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Alla riscoperta delle norme di applicazione necessaria Brevi note sull’art. 28, co. 8, del DL 9/2020 in tema di emergenza COVID-19

Giovanni Zarra, Università di Napoli Federico II

L’art. 28 del decreto legge 2 marzo 2020 n. 9 disciplina le modalità e le condizioni alle quali gli utenti di titoli di viaggio e pacchetti turistici possono ottenere un rimborso per la mancata fruizione del servizio, in seguito alla dichiarata emergenza sanitaria derivante dal diffondersi del SARS-CoV-2, più comunemente noto come «Coronavirus». Si tratta, come prevedibile, di una normativa ispirata al principio della tutela della parte debole che va certamente accolta con favore.

Nel regolare la materia – che è anche oggetto della direttiva (UE) 2015/2302 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 novembre 2015, recepita in Italia con decreto legislativo 21 maggio 2018 n. 62 – il legislatore non ha tralasciato di considerare che, sovente, i contratti di trasporto e/o di vendita di pacchetti turistici sono sottoposti a un diritto sostanziale straniero e che questo potrebbe non essere egualmente protettivo dei soggetti che hanno – non per loro colpa – dovuto rinunciare al godimento dei servizi acquistati. Dunque, con previsione che potremmo definire a dir poco inusuale e allo scopo di rendere assolutamente inderogabile la disciplina in esso contenuta, il DL di cui discorriamo, al co. 8 dell’art. 28, dispone espressamente che «[l]e disposizioni di cui al presente articolo costituiscono, ai sensi dell’articolo 17 della legge del 31 maggio 1995, n. 218 e dell’articolo 9 del regolamento (CE) n. 593/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 giugno 2008, norma di applicazione necessaria» (con questa locuzione tradizionalmente intendendosi quelle norme italiane che, in considerazione del loro oggetto e del loro scopo, debbono essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera; cfr. art. 17 della legge 31 maggio 1995 n. 218).

Un precedente rilevante di questa tecnica normativa è costituito dall’art. 1, co. 2, del Decreto 199/2012 adottato dal Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali. Tale norma dichiara – con tanto di riferimento al regolamento Roma I – di applicazione necessaria la disciplina contenuta nel decreto stesso, che si applica alle relazioni commerciali in materia di cessioni di prodotti agricoli e alimentari la cui consegna avviene nel territorio della Repubblica, con particolare riferimento alle relazioni economiche tra gli operatori della filiera connotate da un significativo squilibrio nelle rispettive posizioni di forza commerciale. Anche in questo caso, significativamente, l’intento del legislatore era quindi quello di tutelare una parte debole nell’ambito di un rapporto commerciale.

L’art. 28, co. 8, del DL 9/2020 (così come il precedente appena citato) costituisce un caso di norma di applicazione necessaria auto-dichiarata dal legislatore tutt’altro che comune, che avrebbe creato pochi problemi interpretativi al tempo in cui la disciplina del diritto internazionale privato era rimessa alle sole scelte dei legislatori nazionali. Tuttavia, oggi – intervenendo in un quadro normativo in cui la disciplina di conflitto in merito a contratti internazionali è rimessa alla normativa UE – la citata disposizione pone il problema del coordinamento con la normativa sovranazionale di una simile scelta di chiusura del legislatore italiano e, in ultima istanza, della legittimità stessa di tale scelta. A tale riguardo, potrebbe in teoria porsi anche un problema di competenza del legislatore italiano ad adottare una norma di applicazione necessaria in una materia armonizzata sul piano materiale – seppur attraverso una direttiva – dal diritto UE; ma, per ragioni di brevità, ci sia qui consentito semplicemente precisare che la questione andrebbe affrontata dal punto di vista logicamente antecedente del contrasto della normativa sostanziale del foro (alla quale l’ordinamento attribuisce la qualità di applicazione necessaria) con quella di origine europea.

Ciò detto – posto che i conflitti di legge in materia contrattuale sono oggi disciplinati dal regolamento Roma I (593/2008) – è innanzitutto necessario verificare se tale corpus normativo consenta ai legislatori nazionali di adottare disposizioni come quella in esame. Ove, infatti, un legislatore nazionale non si conformasse al diritto UE, sorgerebbe in capo ai giudici interni l’obbligo di disapplicare la normativa nazionale in contrasto con quella di matrice europea (fatta salva l’applicazione della ben nota teoria dei controlimiti; cfr. Cannizzaro, Mastroianni, Palombino, Vitale) giacché, laddove un’antinomia effettivamente esistesse, la mancata applicazione delle norme di conflitto europee potrebbe dare luogo a una violazione del diritto UE; e, in caso di dubbi sull’interpretazione e sulla portata di quest’ultima, sarebbe altresì possibile, come noto, operare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia (v. il commento di Franzina al link riportato).

