diritto internazionale pubblico

Non-refoulement e cambiamento climatico: il caso Teitiota c. Nuova Zelanda

Francesco Maletto, Università Cattolica di Milano

1. Le considerazioni (Views) sul caso Teitiota c. Nuova Zelanda (comunicazione n. 2728/2016), adottate dal Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite (d’ora in avanti, “il Comitato”) nell’ambito della sessione tenutasi dal 14 ottobre all’8 novembre 2019, e pubblicate il 7 gennaio 2020, costituiscono una pronuncia di notevole importanza in materia di cambiamento climatico e dell’impatto di tale fenomeno sui diritti umani. In particolare, come si vedrà, nel quadro della decisione in oggetto, il Comitato ha – per la prima volta – avuto l’occasione di prospettare l’applicazione del divieto di refoulement in caso di rischio per la vita derivante da disastri ambientali legati a cambiamenti climatici.

2. In primo luogo va qui ricordato che il ricorrente, il sig. Ioane Teitiota, era (ed è) un cittadino della Repubblica di Kiribati che aveva presentato domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato innanzi alle autorità della Nuova Zelanda. A fronte del rigetto della propria domanda da parte di queste ultime, il sig. Teitiota ha adito il Comitato asserendo che la Nuova Zelanda, nel rigettare la domanda e nel respingerlo verso la Repubblica di Kiribati, aveva violato il suo diritto alla vita, riconosciuto dall’art. 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (di seguito, anche, il “Patto”).

Nello specifico, l’autore della comunicazione ha sostenuto che gli effetti del cambiamento climatico e l’innalzamento del livello del mare lo avrebbero costretto, insieme alla sua famiglia, a emigrare dall’isola di Tarawa, nella Repubblica di Kiribati, fino in Nuova Zelanda. La situazione a Kiribati, infatti, sarebbe divenuta sempre più instabile e precaria proprio a causa dell’innalzamento del livello dell’Oceano Pacifico in conseguenza del riscaldamento globale. Ma non solo. L’acqua potabile sarebbe divenuta scarsa a causa della contaminazione da acqua salata e del sovraffollamento dell’isola. Nonostante ripetuti tentativi, le misure poste in essere dal governo di Kiribati per contrastare la situazione si sarebbero rivelate inadeguate e non sarebbero state in grado di impedire né la crisi abitativa né le dispute – in alcuni casi sfociate anche in episodi di violenza – relative al possesso di terre sempre meno fertili in ragione della loro progressiva salinizzazione. La Repubblica di Kiribati sarebbe dunque divenuta un ambiente instabile e violento, pericoloso per la vita del sig. Teitiota e della sua famiglia.

Nel 2012 il ricorrente aveva cercato asilo in Nuova Zelanda presentando la relativa domanda alle autorità competenti, le quali, tuttavia, l’avevano rigettata. Egli si era dunque rivolto al Tribunale per l’immigrazione (“Immigration and Protection Tribunal”) che, parimenti, si era pronunciato in senso negativo. Il rigetto veniva poi confermato in appello ed in ultima istanza. In tale contesto, la pronuncia del Tribunale del 25 giugno 2013 merita di essere esaminata.

Questa decisione, come del resto (v. infra) le stesse considerazioni del Comitato, si fondava su profili di carattere fattuale, non escludendo che, in linea di principio, lo scenario di degrado ambientale riscontrato possa creare “pathways into the Refugee Convention or protected person jurisdiction” (cfr. parr. 2.2 e 4.5). In particolare, dopo aver esaminato in maniera approfondita la situazione ambientale della Repubblica di Kiribati e dell’isola di Tarawa, il Tribunale si era interrogato sulla possibilità di qualificare il sig. Teitiota come rifugiato o, comunque, persona protetta alla stregua della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati o del Patto internazionale sui diritti civili e politici.

