diritto dell'Unione europea

Il requisito della cittadinanza italiana nell’accesso ai concorsi pubblici: brevi spunti di riforma alla luce della recente giurisprudenza

Amedeo Arena, Università degli Studi di Napoli “Federico II”

Il possesso della cittadinanza italiana quale requisito per la partecipazione ai concorsi pubblici è di recente assurto agli onori delle cronache grazie a due pronunce di merito di segno diametralmente opposto: da una parte, la Sezione seconda quater del TAR Lazio, con la sentenza del 17 gennaio 2017, n. 6171, ha disposto l’annullamento del bando e degli atti relativi alla selezione dei direttori di due istituti museali in quanto «non esclud[evano] la partecipazione di cittadini non italiani»; dall’altro, la Sezione lavoro del Tribunale di Firenze, con l’ordinanza del 27 maggio 2017, ha sospeso il concorso pubblico per assistente giudiziario «in modo da permettere ai cittadini comunitari» ed ai cittadini di Paesi terzi ad essi equiparati di partecipare, previa riapertura dei termini, alla procedura di selezione.

Per comprendere le ragioni alla base di tale diversità di orientamenti, occorre brevemente richiamare la disciplina nazionale in tema di accesso agli incarichi pubblici. L’art. 51 della Costituzione prevede che i cittadini possano accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. L’art. 38 del TU sul pubblico impiego (d.lgs. 165/2001), in continuità con il previgente art. 37 del d.lgs. 29/1993, consente ai cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea di accedere agli impieghi presso le amministrazioni «che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale», rinviando ad una fonte regolamentare l’individuazione dei «posti e [del]le funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana». Tale disposto normativo trova attuazione nel tutt’ora vigente DPCM 174/1994, che riserva agli italiani, in particolare, tutti i posti di livello dirigenziale presso le amministrazioni pubbliche nonché gli incarichi di qualsiasi livello presso il Ministero della Giustizia ed altri enti ivi elencati.

La motivazione della sentenza del TAR Lazio si colloca esclusivamente nell’ambito di tale perimetro normativo: posto che gli incarichi messi a bando attenevano a posizioni dirigenziali presso pubbliche amministrazioni, essi avrebbero dovuto essere destinati soltanto ai cittadini italiani e ciò in quanto «nessuna norma derogatoria consentiva al [Ministero dei Beni culturali] di reclutare dirigenti pubblici al di fuori delle indicazioni, tassative, espresse dall’art. 38 d.lgs. 165/2001». Come rilevato in dottrina (Bin), i giudici amministrativi non si sono affatto interrogati sulla compatibilità del requisito relativo al possesso della cittadinanza italiana con la libera circolazione dei lavoratori di cui all’art. 45 TFUE, mentre si sono diffusamente soffermati sull’eventuale abrogazione di tale requisito ad opera della c.d. riforma Franceschini (art. 14, comma 2-bis, del d.l. 84/2014, convertito in l. 106/2014), finalizzata ad «adeguare l’Italia agli standard internazionali in materia di musei». Per il TAR Lazio, peraltro, in assenza di un’espressa previsione volta ad estendere ai candidati di nazionalità non italiana la platea dei potenziali partecipanti al concorso, l’obiettivo della riforma doveva ritenersi realizzato valorizzando ai fini della selezione il carattere “internazionale” dell’esperienza maturata all’estero dai candidati italiani.