Il punto di partenza della nostra analisi non può che essere l’art. 9, par. 1, del regolamento stesso, secondo il quale «le norme di applicazione necessaria sono disposizioni il cui rispetto è ritenuto cruciale da un paese per la salvaguardia dei suoi interessi pubblici, quali la sua organizzazione politica, sociale o economica, al punto da esigerne l’applicazione a tutte le situazioni che rientrino nel loro campo d’applicazione, qualunque sia la legge applicabile al contratto secondo il presente regolamento» (corsivo aggiunto). Il secondo paragrafo della medesima disposizione chiarisce che le disposizioni del regolamento non ostano all’applicazione delle norme di applicazione necessaria della legge del foro. A ben vedere, né il legislatore europeo né la Corte di Lussemburgo hanno – almeno finora – voluto limitare la discrezionalità degli ordinamenti giuridici nazionali nel determinare quali siano le norme che essi considerano «di applicazione necessaria». Rifacendosi alle conclusioni dell’Avvocato generale Wahl nel caso Unamar, sul punto è possibile affermare che «gli Stati membri restano competenti a determinare in concreto quando siano colpiti interessi pubblici, intesi in senso ampio, che giustificano il riconoscimento di un carattere imperativo a determinate norme» (par. 35). Né si potrebbe asserire che il legislatore europeo abbia inteso limitare il riferimento dell’art. 9 alle sole norme in tema di organizzazione politica, sociale o economica. Tale precisazione va intesa piuttosto come una mera indicazione esemplificativa, come dimostrato anche dall’impiego della locuzione «such as» nella versione inglese dell’art. 9 in luogo dell’italiano «quali», con la possibilità pertanto di ricondurre alla categoria delle norme di applicazione necessaria anche disposizioni materiali volte a tutelare interessi di natura non strettamente pubblica. Va da sé che, in assenza di indicazioni legislative, la valutazione in merito al grado di imperatività di una disposizione legislativa è solitamente compiuta dai giudici. Tuttavia – in linea di principio e seppure questa tecnica normativa possa risultare, ove abitualmente usata, eccessivamente restrittiva del principio di autonomia delle parti – nulla vieta che siano i legislatori a stabilire quali norme debbano essere considerate «di applicazione necessaria».

Ci sembra dunque opportuno soffermarci, ora, sul rapporto intercorrente tra il testo dell’art. 9 del regolamento Roma I e l’art. 28, co. 8, del DL 9/2020.

In un recente blog post, la soluzione adottata dal legislatore italiano è criticata affermando che «the self-proclaimed overriding mandatory provisions do not appear to be “crucial” for safeguarding public interests within the meaning of Article 9(1) of the Rome 1 Regulation, but rather appear to be exclusively purported to protect private interests (for however widespread they may be)». Una tale posizione non pare condivisibile.

In primo luogo, essa trascura la considerazione secondo la quale la generalità dell’interesse tutelato (rectius: la riferibilità dell’interesse alla collettività nel suo insieme o a singoli individui) non è sinonimo di una maggiore o minore rilevanza di tale interesse nella gerarchia dei valori protetti dal sistema giuridico. Conseguentemente, la circostanza che una norma tuteli l’interesse di privati non ha impatto sull’incidenza assiologica di una sua violazione (Perlingieri, p. 18; Barcellona, p. 18; Nuzzo, pp. 39 e 96-99); ma, d’altra parte, è proprio dalla rilevanza assiologica di una disposizione nell’ambito del sistema ordinamentale che può discendere la qualificazione di una norma come di applicazione necessaria. Sul punto, non sembra – ancora una volta – che l’art. 9 del regolamento Roma I imponga alcuna limitazione agli Stati membri.