Con riferimento all’applicabilità della Convenzione del ’51 sullo statuto dei rifugiati, la corte neozelandese non ne esclude in radice l’applicabilità a persone colpite da disastri ambientali, affermando che, in assenza di qualsivoglia presunzione di inapplicabilità, sarebbe stato opportuno effettuare una valutazione caso per caso, al fine di verificare se, nel caso di specie, sussistessero gli estremi per il riconoscimento dello status di rifugiato (sul punto, D. Bodansky, J. Brunnée, L. Rajamani, The Oxford Handbook of International Climate Change Law, Oxford, 2017, p. 319). Orbene, esaminate – forse con un’eccessiva dose di flessibilità – le norme applicabili in materia e la situazione fattuale, il Tribunale concludeva che il ricorrente non si sarebbe trovato a fronteggiare un effettivo rischio di persecuzione ove avesse fatto ritorno a Kiribati. In particolare – sempre a giudizio del Tribunale – egli non sarebbe mai stato coinvolto in dispute relative al possesso di terreni, né ci sarebbero state prove in ordine a rischi di sofferenze fisiche a causa della situazione di violenza descritta in precedenza. Al contrario, il sig. Teitiota sarebbe stato in grado di trovare un alloggio per sé e la sua famiglia, nonché di avere accesso ad acqua potabile e cibo. Di conseguenza, non si sarebbero potute ravvisare condizioni in forza delle quali considerare a rischio la vita sua e dei suoi familiari. Per questi motivi, secondo il Tribunale per l’Immigrazione, non sarebbe stato possibile riconoscere al sig. Teitiota lo status di rifugiato ai sensi della Convenzione (cfr. par. 2.8).

In relazione alle norme del Patto, il Tribunale si era sostanzialmente concentrato su possibili violazioni, in caso di rimpatrio del sig. Teitiota, dell’art. 6 e, in misura minore, dell’art. 7 del Patto. Rispetto al primo, veniva sottolineato che – richiamando il General Comment del Comitato n. 6 del 1982 (oggi sostituito, come si vedrà infra, dal n. 36 del 2018) – il diritto alla vita consacrato nell’art. 6 deve essere oggetto di un’interpretazione di carattere estensivo. Inoltre, il diritto alla vita implicherebbe anche un obbligo positivo in capo allo Stato di garantire tale diritto attraverso l’adozione di misure idonee ad assicurare il godimento delle basilari esigenze di vita. A tal proposito il sig. Teitiota non avrebbe fornito prova di alcun atto od omissione da parte del governo di Kiribati indicante un qualsivoglia rischio di privazione arbitraria della sua vita.  D’altra parte – sempre secondo il Tribunale – il governo di Kiribati sarebbe stato particolarmente attivo sul piano del contrasto alle minacce del cambiamento climatico, come dimostrato dal relativo National Adaptation Programme of Action del 2007, presentato in seno alla United Nations Framework Convention on Climate Change. Infine, nessuna prova sarebbe stata fornita dal ricorrente sulla sussistenza di un effettivo rischio per la vita sua e dei propri familiari in caso di ritorno a Kiribati, rischio che – sempre secondo la richiamata giurisprudenza del Comitato – deve essere “imminente” (cfr. considerazioni del Comitato sul caso Aalbersberg et al. c. Paesi Bassi, CCPR/C/87/D/1440/2005). Ecco perché, a parere dei giudici neozelandesi, nessuna violazione degli artt. 6 e 7 del Patto si sarebbe generato in caso di ritorno del Sig. Teitiota a Kiribati.

La decisione veniva confermata tanto in appello quanto dalla Corte Suprema, che peraltro sottolineava come, da un lato, in caso di ritorno a Kiribati, il sig. Teitiota non sarebbe stato in pericolo di subire alcun danno effettivo e, dall’altro, come non vi fosse evidenza del fatto che il governo del Paese fosse stato manchevole nell’offrire protezione ai propri cittadini in relazione alle problematiche legate al cambiamento climatico.

3. Esauriti i ricorsi interni, il sig. Teitiota ha presentato una comunicazione al Comitato, ai sensi dell’art. 5 del Protocollo opzionale del Patto, sostenendo appunto che, respingendolo verso Kiribati, la Nuova Zelanda avrebbe violato il suo diritto alla vita riconosciuto dall’art. 6 del Patto. In particolare, come già ricordato, l’innalzamento del livello del mare a Kiribati si sarebbe tradotto in una scarsità di spazio degenerata in violente dispute che avrebbero messo in pericolo la vita del ricorrente, nonché in una situazione di degrado ambientale caratterizzata, tra le altre cose, dalla contaminazione da acqua salata delle risorse idriche potabili.

Lasciando da parte le questioni relative all’ammissibilità della comunicazione, è senza dubbio interessante concentrarsi sulle argomentazioni utilizzate dal Comitato nel merito. Al riguardo è da sottolinearsi che il ragionamento si apre proprio con un’approfondita analisi del rapporto tra il principio del non-refoulement ed i diritti fondamentali della persona umana (si veda, sul punto, General Comment n. 31 del 2004 sulla natura degli obblighi di carattere generale in capo agli Stati parte del Patto). In particolare, il Comitato fa riferimento all’obbligo di non estradare, deportare, espellere o in ogni caso respingere un individuo dal proprio territorio nel caso in cui vi siano fondati motivi per ritenere sussistente un rischio reale di danno irreparabile ai diritti sanciti agli artt. 6 e 7 del Patto medesimo. In particolare, viene confermato quel che appare un principio ormai consolidato nella prassi: e cioè, che l’obbligo appena citato ha una portata applicativa più ampia di quella riconosciuta al principio del non-refoulement nell’ambito del diritto internazionale dei rifugiati, offrendo protezione a tutti coloro che nello Stato di provenienza siano esposti a un reale rischio di violazione del proprio diritto alla vita (cfr., su tutti, il General Comment n. 36 del 2018). Sottolinea poi il Comitato che gli obblighi per gli Stati contraenti di rispettare e garantire il diritto alla vita si estendono altresì ai rischi comunque prevedibili e alle situazioni c.d. life-threatening che potrebbero risultare in una perdita della vita medesima. I rischi, tuttavia, devono essere individuali e non derivare, tranne che in casi estremi, da condizioni di carattere generale (cfr., ancora, par. 30 del General Comment). Inoltre, è, secondo il Comitato, necessario rispettare un “high threshold” per offrire prova della sussistenza di un effettivo rischio di danno irreparabile (su questo punto, cfr. infra l’opinione dissenziente di Laki Muhumuza).

È però il passaggio successivo ad essere centrale: con esso le problematiche legate al cambiamento climatico vengono innestate, per così dire, nell’ambito del diritto alla vita, così come riconosciuto dall’art. 6 del Patto. Sono proprio, secondo il Comitato, il degrado ambientale, il cambiamento climatico e lo sviluppo non sostenibile a costituire, sempre nel solco di quanto già affermato nel General Comment n. 36 del 2018, “some of the most pressing and serious threats to the ability of present and future generations to enjoy the right to life” (par. 9.4). Allo stesso modo, il degrado ambientale può compromettere l’effettivo godimento di tale diritto e, danneggiando il benessere degli individui, può tradursi in una sua violazione. A sostegno di queste affermazioni, peraltro, il Comitato richiama proprio quanto sottolineato nel General Comment appena citato (cfr. parr. 26 e 62): l’obbligo degli Stati di rispettare e garantire il diritto alla vita – e, in particolare, il diritto ad una vita dignitosa – implica la sussistenza in capo agli Stati di obblighi di carattere positivo, tra cui rientrano anche quelli derivanti dal diritto internazionale dell’ambiente. L’effettivo godimento del diritto ad una vita dignitosa, infatti, dipende anche dalle misure adottate dallo Stato per proteggere l’ambiente dai danni derivanti dall’inquinamento e dal cambiamento climatico. Ampia è poi la giurisprudenza esaminata dal Comitato: tra le sentenze citate, particolarmente interessante – per profili di attualità – è il richiamo alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Ilva (sent. 24 gennaio 2019, nn. 54414/12 e 54264/15, Cordella et al. c. Italia), nell’ambito della quale la Corte aveva affermato come “serious environmental harm may affect individuals’ well-being and deprive them of the enjoyment of their domicile, so as to compromise their right to private life”.

È di tutta evidenza che del diritto alla vita viene fornita un’interpretazione estensiva, che si traduce nel riconoscimento del diritto di ogni individuo a godere di una vita dignitosa e libera da atti od omissioni che possano metterla a rischio. Come si diceva, tale interpretazione implica la sussistenza in capo agli Stati di obblighi di carattere positivo (come sostenuto da J. McAdam, 2014, p. 57), i quali peraltro comportano, come chiarito da alcuni commentatori, una sorta di sovrapposizione con gli obblighi contenuti nel Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (sul punto, J. H. Sendut, 2020, pp. 2 e 3).

A questo proposito, come sottolinea anche l’articolo appena citato, le core obligations risultanti da quest’ultimo Patto potrebbero fungere da utile guida per la verifica della sussistenza delle condizioni necessarie al pieno godimento del diritto alla vita, come il diritto a una casa o all’acqua potabile. Tali aspetti potrebbero altresì essere valutati al fine di verificare se lo Stato abbia preso misure effettive a contrastare, inter alia, gli effetti del cambiamento climatico.

Il Comitato riconosce, in sintesi, come il cambiamento climatico, con tutti gli aspetti a esso connessi, possa tradursi in un rischio di violazione del diritto alla vita consacrato nel Patto internazionale sui diritti civili e politici e possa, di conseguenza, comportare il sorgere di obblighi legati al divieto di refoulement in capo agli Stati ai quali le domande d’asilo vengono presentate. E ciò nella misura in cui, in caso di respingimento, la vita del richiedente potrebbe essere messa a repentaglio proprio a causa della degenerazione ambientale creata dal cambiamento climatico. Il compito di effettuare tale valutazione è tuttavia attribuito agli Stati. A questo proposito, difatti, va sottolineato il richiamo (parr. 4.6 e 9.3) alla circostanza secondo la qual le valutazioni in ordine alla sussistenza di tale rischio debbano essere rimesse alla valutazione degli Stati, sindacabili solamente nella misura in cui esse (valutazioni) siano “clearly arbitrary or amounted to a manifest error or a denial of justice”. Sul punto, come del resto chiarito in dottrina (così, J.H. Sendut, op. cit., p. 4), il Comitato mostra quindi una certa deference nei confronti delle corti interne, limitando il proprio sindacato, con riferimento agli aspetti fattuali, alle ipotesi di manifesta arbitrarietà, erroneità o ingiustizia di detta valutazione.

In merito alla valutazione compiuta dal Tribunale neozelandese (che – lo si ricorda – aveva ampiamente chiarito che le sue conclusioni non dovessero essere lette nel senso che “environmental degradation resulting from climate change could never create a pathway into protected person jurisdiction. The authorities considered, however, that the author and his family had not established such a pathway”), il Comitato sottolinea, in primo luogo, come il ricorrente non abbia offerto prova dell’arbitrarietà, erroneità od ingiustizia della decisione interna. Ed osserva, in secondo luogo, come la situazione riscontrata nella Repubblica di Kiribati, quand’anche difficoltosa, non sia tale da costituire un rischio effettivo, individualizzato e ragionevolmente prevedibile per il diritto alla vita del sig. Teitiota e dei suoi familiari, sostanziandosi tutt’al più in un problema generalizzato. D’altra parte, le misure di adattamento già adottate al fine di contrastare le criticità esistenti e di “build resilience” nei confronti dei danni derivanti dal cambiamento climatico non mancano di essere citate quali esempi della diligenza usata al riguardo dallo Stato di Kiribati.

4. Se è vero che i fatti esaminati non vengono considerati idonei a concludere che il respingimento del sig. Teitiota abbia violato i suoi diritti ai sensi dell’art. 6, due punti della decisione meritano di essere posti in risalto.

Anzitutto viene stabilito un principio di fondo: e cioè, che gli Stati contraenti del Patto sono tenuti, nei casi in cui sia in gioco un possibile respingimento verso certi Paesi, a verificare la situazione e i nuovi effetti legati al cambiamento climatico e, addirittura, all’innalzamento del livello del mare. In secondo luogo, il Comitato non manca di fissare una precisa tipologia di eventi causati dal cambiamento climatico: i “sudden-onset events” (uragani e inondazioni, che hanno un impatto ovviamente immediato) e “slow-onset processes” (innalzamento del livello del mare, salinizzazione e degrado ambientale, che hanno un impatto graduale sulla vita delle popolazioni e le risorse naturali). Entrambe le tipologie di eventi condividono l’attitudine a causare movimenti transfrontalieri di persone in cerca di protezione rispetto ai danni da essi provocati; e in assenza di un efficace e massiccio intervento, tanto a livello nazionale che internazionale, è proprio il loro verificarsi che viene individuato come causa di violazioni degli articoli 6 e 7 del Patto (par. 9.11).

Ciò premesso, deve aggiungersi che il risultato così raggiunto risulta importante anche da un altro angolo visuale. Va infatti ricordato che nell’ordinamento internazionale non si rintracciano norme di carattere generale volte a regolare il fenomeno del c.d. “cross-border displacement”. Qualche tentativo è stato compiuto in dottrina, per la verità, richiamando a tal fine proprio le norme del diritto internazionale dei rifugiati. Con riferimento al diritto internazionale dei rifugiati, si è parlato – in relazione a contesti come quello che ci occupa – di “rifugiati climatici”. Tale espressione (ritenuta denigratoria dai cittadini delle isole del Pacifico: J. McAdam e M. Loughry, 2009), pur avendo il merito di descrivere efficacemente il fenomeno, non è tuttavia in grado di ricondurlo nell’ambito di applicazione della Convenzione del ‘51. Basti pensare che, ai sensi dell’art. 1 di tale Convenzione, lo status di rifugiato può essere attribuito a colui che tema – a ragione – che nel proprio Paese possa essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche; e basti aggiungere che l’art. 33 sancisce a livello positivo il principio del non-refoulement, sottolineando come il rifugiato non possa essere espulso verso territori dove la sua vita o libertà sarebbero minacciati per i motivi di cui all’art. 1. Fra questi motivi non rientrano certo i rischi connessi al cambiamento climatico, visto che quest’ultimo, quand’anche originato dall’uomo, ha effetti che certamente non possono essere considerati discriminatori, né persecutori (R. Eckersley, 2015; H. Alexander e J. Simon, 2014), malgrado alcuni autori avessero invocato la modifica della Convenzione, proprio per includervi i “rifugiati climatici” (tra i vari, V. Kolmannskog e L. Trebbi, 2010). Per ovviare a tale “rigidità” delle norme in materia di rifugiati, il principio del non-refoulement ha in generale vissuto, nella prassi applicativa, un’interpretazione evolutiva, che ha consentito che esso trovasse applicazione in ogni caso in cui il rifugiato risulti sottoposto – nel suo Paese o, comunque, nel Paese verso il quale viene respinto – “a trattamenti che violino i principi fondamentali ed inalienabili della persona umana” (B. Conforti, 2018). Si è, in proposito, parlato di complementary protection dei diritti dell’uomo rispetto alla protezione offerta dalla Convenzione sui rifugiati. È in questa direzione che sembra allora andare la decisione del Comitato. È infatti di tutta evidenza come l’erosione delle coste, le siccità e le inondazioni, i cicloni e l’innalzamento del livello degli oceani possano avere impatti devastanti non solo sull’agricoltura, sulle infrastrutture ed sui servizi di un paese quale la Repubblica di Kiribati, ma, più in generale, sulla possibilità di abitarvici, dato il rischio reale per il godimento di tali diritti umani fondamentali (cfr.   Report of the Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights on the Relationship between Climate Change and Human Rights, 2009). Le conseguenze legate al cambiamento climatico, quindi, in caso di possibile impatto su diritti fondamentali di un individuo hanno la forza – come emerge dal caso Teitoita c. Nuova Zelanda – di comportare il sorgere della protezione complementare dei diritti dell’uomo rispetto ad un eventuale respingimento. Allo stato attuale va peraltro precisato che un simile regime tende a limitarsi al solo diritto alla vita – come pure emerge dal caso in questione – e al divieto di tortura o sottoposizione a pene o a trattamenti crudeli, disumani o degradanti (cfr. J. McAdam, op. cit., p. 53). A questo riguardo, appare interessante notare come la pronuncia esaminata, in un certo senso, completi il cammino intrapreso dal Comitato nell’ambito del già citato General Comment n. 36 , laddove lo stesso, come anticipato supra, aveva identificato (par. 62) una relazione biunivoca tra gli obblighi in capo agli Stati in forza del diritto internazionale dell’ambiente ed il contenuto del diritto alla vita di cui all’art. 6 del Patto: il rispetto del diritto ad una vita dignitosa, infatti, dipende anche dalle misure adottate dagli Stati al fine di preservare l’ambiente naturale, assicurandone la protezione da danni, inquinamento e, soprattutto, dal cambiamento climatico.

