnelle” che, sviluppato inizialmente dalla Corte costituzionale francese, è poi divenuto, nella giurisprudenza di tante altre Corti costituzionali, la formula sintetica che indica tutti i possibili controlimiti degli Stati membri.

Inoltre, in relazione ai controlimiti diversi dai diritti fondamentali, spetterà alla Corte di giustizia precisare sostanza e limiti dell’art. 4, par. 2, TUE. Non si deve però ritenere che l’art. 4, par. 2, costituisca una porta spalancata per gli altri controlimiti. Occorre infatti sottolineare la sua necessaria complementarietà con gli ulteriori principi affermati dello stesso articolo, che ne limitano gli effetti. Fra l’altro, a differenza dell’art. 6 par. 3, l’art. 4, par. 2, non può essere ricondotto ai valori fondamentali dell’Unione europea affermati dall’art. 2 TUE ed offre pertanto agli Stati membri – ed ai loro controlimiti costituzionali – una sponda assai meno ferma e sicuramente più condizionata al rispetto dei principi fondamentali dell’Unione europea.

Se la Corte non lo farà con la sentenza Taricco II, le basi per un chiarimento interpretativo dell’art. 4, par. 2, potrebbero essere poste con una giurisprudenza che si consolidasse attorno al rispetto della rule of law. È infatti verosimile che gli Stati accusati di violarla cercheranno di invocare la propria identità costituzionale. La Corte potrebbe allora chiarire che il concetto di identità costituzionale di cui all’art. 4, par. 2, non giustifica qualunque eccezione alle regole, in quanto incontra dei limiti nei principi di leale cooperazione e di uguaglianza degli Stati membri davanti ai Trattati (quest’ultimo sancito dallo stesso art. 4, par. 2, TUE).

La funzione dell’art. 4, par. 2, in definitiva, è quella non di giustificare tutti i controlimiti nazionali, ma di costituire un limite per la legislazione derivata delle istituzioni dell’Unione. Un limite la cui valutazione è però in ultima analisi rimessa alla CGUE – e non alle Corti costituzionali nazionali –, che ne bilancerà l’applicazione con i principi fondamentali dell’Unione europea.

 

3. Il bilanciamento fra primato e diritti fondamentali: recuperare il metodo delle “esigenze imperative”

Il rapporto fra Corti è cristallizzato in una situazione in cui la Corte di giustizia da un lato e le Corti costituzionali dall’altro si ergono, superiorem non recognoscentes, a baluardo dei principi supremi dei rispettivi ordinamenti, salvo poi accettare ragionevoli compromessi nella prassi quotidiana. Difficilmente sarà la futura sentenza Taricco II a risolvere definitivamente il problema dei rapporti fra ordinamenti, ponendo fine alle teorizzazioni parallele – e mai del tutto convergenti – della Corte di giustizia e delle Corti costituzionali o supreme degli Stati membri.

Naturalmente, se lo scontro fra ordinamenti avviene sui massimi sistemi le posizioni si irrigidiscono e diventa difficile trovare soluzioni di compromesso. Ma la Consulta non sta chiedendo alla CGUE di rinunciare al primato, né sta orgogliosamente rivendicando un’applicazione generale e astratta dei controlimiti nazionali. Sta chiedendo alla Corte di giustizia di trovare una soluzione ragionevole per casi concreti che sollevano un serio problema costituzionale.

Come si è detto sopra, il rapporto fra diritti fondamentali e primato si dovrebbe risolvere con un bilanciamento che la CGUE effettua caso per caso, muovendosi fra valori che sono –e nella misura in cui lo sono – tutti interni all’ordinamento dell’Unione. In questo bilanciamento la Corte può anche utilmente giovarsi della sensibilità dei giudici nazionali per valutare il concreto impatto di una norma dell’Unione sui diritti individuali.

Alla fine degli anni Settanta (Cassis de Dijon), sviluppando la teoria delle esigenze imperative, la Corte aveva mostrato che è possibile utilizzare criteri di ragionevolezza nell’esaminare, alla luce del principio di proporzionalità, possibili deroghe alle regole comuni in nome di importanti esigenze evocate dagli Stati membri, senza per questo mettere in discussione il principio del primato. Occorrerebbe tornare a quel metodo pragmatico, che ha talvolta consentito di considerare come “interesse comune” – e dunque degno di tutela a livello generale – quelle esigenze importanti nel nome delle quali uno Stato membro chiedeva di derogare alle regole comuni.

L’affaire Taricco costituisce perciò un’ottima opportunità per un dialogo costruttivo fra le Corti. Quel dialogo la cui necessità è stata peraltro riaffermata dalla stessa Corte di giustizia in occasione dei 60 anni dalla firma del Trattato di Roma.

 

* Questo contributo costituisce la sintesi di un più ampio lavoro, in corso di pubblicazione.

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