In secondo luogo, la dottrina più avveduta ha già convincentemente dimostrato che non è sempre possibile tracciare una netta distinzione tra interessi pubblici e interessi privati, poiché – per il tramite della tutela di interessi privati – il legislatore o i giudici sovente proteggono valori di rilievo pubblicistico. Nel caso di specie, come del resto in tutte le ipotesi in cui si salvaguardi la posizione di una parte debole, il legislatore ha inteso tutelare la posizione di coloro i quali, in un rapporto con soggetti più forti come i tour operators o i vettori, si troverebbero a perdere per causa di forza maggiore sia il proprio viaggio sia le spese sostenute per acquistare il servizio. Si tratta di considerazioni a cui lo stesso sistema internazionalprivatistico dell’Unione non è estraneo (cfr. art. 6 del regolamento Roma I) e di disposizioni attraverso le quali un ordinamento giuridico promuove il proprio interesse a che l’esercizio dell’autonomia privata sia corretto, ordinato e ragionevole (sentenza n. 26242/2014 della Corte di Cassazione). Coerentemente, anche situazioni che apparentemente riguardano solo interessi privati possono avere un rilievo lato sensu pubblicistico; l’interesse pubblico, infatti, va identificato «non con l’interesse superiore dello Stato o dei gruppi intermedi in quanto tali, ma con la realizzazione e l’attuazione dei diritti inviolabili dell’uomo, del suo pieno e libero sviluppo» (Perlingieri, p. 936). L’esercizio corretto e in buona fede della libertà contrattuale da parte dei c.d. soggetti forti è certamente di interesse per il legislatore laddove si voglia consentire un’adeguata tutela dei diritti della parte debole. Questa considerazione di per sé giustifica l’adozione di correttivi legislativi a situazioni di squilibrio contrattuale.

Pare, quindi, che il legislatore italiano abbia agito nello spettro del lecito e che la tecnica normativa utilizzata non sia criticabile, ma, al contrario, genuinamente ispirata ad una logica – pur di rilevanza pubblicistica – di protezione della parte debole.

Ciò posto, prima di concludere questa breve nota, ci siano consentite due considerazioni aggiuntive di carattere generale.

Innanzitutto, ulteriori riflessioni potrebbero farsi in merito a se non sia proprio rispetto a situazioni emergenziali che possa, in futuro, venire più frequentemente in gioco la categoria delle norme di applicazione necessaria ed essere conseguentemente limitata l’autonomia delle parti. Considerazione, questa, che pare di non poco conto visto che proprio quegli interessi statali irrinunciabili (al punto da rendere inoperante il meccanismo internazionalprivatistico) che sono alla base del concetto di norma di applicazione necessaria potrebbero – in via di bilanciamento – richiedere un maggior sacrificio del principio di autonomia in situazioni di crisi.

Merita, in secondo luogo, un cenno anche una diversa questione, ossia quella riguardante la possibilità che norme italiane che rendono illecita e/o impossibile l’esecuzione del contratto in Italia (ad esempio vietando spostamenti e imponendo chiusure delle strutture recettive) possano avere rilevanza nell’eventualità che la fattispecie sia di competenza di un giudice di un altro Stato membro (sulla questione del rilievo delle norme di applicazione necessaria straniere v., tra tanti, Mayer, “Les lois de police étrangères”, in Clunet, 1981, p. 277 ss.). A tal riguardo deve tenersi conto del terzo paragrafo dell’art. 9, ai sensi del quale «può essere data efficacia anche alle norme di applicazione necessaria del paese in cui gli obblighi derivanti dal contratto devono essere o sono stati eseguiti, nella misura in cui tali norme di applicazione necessaria rendono illecito l’adempimento del contratto. Per decidere se vada data efficacia a queste norme, si deve tenere conto della loro natura e della loro finalità nonché delle conseguenze derivanti dal fatto che siano applicate, o meno». Non v’è dubbio, quindi, che un giudice straniero potrà decidere di conferire efficacia (espressione vaga ed incerta – non è chiaro se con significato volutamente diverso dal verbo applicare utilizzato nel par. 2 dell’art. 9) a norme di applicazione necessaria italiane laddove l’esecuzione del contratto debba avvenire nel nostro Paese. In tale ipotesi, pertanto, l’interprete sarà chiamato a interrogarsi innanzitutto sulla natura di applicazione necessaria della disposizione italiana applicabile (essendo tale qualifica stata esplicitata soltanto per l’art. 28 del DL 9/2020) e, poi, a compiere una valutazione di opportunità, caso per caso, tenendo conto, tra l’altro, delle circostanze indicate nel secondo periodo della disposizione appena citata (cfr. le conclusioni dell’Avv. gen. Szpunar nel caso Nikiforidis, par. 62 ss. ed in particolare il par. 109, in cui si afferma: «l’ammissibilità di tenere conto delle norme di applicazione necessaria straniere, e ciò indipendentemente dal fatto se si tratti della loro applicazione o considerazione sostanziale, non implica un’automaticità. Il giudice adito dispone di un’ampia libertà decisionale, la cui funzione è quella di agevolarlo nella pronuncia di un’equa decisione che tenga conto degli interessi legittimi delle parti nonché degli interessi degli Stati la cui legge influisce su un determinato rapporto giuridico»).