L’ordinanza del Tribunale di Firenze, invece, muove dalla differente premessa che il requisito del possesso della cittadinanza italiana per l’accesso agli incarichi pubblici «ha subìto restrizioni derivanti dal processo d’integrazione europea», nella misura in cui l’art. 45 TFUE vieta le discriminazioni in base alla nazionalità nell’accesso alle attività salariate. In deroga a tale divieto, il paragrafo 4 del medesimo articolo consente agli Stati membri di riservare ai propri cittadini l’accesso agli «impeghi nella pubblica amministrazione», restrittivamente definiti dalla Corte di giustizia come l’insieme degli incarichi che comportano «la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche» (così a partire dalla sentenza del 17 dicembre 1980, Commissione c. Belgio (impieghi pubblici I), punto 10). Secondo il giudice del lavoro, peraltro, tale deroga non poteva trovare applicazione nel caso degli assistenti giudiziari, in quanto questi ultimi svolgono «un’attività ausiliaria, preparatoria all’esercizio di pubblici poteri» propri dell’autorità giudiziaria, nonché una «ridotta e del tutto occasionale» attività certificativa relativa al rilascio di copie ed alla ricezione in deposito degli atti. Di conseguenza, il Tribunale del capoluogo toscano ha disapplicato le norme interne relative al requisito della cittadinanza italiana ed ha disposto la sospensione del concorso e la riapertura dei termini, onde consentire ai soggetti illegittimamente esclusi di presentare domanda di partecipazione.

La soluzione cui è pervenuta tale ordinanza – peraltro revocata in sede di reclamo, ma per motivi non attinenti al fumus boni iuris – si pone in evidente continuità con la sentenza del 10 settembre 2014, Haralambidis c. Casilliin cui la Corte di giustizia aveva statuito che la normativa italiana in materia di accesso al pubblico impiego era incompatibile con l’art. 45, par. 4, TFUE nella misura in cui non consentiva ai cittadini di altri Stati membri di aspirare alla carica di Presidente dell’Autorità portuale di Brindisi. Al riguardo, i giudici dell’Unione europea avevano osservato che, sebbene il presidente di un’autorità portuale disponga di “poteri d’imperio” riconducibili alla deroga de qua (quali il potere di ingiungere la riduzione in pristino delle aree demaniali abusivamente occupate e di adottare provvedimenti coattivi per assicurare la navigabilità del porto in casi di necessità e urgenza), l’esercizio di siffatti poteri risulta, di fatto, talmente sporadico e marginale da non giustificare l’esclusione dei cittadini di altri Stati membri dall’accesso ad un incarico che si sostanzia, in prevalenza, nell’espletamento di mansioni tecniche e di gestione (ibid., punti 57-61).

Che dire, invece, della sentenza del TAR Lazio relativa ai direttori dei musei? In base a quanto riferito, ci si potrebbe aspettare che, se l’art. 45, par. 4, TFUE non è applicabile ad un incarico, quale quello di presidente di un’autorità portuale, che comporta l’esercizio – sia pure occasionale – di poteri d’imperio, il richiamo a tale deroga sia a fortiori ultroneo nel caso di un impiego, quale quello di direttore di un istituto museale, che non dispone di analoghi poteri, ma si risolve nell’assolvimento di attività culturali e di gestione (quali «l’organizzazione di mostre ed esposizioni», la determinazione dell’«importo dei biglietti d’ingresso» e degli «orari d’apertura», l’«affidamento diretto o in concessione delle attività e dei servizi pubblici di valorizzazione del museo», l’autorizzazione al «prestito di beni culturali», ecc.; v. TAR Lazio, sentenza 6171/2017, punto 7). Eppure, nella successiva sentenza 15 maggio 2017, n. 6719, la medesima sezione del TAR Lazio ha raggiunto la conclusione opposta con riferimento alla selezione del direttore del Parco archeologico del Colosseo, incarico che secondo i magistrati amministrativi comporterebbe, «accanto a compiti di natura prettamente tecnica e culturale», l’esercizio costante di «poteri eminentemente autoritativi» (quali la «gestione del parco archeologico», il «prestito di beni culturali», «l’affidamento delle attività e dei servizi pubblici», ecc.), nonché le «funzioni spettanti ai Soprintendenti archeologia, belle arti e paesaggio».