Proprio con specifico riferimento al diritto alla vita, vi è poi da svolgere un’ultima osservazione. Già prima della decisione in esame erano state infatti individuate (sempre da J. McAdam, op. cit., p. 53) alcune condizioni per l’applicazione del divieto di refoulement in caso di disastri ambientali: (i) il rischio per la vita dev’essere attuale o imminente; (ii) il ricorrente deve trovarsi in una posizione “differenziata” rispetto alla generalità dei consociati; (iii) la contaminazione ambientale deve aver raggiunto, o verosimilmente raggiungerà, l’ambiente antropico; (iv) un rischio ipotetico non è sufficiente a costituire una violazione del diritto alla vita; (v) in assenza di minaccia concreta o imminente, mere questioni concernenti l’efficacia delle misure adottate a livello statale non risultano ammissibili.

Tali condizioni apparivano, tuttavia, di difficile applicazione rispetto agli eventi definiti “slower-onset impacts of climate change” (che avrebbero potuto relegare i rifugiati climatici, in ragione degli impatti più graduali e degenerativi del cambiamento climatico, al ruolo di migranti economici volontari, privi della protezione più facilmente riconoscibile invece alle vittime di “sudden-onset disasters”: W. Kälin e N. Schrepfer, 2011). Ebbene, al riguardo è opportuno ripetere quanto già posto in evidenza: e cioè, che il Comitato, nella decisione sul caso Teitiota c. Nuova Zelanda, ha invece stabilito che tanto i “sudden-onset events” quanto i “slow-onset processes” sono egualmente idonei a fondare pretese legate al divieto di refoulement, dal momento che condizioni incompatibili con il diritto ad una vita dignitosa (il cui rispetto, come ricordato, al par. 62 del suddetto General Comment dipende, inter alia, dall’attuazione di misure finalizzate a preservare l’ambiente) potrebbero realizzarsi ben prima che un evento catastrofico abbia a verificarsi, ferma restando – beninteso – la sussistenza di un rischio effettivo, individualizzato e ragionevolmente prevedibile per il diritto alla vita.

Infine, proprio con riferimento a quest’ultimo aspetto, va qui citata l’opinione dissenziente di Duncan Laki Muhumuza, secondo cui, al contrario, il sig. Teitiota, nel fare ritorno a Kiribati, si sarebbe effettivamente trovato esposto ad un rischio di tal genere. A tal proposito, la “individual opinion” in esame risulta interessante sotto due profili. In primo luogo, Muhumuza, dopo aver analizzato la situazione a Kiribati dal punto di vista fattuale, si concentra sul contenuto del diritto ad una vita dignitosa, che si sostanzia nel godimento di una vita libera da atti od omissioni che possano causare una morte non naturale o comunque prematura. Sarebbe dunque proprio il riconoscimento di tale diritto a richiedere che gli Stati proteggano l’ambiente da degrado, inquinamento e cambiamento climatico. Tuttavia, sempre secondo Muhumuza, la situazione a Kiribati sarebbe radicalmente incompatibile con gli “standards of dignity” (cfr. par. 6) riconosciuti ai sensi del Patto. In secondo luogo, la soglia rilevante per ritenere integrato, ai fini del non-refoulement, il rischio per il diritto alla vita (che, come ricordato, deve essere effettivo, individualizzato e ragionevolmente prevedibile) sarebbe, totalmente irragionevole, così come concepita dal Comitato,. Invero, sarebbe del tutto “counterintuitive to the protection of life” (cfr. par. 5) attendere che le morti dovute al cambiamento climatico avvengano con regolarità, per considerare soddisfatto il “threshold” richiesto dal Comitato. E ciò, a maggior ragione, nella misura in cui – secondo la maggioranza del Comitato – non è in ogni caso necessario che, per ritenere integrata una violazione dell’art. 6 del Patto, la minaccia alla vita si traduca in una perdita effettiva della medesima.

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