Fatte queste precisazioni, a mo’ di conclusione vorremmo sottolineare che la disposizione dell’art. 28, co. 8, del DL 9/2020, stante il suo carattere inusuale, potrebbe costituire un’occasione per indagare nuovamente – e da una diversa prospettiva – la categoria delle norme di applicazione necessaria, lungamente analizzata dalla dottrina degli anni ’60 del secolo scorso e poi parzialmente trascurata negli studi successivi. Probabilmente anche in merito a tale categoria sarebbe opportuno un ripensamento nella direzione di un maggiore coordinamento del concetto in discussione con il principio di autonomia delle parti. Ciò evitando di sacrificare l’operatività del diritto straniero normalmente applicabile laddove esso conduca ad una soluzione sostanzialmente uguale a quella che si avrebbe applicando la lex fori (sul punto, si vedano le considerazioni svolte da Remy, p. 29).

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Giovanni Zarra

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8 Comments

  1. Pietro Franzina
    Marzo 31, 2020 at 3:48 pm — Rispondi

    Il “diritto dell’emergenza”, compreso quello che si manifesta in regole applicabili ai rapporti interindividuali (contrattuali, nel caso della regola sui cui si sofferma Giovanni Zarra), costituisce un contesto in cui, più facilmente che altrove, è ragionevole imbattersi in norme di applicazione necessarie. Suppongo che ciò avvenga per le ragioni che provo a ripercorrere qui sotto.
    Si è soliti dire che le norme di applicazione necessaria interferiscono con il funzionamento delle norme di collegamento a carattere bilaterale: ne alterano il corso ordinario, talora comportandone un’evizione preventiva. Lo fanno obbedendo a una logica opposta a quella che ispira queste ultime, in quanto espressione di un modo di intendere (e di governare) i rapporti fra ordinamenti che si discosta strutturalmente dal modo proprio delle regole bilaterali.
    La regola bilaterale riposa su un’idea di universalità dei sistemi privatistici: sono sistemi diversi l’uno dall’altro, nei contenuti; ma, agli effetti della regola bilaterale, ognuno di essi è idoneo a fornire la disciplina di qualsivoglia rapporto, non solo dei rapporti collegati alla comunità governata dal legislatore che di quel sistema ha delineato i contenuti. Visti nel prisma della regola di collegamento bilaterale, i sistemi privatistici sono, cioè, meri schemi astratti di funzionamento dei rapporti interindividuali, ognuno dei quali è capaci, come tale, di operare a qualsiasi latitudine (tutti, in altri parole, sono pronti a regolare qualsiasi fattispecie: per sapere quale di essi regolerà il caso concreto sovviene il richiamo disposto dalle norme di collegamento).
    È proprio alla luce di questa premessa che la regola bilaterale può permettersi di risolvere il concorso fra leggi semplicemente localizzando la fattispecie ora in questo ora in quell’ambiente giuridico, onde trarne, appunto, l’indicazione della legge applicabile. Detto in altri termini, è il postulato della fungibilità dei sistemi che permette di organizzarne la coesistenza sulla base di semplici criteri geografici (così, almeno, secondo una certa ortodossia savigniana).
    Ebbene, la norma di applicazione necessaria mette in scacco la regola bilaterale perché reca in sé stessa una negazione di quella fungibilità: la norma di applicazione necessaria è tale perché non può dirsi equivalente alle norme che negli altri sistemi assolvono la medesima funzione. Le politiche di cui quella norma è espressione sono proprie del sistema a cui la norma appartiene: sono delle “unicità”, non delle semplici variazioni di un fondo giuridico comune. Stando così le cose, nelle fattispecie che entrano nel fuoco di dette norme, il concorso fra le diverse leggi non può essere sciolto sulla base di semplici ancoraggi geografici (desunti dalla natura del rapporto in questione, come vorrebbe l’ortodossia sopra riferita). Occorre servirsi, semmai, di criteri più immediatamente politici, capaci di misurare il rilievo degli interessi del legislatore e la volontà dell’ordinamento (del foro) di assicurarne la realizzazione, malgrado il richiamo di una diversa legge.
    Le “unicità” di cui sono espressione le norme di applicazione necessaria vengono perlopiù intese in senso “locale”, cioè come corrispondenti ai valori di riferimento (e relativi schemi di tutela) di un dato sistema, tali da differenziarlo da altri. Credo, però, che nulla impedisca di valorizzare agli stessi fini, ove occorra, anche delle declinazioni temporali, ascrivendo certe norme al novero delle norme di applicazione necessaria in quanto asservite a interessi “temporalmente” unici: degli interessi propri di una fase, come, tipicamente, gli interessi serviti dal diritto della emergenza.
    Se le cose stanno così, allora la verifica da compiere al fine di stabilire se una data norma sia, o meno, di applicazione necessaria, consiste nell’accertare se il regime ivi stabilito sia o meno funzionale alla realizzazione di un interesse che esce dal quadro “ordinario” degli interessi propri del diritto privato: un interesse capace, come tale, di connotare quella norma come specifica di un dato sistema o di un dato momento .
    L’operazione va condotta, credo, sulla base di tutti gli indizi pertinenti: tutti quelli di cui normalmente si serve l’interprete per cogliere l’oggetto e lo scopo di una norma, per rifarsi all’endiadi di cui all’art. 17 della legge n. 218/1995. Quando il legislatore descrive le situazioni regolate dai suoi precetti servendosi di un filtro geografico, provvedendo alla autonoma definizione della loro sfera di efficacia (come accade, ad esempio, nell’art. 2, comma 2, della legge n. 287/1990, che vieta le intese che abbiano per oggetto o per effetto di falsare il gioco della concorrenza “all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante”), è lecito dirsi in presenza di un indizio forte della percepita “unicità” della norma in questione, nel senso sopra indicato: il legislatore seleziona certe situazioni, spazialmente connotate, come bisognose di una regolamentazione “unica”, non ordinaria, e fornisce una siffatta regolamentazione.
    Forse, in fondo, accade qualcosa di simile con le norme la cui operatività è limitata nel tempo, in quanto investite del compito di recare una risposta urgente a un evento che interrompe la continuità dei rapporti sociali e chiama in causa, a questo titolo, l’intervento regolatore dello Stato.
    Il fatto che il legislatore si prenda talora la briga di apporre su certe sue disposizioni, con un’apposita dichiarazione, la “etichetta” della necessaria applicazione non sposta di molto i termini del problema: quell’etichetta è uno degli indizi che l’interprete deve tenere in considerazione per saggiare la imperatività “internazionale” della norma, ma non è l’unico, e non può essere accolto dall’interprete in modo acritico o meccanico.

