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La BCE nella tempesta della crisi sanitaria

Luca Lionello, Università Cattolica, Milano

Davanti all’aggravarsi della crisi sanitaria, le cui conseguenze economiche e sociali sono ancora imprevedibili, in molti credono che l’Unione europea si trovi davanti a un bivio esistenziale: dimostrare una volta per tutte l’efficacia delle sue istituzioni sovranazionali e sviluppare strumenti comuni di gestione della crisi, o crollare definitivamente sotto il peso schiacciante degli egoismi nazionali. La resa dei conti sembra avvicinarsi dal momento che nelle ultime settimane, parallelamente al propagarsi del contagio, i mercati azionari sono crollati, le maggiori economie del mondo sono entrate in recessione e i titoli di Stato dei Paesi finanziariamente meno solidi della zona euro, in particolare l’Italia, sono stati messi sotto forte pressione.

Chi spera che la crisi offra un’occasione di riscatto per il processo di integrazione europea è rimasto per lo meno perplesso ascoltando l’infelice dichiarazione del Presidente della Banca centrale europea (BCE), Christine Lagarde, che durante una conferenza stampa dello scorso 12 marzo, dopo aver annunciato alcune prime misure a sostegno della liquidità del sistema finanziario europeo, ha affermato: «We are not here to close spreads. This is not the function or the mission of the ECB. There are other tools for that, and there are other actors to actually deal with those issues». Sono bastate queste poche parole a far schizzare i rendimenti dei titoli di Stato italiani e a far registrare perdite record per tutte le borse europee. La frase di Lagarde è stata infatti interpretata come un atto di disimpegno della BCE nel contenimento degli attacchi speculativi contro il debito pubblico dei Paesi più fragili dell’area euro, esattamente il contrario del «whatever it takes to preserve the euro» pronunciato da Mario Draghi nel 2012, quando la crisi del debito sovrano in Italia e Spagna sembrava presagire la fine dell’unione monetaria.

Fermo che non è dato sapere quali fossero le reali intenzioni di Lagarde quando ha pronunciato quelle parole, i fatti dei giorni successivi le hanno fortunatamente smentite. Durante una riunione di emergenza nella notte del 18 marzo, il Consiglio direttivo della BCE ha adottato a maggioranza il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), un nuovo piano di acquisti di titoli pubblici e privati nell’area euro del valore di € 750 miliardi che durerà finché la crisi sanitaria sarà terminata. Il PEPP si differenzia dalle precedenti misure non convenzionali di politica monetaria sotto alcuni aspetti rilevanti: la ripartizione degli acquisti dei titoli pubblici, pur basandosi sullo schema di partecipazione delle banche centrali nazionali al capitale della BCE (capital key), sarà condotta in modo flessibile, potendo favorire maggiormente i Paesi e le classi di attività che ne avranno più bisogno; gli acquisti potranno crescere di entità ed essere adeguati a seconda delle circostanze; il piano riguarderà anche i titoli di Stato greci, che le agenzie di rating internazionali continuano a classificare come  junk. Inoltre, al fine di preservare il flusso del credito verso le famiglie e le imprese, la BCE ha deciso di accettare commercial papers di adeguata qualità creditizia e una più vasta gamma di attività come garanzia per le operazioni di rifinanziamento. Nonostante le obiezioni di alcuni governatori centrali, le nuove misure di politica monetaria sembrano ribadire e perfino rafforzare l’impegno della politica monetaria a sostegno dell’euro e dell’integrità dell’unione monetaria a qualunque costo.

Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? Probabilmente no. L’infelice frase di Lagarde e soprattutto la frattura in seno al Consiglio direttivo sull’adozione del PEPP dimostrano ancora una volta quanto sia difficile per la BCE svolgere il ruolo di garante di fatto della stabilità dell’unione monetaria. D’altra parte, non è questo il compito che i Trattati le attribuiscono. L’art. 127, par. 1. TFUE impegna la BCE e il Sistema europeo delle banche centrali (SEBC) a perseguire la stabilità dei prezzi, obbiettivo primario di politica monetaria che è stato quantificato in un livello di inflazione annuo prossimo, ma inferiore, al 2%. Cosa diversa è, invece, la stabilità della zona euro nel suo complesso, obbiettivo principale di politica economica che compete agli Stati membri in quanto detentori esclusivi della sovranità fiscale. Gli strumenti previsti dalla governance economica per il perseguimento di questo obbiettivo sono al momento il coordinamento delle politiche di bilancio degli Stati membri nel quadro del Patto di stabilità e crescita e, in caso di emergenza, l’assistenza finanziaria condizionata da parte del Meccanismo europeo di stabilità (MES). È a loro che Lagarde si riferiva quando parlava di «other tools […] and actors» deputati a chiudere gli spread. Ed è per questo che i mercati si sono spaventati. La storia recente ha già dimostrato l’inefficacia degli attuali strumenti di governance nel prevenire e gestire crisi sistemiche del debito sovrano nell’area euro. Purtroppo, la scarsa credibilità delle regole di finanza pubblica, la logica intergovernativa dei meccanismi decisionali e l’insufficienza delle risorse disponibili per l’assistenza finanziaria, specialmente se ad averne bisogno è un Paese di grandi dimensioni, hanno impedito ai governi di garantire da soli la tenuta dell’unione monetaria. Per questo motivo, già in passato, è dovuta intervenire la BCE di Mario Draghi: l’adozione (o anche il solo annuncio) di misure non convenzionali di politica monetaria, in particolare le Outright monetary transactions (OMT) e il Quantitive Easing (QE), finalizzati rispettivamente a ristabilire il corretto funzionamento dei meccanismi di trasmissione della politica monetaria e a garantire la stabilità dei prezzi davanti al rischio di deflazione, hanno avuto l’effetto di contenere le pressioni dei mercati sul debito dei Paesi più fragili e di favorire la stabilizzazione dell’area euro.