Tale orientamento del TAR Lazio appare difficilmente riconciliabile con la giurisprudenza della Corte di giustizia relativa all’interpretazione dell’art. 45, par. 4, TFUE. In primo luogo, in base ad una dicotomia che i giudici dell’Unione hanno preso in prestito dal diritto internazionale (Arena, pp. 107-108) le attività “di gestione”, ivi compreso il rilascio di concessioni, rappresentano l’esatto opposto rispetto ai poteri “d’imperio” il cui esercizio legittima il ricorso all’art. 45, par. 4, TFUE (CGUE, sentenza Haralambidis, punti 57-59). In secondo luogo, quand’anche alcuni dei compiti dei dirigenti in questione fossero ascrivibile alla categoria dei poteri “d’imperio” nel senso poc’anzi precisato, non è escluso che si tratti di «una parte marginale» rispetto alle mansioni di natura tecnica, culturale e gestionale (ibid., punto 60). In tal caso, per costante giurisprudenza, un’esclusione generale dei cittadini di altri Stati membri dall’accesso alla carica in questione costituirebbe una discriminazione vietata ai sensi dell’art. 45 TFUE (ibid., punto 61).

Pienamente condivisibile è quindi la sentenza del 24 luglio 2017, n. 3666, con cui la sesta sezione del Consiglio di Stato ha riformato la sentenza del TAR Lazio relativa alla selezione del direttore del Parco archeologico del Colosseo, rilevando che, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di prime cure, i compiti di gestione del Parco archeologico e dei beni culturali in consegna, di autorizzazione al prestito di detti beni e di svolgimento delle procedure di evidenza pubblica attengono ad un’«attività prevalentemente rivolta alla gestione economica e tecnica» non suscettibile di inquadramento nella deroga di cui all’art. 45, par. 4, TFUE (punto 4 della parte in diritto). Pertanto il Collegio, previa «non applicazione» della normativa interna in contrasto con il diritto dell’Unione, ha sancito la legittimità della partecipazione di cittadini non italiani alla procedura concorsuale.

Ad un’analoga soluzione i giudici della quarta sezione di Palazzo Spada erano invece pervenuti, nella citata causa Haralambidis, attraverso l’interpretazione conforme della normativa interna al principio della libera circolazione dei lavoratori come interpretato dalla Corte di giustizia (sentenza del 13 gennaio 2015, n. 2120, punto 6.2 della parte in diritto). Appare quindi lecito presumere che, anche nel caso dei direttori dei musei, il Consiglio di Stato – il quale ha già sospeso in via cautelare la sentenza di primo grado – vorrà, in linea con le proprie precedenti pronunce, confermare la regolarità della partecipazione al concorso di candidati privi del requisito della cittadinanza italiana, tenuto anche conto che, a seguito della sentenza di primo grado, il legislatore ha espressamente sottratto le procedure di selezione dei dirigenti dei musei e degli istituti di cultura al rispetto dei «limiti d’accesso» previsti dall’art. 38 del TU sul pubblico impiego.

A prescindere dall’esito delle controversie pendenti, la loro stessa esistenza evidenzia l’improcrastinabile necessità di un intervento organico di riforma della disciplina interna relativa al requisito del possesso della cittadinanza italiana per l’accesso agli incarichi pubblici. Come è noto, difatti, la disapplicazione ad opera dei giudici e delle amministrazioni nazionali delle norme interne contrarie al diritto dell’Unione non esime lo Stato membro interessato dall’obbligo di provvedere all’immediata modifica o abrogazione delle norme in questione, onde eliminare qualsiasi incertezza quanto alla loro vigenza per gli interessati (Sentenza del 26 aprile 1988, Commissione c. Germania, punti 8-12). La Corte di giustizia ha altresì precisato che l’adeguamento della normativa interna deve avvenire «solo tramite disposizioni interne vincolanti che abbiano lo stesso valore giuridico di quelle da modificare», posto che delle semplici prassi amministrative conformi al diritto dell’Unione sono modificabili ad libitum dall’amministrazione e sono di norma sprovviste di adeguata pubblicità (sentenza 15 ottobre 1986, Commissione c. Italia, punto 13).