  2. Giovanni Zarra
    Marzo 31, 2020 at 5:21 pm — Rispondi

    Caro Pietro,
    Grazie per il commento molto pertinente, che condivido. L’idea di una norma di applicazione necessaria “ad efficacia temporale limitata” è sicuramente interessante e potrebbe essere oggettivamente tenuta in considerazione dai legislatori per regolare situazioni di emergenza senza pregiudicare eccessivamente i principi alla base del nostro diritto internazionale privato.
    Mi ha particolarmente incuriosito la tua chiosa: affermeresti, quindi, che in teoria un giudice possa anche disconoscere la natura di applicazione necessaria di una norma, quando questa è stata auto-dichiarata dal legislatore (e ciò lasciando per un attimo da parte i casi di contrasto con il diritto UE)?
    Io non sono in principio contrario all’idea che, nell’ottica della salvaguardia di un principio fondamentale (come è la stessa idea di “apertura” dell’ordinamento a norme straniere), si disapplichi una previsione legislativa in via interpretativa; anche se, volendo ragionare in modo strettamente formalista, in questo caso dovrebbe ricorrersi alla Corte costituzionale (almeno in tutti i casi in cui il principio fondamentale di cui si lamenta la violazione provenga dalla Carta fondamentale).
    D’altra parte, nel dialogo tra fonti, venendo ora all’aspetto del rapporto tra norme di conflitto interne e norme UE, non penso che un eventuale conflitto porti sempre alla prevalenza della seconda. Qui, mutatis mutandis, potremmo trasporre il ragionamento sottendente alla teoria dei controlimiti e affermare che la norma interna che protegge interessi fondamentali (sia di ordine pubblico che di applicazione necessaria) sia espressione di un valore irrinunciabile dell’ordinamento e che quindi essa non vada soggetta al meccanismo della disapplicazione.

  3. Pietro Franzina
    Marzo 31, 2020 at 10:09 pm — Rispondi

    Quanto alla tua domanda, Giovanni, suppongo che la risposta dipenda dai criteri che, nel sistema delle fonti, presiedono ai rapporti tra la norma della cui applicazione necessaria si tratta (come integrata dalla disposizione che la dichiara tale) e la regola di collegamento su cui tale norma pretende di incidere. In sostanza, si tratta di capire se, secondo quei criteri, la prima sia in grado di fare che quel che pretende di fare, cioè limitare, o escludere, il funzionamento della seconda, di fatto derogandovi.
    Quando si tratta di norme di conflitto dell’Unione il quadro è relativamente semplice, come rilevi tu stesso nel post: nel caso del regolamento Roma I, la possibilità di qualificare una data norma come di applicazione necessaria dipende dal fatto che essa abbia i caratteri descritti all’art. 9, par. 1, del medesimo regolamento. Se quei caratteri fanno difetto, la norma interna, anche se presentata dal legislatore come norma di applicazione necessaria, non avrà titolo per alterare gli effetti delle norme di collegamento del regolamento.
    Mi pare semplice, sia pure per ragioni diverse, anche lo scenario che si presenta quando tutte le norme – quella di collegamento, quella che pretende di interferire con essa e quella che qualifica quest’ultima come di applicazione necessaria – appartengono al diritto interno. Se la caratterizzazione come norma di applicazione necessaria è compiuta da una norma che nel sistema delle fonti è in grado di derogare alla norma di conflitto altrimenti applicabile, tale caratterizzazione andrà seguita, e limiterà dunque gli effetti della norma di conflitto. Per sottrarsi a questa conclusione bisognerebbe poter dire che la suddetta caratterizzazione, finendo col chiudere l’ordinamento italiano alle esperienze giuridiche straniere e ai loro “prodotti”, comporta in ultima analisi la lesione di una posizione giuridica tutelata da una norma costituzionale. La legittimità costituzionale di una tale caratterizzazione potrebbe allora essere messa in discussione. L’ipotesi è teorica: per vederla messa in pratica servirebbero indizi assai chiari della necessità “costituzionale” della apertura dell’ordinamento del foro nel modo voluto dalla regola di collegamento (è più facile dire che una norma che riduca, o escluda, l’apertura dell’ordinamento del foro alle esperienze straniere esige di ricevere, come ogni altra norma, un’interpretazione conforme alla Costituzione: facendo leva su questa considerazione, la chiusura realizzata potrebbe forse essere almeno mitigata nella misuri in cui offuschi la realizzazione di un bene garantito dalla Costituzione stessa; ma anche arrivare a questo potrebbe non essere agevole in pratica).
    Più complesso, direi, è il caso delle norme di applicazione necessaria (se del caso espressamente dichiarate come tali dal legislatore) che pretendano di alterare il funzionamento di regole di collegamento di origine pattizia, contenute in convenzioni in vigore per l’Italia (se si trattasse di convenzioni in vigore per l’Unione varrebbero le considerazioni già fatte in relazione al diritto derivato). Immagino che in questo caso si tratti di capire, per prima cosa, se il regime convenzionale lasci spazio e interferenze come quelle che si traducono nella applicazione “necessaria” di una norma (non è frequente trovare richiami espliciti alla categoria delle norme di applicazione necessaria nel diritto internazionale privato convenzionale, ma le norme sull’ordine pubblico, che invece sono quasi immancabili, possono spesso supplire a tale mancanza). Ove quegli spazi esistano, andrà accertato se ricorrano in concreto le condizioni perché una simile interferenza si produca. È lo stesso scenario, mutatis mutandis, che abbiamo visto ai fini dell’art. 9 di Roma I, con la complicazione che, in assenza di indicazioni testuali come quelle offerte da Roma I, l’opera dell’interprete rischia di essere ardua.
    Al di fuori di tali spazi, sacrificare il funzionamento ordinario di una regola di conflitto uniforme in nome del primato che si ritenga di accordare a una data norma materiale (in quanto di applicazione necessaria, appunto), integrerà una violazione degli obblighi nascenti dalla convenzione (sempre che la portata di quegli obblighi non vada rivista alla luce del rispetto dovuto ad altre norme internazionali, che magari giustifichino l’atteggiamento di chiusura tenuto dallo Stato del foro: si pensi a una norma materiale del foro strumentale al soddisfacimento di certi diritti fondamentali in ambito economico o sociale, garantiti da norme internazionali).
    Immagino che le conseguenze di una tale violazione saranno diverse a seconda che ci si collochi nella prospettiva del diritto interno o in quella del diritto internazionale.
    Sul piano interno, lo scenario, alla luce dell’art. 117, comma 1, Cost., diventerà simile a quello contemplato poco sopra quanto all’eventuale contrasto con una norma costituzionale (qui rischia di dover essere scomodato l’art. 117 Cost., non bastando l’art. 2 della l. 218/1995: una norma materiale interna, di fonte subcostituzionale, che pretendesse di alterare gli effetti di una norma di conflitto pattizia potrebbe infatti “sterilizzare” quest’ultimo, mentre sarebbe ovviamente destinato a cedere di fronte all’art. 117 Cost.).
    Sul piano internazionale, invece, il problema, a quel punto, sarebbe quello di capire se la responsabilità dello Stato del foro (eventualità abbastanza teorica, se riferito al genere di obblighi di cui parliamo) non vada esclusa in ragione del ricorrere di una delle circostanze che il diritto della responsabilità internazionale degli Stati contempli come idonee ad escludere, appunto, l’illiceità del comportamento dello Stato (l’applicazione di certe norme interne, ad esempio, potrebbe essere il mezzo di cui si serve lo Stato del foro per contenere le conseguenze di eventi imprevedibili e non altrimenti contrastabili, o magari per salvaguardare un suo interesse essenziale di un fronte a un pericolo grave o imminente).