Tutto ciò non è avvenuto senza difficoltà. La Corte di giustizia è stata già adita due volte in via pregiudiziale dalla Corte costituzionale federale tedesca per verificare se le politiche non convenzionali della BCE rientrassero nel suo mandato e fossero compatibili con il divieto di finanziamenti monetari, di cui all’art. 123 TFUE. Nel caso Gauweiler e nel caso Weiss i giudici di Lussemburgo hanno affermato che gli acquisti straordinari di titoli di Stato da parte della BCE, rispettivamente nel quadro dei programmi OMT e QE, si giustificavano in quanto finalizzati a garantire l’unicità della politica monetaria e la stabilità dei prezzi, nonostante producessero anche degli effetti indiretti sulla politica fiscale degli Stati. Ciò rimaneva ammissibile nella misura in cui i programmi di acquisto dei titoli di Stato fossero proporzionali agli obbiettivi di politica monetaria, non fossero equivalenti a finanziamenti diretti sul mercato primario del debito e soprattutto non incentivassero comportamenti di azzardo morale da parte degli Stati membri.

C’è da aspettarsi che anche il programma PEPP farà discutere (v. i primi commenti di Grund, Smits). Il Consiglio direttivo della BCE lo ha giustificato sulla base della necessità di garantire la corretta trasmissione delle decisioni della politica monetaria, la stessa motivazione addotta per l’introduzione delle OMT. Ebbene, come è stato già spiegato, le condizioni che la BCE ha stabilito questa volta per l’acquisto di titoli di Stato sono diverse e, per certi aspetti, meno prudenti rispetto all’attuazione dei programmi precedenti. I detrattori del PEPP probabilmente sosterranno che ci si trovi davanti a finanziamenti monetari mascherati, che producono una condivisione indiretta dei rischi sulla tenuta dei debiti sovrani nazionali. A favore di questa tesi potrà farsi notare che il programma ha una portata potenzialmente illimitata, può favorire nel tempo alcuni Paesi più di altri, intende coinvolgere anche titoli di Stato considerati spazzatura e, a differenza delle OMT, non prevede l’intervento preventivo del MES per gli Stati beneficiari. Alla BCE toccherà probabilmente ribattere che il PEPP si giustifica in base alla necessità di gestire una crisi eccezionale, che avrà gravissime ripercussioni sulla stabilità del sistema finanziario europeo e dei conti pubblici nazionali e che, senza di esso, la politica monetaria rischia di perdere la sua capacità di produrre effetti sull’economia reale e quindi sull’andamento dell’inflazione. Dovrà altresì dimostrare che sussistono garanzie sufficienti affinché l’attuazione del programma rispetti il principio di proporzionalità e non disincentivi i governi a perseguire una sana gestione della politica di bilancio.

Insomma, la recente decisione del Comitato direttivo della BCE di dare seguito alla strategia del «whatever it takes» rimane irta di ostacoli. I sostenitori di un approccio di politica monetaria ortodosso, che lasci ai governi il compito di tenere in ordine la finanza pubblica e permetta l’organizzazione di default parziali per i debiti sovrani divenuti insostenibili, sono per il momento ancora in minoranza in seno al Consiglio direttivo. Non è detto, tuttavia, che tali equilibri rimangano gli stessi se la situazione economica dovesse ulteriormente aggravarsi e una nuova crisi del debito sovrano scoppiasse nell’area euro. La BCE di Christine Lagarde sarebbe disposta ad archiviare definitivamente la capital key per sostenere i Paesi membri a rischio di fallimento e comportarsi da prestatore di ultima istanza, o sperimentare nuovi strumenti radicali per incentivare l’inflazione e la ripresa economica, come il così detto helicopter money? Si tratta di scenari piuttosto improbabili.

Da qui un’ultima riflessione sugli effettivi limiti che la politica monetaria della BCE incontra nel supplire alle carenze della governance economica dell’area euro. Anche se il PEPP riuscisse nel breve termine a contenere la speculazione sui titoli di Stato dei Paesi più esposti e a garantire la stabilità finanziaria, non è detto che questo basti a sostenere i redditi delle famiglie e a proteggere l’economia reale. Davanti a una gravissima recessione e a un forte aumento dell’indebitamento pubblico, ormai reso possibile dalla sospensione del Patto di stabilità e crescita, i Paesi meno solidi dell’area euro, a partire dall’Italia, rischiano comunque di andare incontro al default, una volta che la fase più acuta dell’emergenza sanitaria sarà finita. Onde evitare questo scenario e le sue ripercussioni sulla tenuta dell’unione monetaria, si sta aprendo un dibattito a livello europeo sulla creazione di strumenti comuni di politica fiscale, a partire dagli eurobond, che diversi Stati membri invocano. Che sia la volta buona per completare l’unione economica? Il Consiglio europeo del 26 marzo si è concluso con un nulla di fatto a causa della frattura tra i Paesi del sud, che sollecitano lo sviluppo di nuovi strumenti per affrontare la crisi economica e sociale, e quelli del nord, ostili alla condivisione del debito e favorevoli solo all’impiego del MES. Il dibattito continua. Comunque vada a finire, è improbabile che la BCE possa farcela da sola e che l’integrità dell’unione monetaria possa essere preservata anche questa volta senza lo sviluppo di una qualche forma di politica fiscale comune tra gli Stati membri dell’area euro.

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