Nel caso della normativa italiana in materia di accesso alle cariche pubbliche, il testo dell’art. 38 del TU sul pubblico impiego, che riserva ai cittadini italiani gli impieghi che «implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri» ovvero «attengono alla tutela dell’interesse nazionale», non presenta particolari criticità, in quanto è di tenore sostanzialmente analogo alle espressioni (rispettivamente, «la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri» e «la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche») utilizzate dalla Corte di giustizia per delineare i contorni dell’art. 45, par. 4, TFUE.

Maggiori perplessità suscita, invece, la fonte regolamentare richiamata dal TU, vale a dire il DPCM 174/1994. Come rilevato dal Tribunale di Firenze (ordinanza del 27 maggio 2017, pp. 7 e 8) e dal Consiglio di Stato (sentenza 3666/2017, cit., punto 4 della parte in diritto), mentre la Corte di giustizia ha interpretato la deroga contenuta nel Trattato in base ad un criterio «funzionale-dinamico» (tenendo cioè conto delle attività concretamente svolte nell’ambito degli impieghi in questione), l’art. 1 del citato DPCM si fonda su un criterio «strutturale-statico», riservando ai cittadini italiani, a prescindere dalle mansioni effettivamente esercitate, le posizioni dirigenziali presso le amministrazioni statali e periferiche (compresi gli enti pubblici non economici, le Regioni, gli enti locali e la Banca d’Italia), nonché le intere carriere in magistratura, nell’avvocatura dello Stato e nei ruoli civili e militari di enti espressamente menzionati (la Presidenza del Consiglio, i Ministeri degli Esteri, dell’Interno, della Giustizia, della Difesa, delle Finanze ed il soppresso Corpo forestale).

L’incompatibilità tra l’art. 1 del DPCM 174/1994 e l’art. 45, par. 4, TFUE non deriva tanto dalla tecnica di drafting normativo impiegata dalla fonte regolamentare, quanto dall’eccessiva ampiezza delle categorie di impieghi pubblici che essa riserva ai cittadini italiani (lista «redatta in modo un po’ troppo generoso» anche secondo Caranta, La libertà di circolazione dei lavoratori nel settore pubblico, in Diritto dell’Unione Europea, 1999, p. 45). Mentre non v’è dubbio che la carriera in magistratura comporti l’esercizio abituale di pubblici poteri, lo stesso non sembra potersi dire di tutti gli incarichi dirigenziali presso le pubbliche amministrazioni e di tutti gli impieghi presso gli enti individuati dal decreto (si pensi, ad esempio, ai posti con mansioni meramente ausiliarie o esecutive). La portata dell’art. 1 del DPCM 174/1994 dovrebbe quindi essere opportunamente circoscritta, tenendo conto degli esempi di «impieghi nella pubblica amministrazione» forniti dalla Corte di giustizia, che nella sentenza 26 maggio 1982, Commissione c. Belgio (impeghi pubblici II), punto 11, ha acconsentito a che fossero riservati ai cittadini belgi determinati incarichi di ispettore, guardiano notturno ed architetto presso le amministrazioni comunali, e dalla Commissione europea, che in una comunicazione del 1988, p. 3 ha ritenuto la deroga de qua applicabile alle c.d. fonctions régaliennes, vale a dire: «le forze armate, la polizia e le altre forze dell’ordine pubblico, la magistratura, l’amministrazione fiscale e la diplomazia» (esempi richiamati altresì dal Consiglio di Stato nella sentenza 3666/2017, cit., punto 4 della parte in diritto).