  4. Francesco Lo Presti
    Maggio 7, 2020 at 5:42 pm — Rispondi

    Salve, sono un avvocato che si occupa di diritto della navigazione con particolare riferimento alla tutela dei diritti dei passeggeri. Prima di tutto la ringrazio per il contributo davvero interessante e, per la maggior parte, del tutto condivisibile nelle conclusioni. Vorrei, se possibile, fare un appunto e, al contempo, una domanda all’autore.
    L’appunto è il seguente: si dice nell’articolo che la disposizione in esame – confluita con poche modifiche nell’art. 88 bis della legge 27/2020 di conversione del DL in parola – sarebbe volta a tutelare la parte debole del rapporto. Mi permetto di segnalare come tale affermazione non possa essere condivisa relativamente alla norma che impone al passeggero di accettare il rimborso tramite voucher di un volo cancellato dal vettore.
    La domanda che vorrei porre all’autore è conseguenza, in qualche modo, del superiore appunto: dato che la disposizione in esame, nella parte in cui consente al vettore di rimborsare tramite voucher il costo del biglietto relativo al volo cancellato e, parallelamente, impone al passeggero di accettare tale forma di rimborso in luogo al normale refund in contanti, è sicuramente contraria alle disposizioni contenute nel Regolamento CE 261/04, potrebbe essere disapplicata dal giudice italiano? Oppure, dato che è stata qualificata come norma di applicazione necessaria, la stessa si deve ritenere prevalente rispetto al Regolamento sopra citato?
    La mia domanda nasce anche da un’altra riflessione, e cioè che nel caso di cancellazione di un volo, non si ponga una questione di diritto internazionale privato in relazione alla individuazione della legge applicabile, in quanto è lo stesso Regolamento CE 261/04, direttamente applicabile in ogni suo elemento, a disciplinare in maniera specifica la materia. Regolamento che, in teoria, dovrebbe prevalere sulle norme nazionali con il solo limite del rispetto dei diritti fondamentali ed inviolabili previsti dalla Costituzione.
    Mi farebbe piacere sapere il punto di vista di chi, come lei, è un cultore della materia.
    Grazie

  5. Giovanni Zarra
    Maggio 9, 2020 at 7:55 am — Rispondi

    Gentile Avvocato Lo Presti,
    La ringrazio per la sua riflessione.
    In merito alla questione del voucher, la riflessione potrebbe anche farsi da altra prospettiva: molte compagnie hanno rimborsato finché hanno potuto e ora non lo fanno più perché son rimaste senza soldi. Io stesso ho dovuto accettare questo “compromesso” per un viaggio che avevo prenotato da tempo. E’ proprio l’ottica del compromesso (volendo parlare in termini giuridici: del bilanciamento di interessi) che mi pare aver mosso il legislatore nel redigere una previsione del genere: senz’altro la parte debole non è soddisfatta del tutto, ma la situazione di emergenza è tale per tutti. Questa, comunque, è solo un’opinione ed è assolutamente fallace in quanto tale.
    La domanda che lei pone, poi, è estremamente interessante e attiene il rapporto tra fonti. Sappiamo tutti che i regolamenti europei impongono (secondo quanto stabilito nella sentenza Granital) la disapplicazione della norma interna ad essi contraria. Sappiamo anche che la Corte costituzionale, in parte anche seguita dalla Corte di Lussemburgo (sentenza Taricco II), prevede – potremmo dire a tutela della propria sovranità – l’applicazione del meccanismo dei controlimiti nel caso in cui il meccanismo della disapplicazione vada a ledere un principio fondamentale dell’ordinamento interno.
    Rispetto alla situazione da lei prospettata, potremmo immaginare due scenari:
    1) sia la norma UE che la norma interna (regolamento 261 e norma che impone il rimborso tramite voucher) sono ritenute espressione di principi fondamentali dei rispettivi ordinamenti: qui non c’è ancora soluzione giurisprudenziale. Secondo alcuni (ad es. Feraci) prevarrà sempre, sul piano del rapporto tra fonti, l’ordine pubblico UE. Io tendo ad essere, sul punto, più “protezionista” e direi che anche l’ordine pubblico dell’UE deve fermarsi di fronte ai principi fondamentali dell’ordinamento interno.
    2) la norma interna, rispetto al caso precedente, non si ritiene espressione di un principio fondamentale dell’ordinamento: prevale senz’altro la norma UE e quella interna si disapplica.
    A mio giudizio, nel caso da lei prospettato siamo certamente più vicini allo scenario 2), ma questo – ancora una volta – è tutto da verificare!
    Spero di esser stato d’aiuto.

  6. Francesco Zanna
    Maggio 11, 2020 at 12:19 pm — Rispondi

    Provo ad offrire una mia visuale rispetto alla domanda posta dal collega Lo Presti.
    Sono completamente d’accordo con l’idea che in questo caso la norma sembri più che altro offrire alle compagnie uno strumento per tutelare la propria posizione finanziaria. E’ difficile vedere come i passeggeri possano cogliere benefici aggiuntivi rispetto alle tutele offerte dal regolamento 261/04 in caso di cancellazione dei voli.
    La norma contenuta nella legge di conversione del decreto Cura Italia presume una serie di circostanze che non sono scontate e che il Reg. 261 infatti non concede. Dal punto di vista oggettivo, si dà per scontato che sia possibile tornare a viaggiare normalmente nel giro di 12 mesi. Dal punto di vista soggettivo, si dà per scontato che il passeggero intenda od abbia interesse a viaggiare in futuro.
    Sono queste forzature che trasformano d’imperio il contratto di trasporto in un contratto di opzione. Per il passeggero verosimilmente cambiano tutti i parametri chiave in base ai quali il contratto è stato originariamente stipulato: certamente cambiano la data e le condizioni di accesso (per fruire del voucher alcuni vettori impongono di contattare call centre a pagamento); probabilmente cambieranno destinazione e prezzo.
    L’effetto pratico ed economico sarebbe quello, inaccettabile sotto qualsiasi profilo di public policy, di trasferire le conseguenze della pandemia dal vettore aereo al passeggero.
    A mio parere non dovrebbero esservi dubbi circa la disapplicazione della normativa italiana in caso di conflitto con il Reg. 261. Il Regolamento Roma I ha lo scopo di uniformare i criteri di regolazione dei conflitti in modo da assicurare una coerenza del diritto internazionale privato all’interno dell’Unione. Dirime i conflitti tra leggi applicabili ad obbligazioni contrattuali quando i conflitti sono tra ordinamenti nazionali di più stati membri o tra l’ordinamento di uno stato membro e uno stato extra-UE.
    Estenderne il perimetro ai casi di conflitti tra norme appartenenti ad uno stesso ordinamento (benché aventi diversa fonte) sarebbe una forzatura davvero incapace di resistere alle obiezioni più blande.
    Una interpretazione benevola dell’art. 88-bis mi porta a ritenere che la norma sia stata scritta con l’intenzione primaria di escludere l’applicabilità di clausole (es. forza maggiore) sfavorevoli al passeggero eventualmente presenti nelle condizioni generali di trasporto di vettori non-EU.
    Dubito fortemente che le compagnie europee possano ottenere protezione sotto l’art. 88-bis.
    Peraltro è in discussione una modifica emergenziale del Reg 261 nello stesso solco dell’art. 88-bis ma mi risulta che vi sia la forte opposizione di un buon numero di stati membri, i quali comprensibilmente non vogliono creare precedenti in una materia che riguarda le fondamenta del sistema dei contratti di matrice europea.

    • Francesco Lo Presti
      Maggio 12, 2020 at 12:42 pm — Rispondi

      Ringrazio entrambi i colleghi per le riflessioni davvero interessanti e soprattutto condivisibili che avete voluto condividere con me.
      Se dovessi occuparmi di questa problematica nel corso di un giudizio di merito sarà mia cura segnalarvi l’eventuale decisione che il giudice dovesse emettere in relazione alla stessa.

      • Francesco Zanna
        Maggio 19, 2020 at 1:06 pm — Rispondi

        La recente raccomandazione della Commissione dovrebbe aiutare a superare i residui dubbi sul fatto che il Reg. 261 resta pienamente applicabile, in particolare per quanto riguarda il diritto di scelta dei passeggeri.
        https://www.autorita-trasporti.it/wp-content/uploads/2020/05/Raccomandazione-Commissione-Voucher-14-maggio-2020.pdf
        A mio parere l’intervento del legislatore italiano copre solo i limitati casi di biglietti acquistati in Italia ma non coperti dal Reg. 261 (es. volo tra due paesi non UE, aderenti alla convenzione di Montreal, che regola le compensazioni per ritardo ma non si occupa delle cancellazioni).

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