L’art. 2 del DPCM assume, al pari della giurisprudenza della Corte di giustizia, una prospettiva funzionale, individuando «le tipologie di funzioni delle amministrazioni pubbliche» il cui esercizio può essere subordinato al possesso della cittadinanza italiana: trattasi delle «funzioni che comportano l’elaborazione, la decisione, l’esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi», nonché delle «funzioni di controllo di legittimità e di merito». In questo caso, l’intervento di riforma potrebbe limitarsi a rimodulare i criteri contenuti nel decreto alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia, prevedendo, ad esempio, una combinazione di requisiti positivi (quali l’esercizio «in modo abituale e prevalente» di «poteri d’imperio» – id est di «prerogative che esorbitano dal diritto comune, di privilegi e di poteri coercitivi a cui i privati debbono sottomettersi», secondo la celebre definizione dell’Avvocato generale Mayras) e di requisiti negativi (quali l’assolvimento di mansioni prevalentemente «tecniche o di gestione» o l’espletamento di attività meramente «preparatorie o ausiliarie» rispetto allo svolgimento dei compiti della pubblica amministrazione propriamente detta).

Contrariamente a quanto paventato dal TAR Lazio (v. sentenza 6171/2017, cit., punto 25 della parte in diritto; sentenza 6719/2017, cit., punto 6), una riforma nella direzione indicata non darebbe luogo a dubbi di compatibilità costituzionale: l’art. 51 Cost. deve infatti essere letto in conformità all’art. 11 Cost. «nel senso di consentire l’accesso dei cittadini degli Stati dell’Unione europea agli uffici pubblici e alle cariche pubbliche nazionali in via generale, sulla base del principio della libera circolazione delle persone ex art. 45 TFUE», ad eccezione degli impieghi di cui al par. 4 di tale articolo come interpretato dalla Corte di giustizia (Consiglio di Stato, sentenza 2120/2015, cit., punto 6.2. della parte in diritto; e sentenza 3666/2017, cit., punto 4 della parte in diritto). Né assume rilievo, al riguardo, la circostanza che anche le costituzioni di altri Stati membri contengano disposizioni concepite per riservare ai cittadini, salvo eccezioni, l’accesso agli impieghi pubblici: se è vero che l’art. 45, par. 4, TFUE ha lo scopo di tener conto dell’esistenza di siffatte disposizioni e del legittimo interesse degli Stati membri di riservare ai propri cittadini gli incarichi connessi all’esercizio dei pubblici poteri ed alla tutela dell’interesse nazionale, non si può consentire che la portata del principio della libera circolazione dei lavoratori sia limitata da «interpretazioni della nozione di “pubblica amministrazione” tratte dal solo diritto nazionale», in quanto ciò pregiudicherebbe l’efficacia e l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione nei vari Stati membri (CGUE, sentenza Commissione c. Belgio (impieghi pubblici I), punti 18 e 19).

Risulta peraltro evidente che, nel contesto di un mercato del lavoro per il pubblico impiego che trascende i confini nazionali, la “riserva di sovranità” consacrata dai redattori dell’art. 45, par. 4, TFUE trema sul proprio trono. Ciò discende non soltanto dalle limitazioni che il processo d’integrazione europea ha comportato per i poteri sovrani degli Stati membri, ma anche da una tendenza generalizzata, da parte di questi ultimi, a declinare la governance delle proprie amministrazioni secondo logiche di mercato, rispetto alle quali il mantenimento dei requisiti di cittadinanza appare tout simplement anacronistico (al riguardo Caranta, cit., p. 46). Pertanto, affinché le amministrazioni italiane sfruttino appieno le opportunità offerte dal mercato, non occorre solamente improntare la loro gestione a “standard internazionali” ispirati alle migliori pratiche di altri Paesi, ma si rivela innanzitutto necessario adeguare la selezione dei loro dipendenti agli “standard europei” di cui all’art. 45 TFUE.

Previous post

La “minaccia” nordcoreana e la risposta del Consiglio di sicurezza: impotenza o inefficacia?

Next post

L’adozione del Trattato sul disarmo nucleare tra entusiasmo, perplessità e aperta opposizione

The Author

Amedeo Arena

Amedeo Arena

No Comment

Leave a reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *