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La detenzione di migranti al tempo del COVID-19: conseguente a nulla e destinata a nulla

Antonio Marchesi, Università di Teramo

L’affermazione, ripetuta spesso da quando è iniziata la pandemia del COVID-19, secondo la quale il virus sarebbe “democratico” è vera soltanto se la s’interpreta nel senso che chiunque può contrarre la malattia. Non lo è, invece, se la s’intende nel senso che gli effetti che produce sono uguali per tutti (essendo più gravi, com’è noto, oltre che per le persone anziane, per coloro che abbiano determinate patologie pregresse) e non lo è neppure se si fa riferimento alla possibilità di essere contagiati (che non è la stessa per tutti, variando, e di molto, a seconda delle condizioni di vita). Le persone private della libertà personale sono più vulnerabili di fronte al COVID-19 da entrambi questi punti di vista: da una parte, le loro condizioni di salute sono peggiori, in media, rispetto a quelle della popolazione in generale;  dall’altra, vivono, inevitabilmente, in condizioni di prossimità con numerose altre persone (la doppia vulnerabilità dei detenuti di fronte al Coronavirus è stata sottolineata, tra gli altri, dall’OMS e da Penal Reform International). Se poi prendiamo in considerazione le persone straniere in detenzione amministrativa, queste affrontano una criticità ulteriore, costituita dall’irrealizzabilità – in molti casi, forse in tutti … dipenderà dagli sviluppi della crisi – del fine per il quale la loro privazione della libertà è disposta, ovvero il rimpatrio forzato (essendo sospesi i voli verso gli Stati di origine). Come ha osservato il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale (GNPL), il periodo trascorso dai migranti in detenzione amministrativa “rischia di essere una sottrazione di tempo e libertà, oltre che una esposizione accentuata al pericolo di contagio, conseguente a nulla e destinato a nulla” (GNPL, Bollettino 10, 24 marzo 2020).

La situazione dei migranti nei Centri di permanenza per i rimpatri (CPR) non è stata oggetto, in Italia, di alcun provvedimento modificativo di norme pre-esistenti. Le misure disposte – dagli accorgimenti di carattere igienico-sanitario all’acquisto di dispositivi di protezione individuale – si limitano in sostanza alla profilassi prevista per tutta la popolazione (GNPL, Bollettino 11, 25 marzo 2020). Alcune di queste, peraltro, come l’isolamento precauzionale o il distanziamento, sono difficilmente attuabili nel contesto di un CPR. Altrove è stato fatto di più. In Spagna, ad esempio, è stata vagliata la posizione di tutti i migranti ospitati nei centri Zona Franca di Barcellona e Aluche di Madrid per verificare l’eventuale mancanza  del presupposto – la rimpatriabilità – di legittimazione  del trattenimento (GNPL, Bollettino 8, 20 marzo 2020). In Belgio sono state rilasciate circa 300 persone, non essendo possibile garantire il distanziamento richiesto per prevenire il contagio. Nel Regno Unito è stato deciso il rilascio di oltre 300 persone considerate maggiormente a rischio di contrarre l’infezione e si è altresì deciso di procedere, come in Spagna, a una revisione della situazione di tutti i migranti detenuti. È’ stato inoltre vietato il trattenimento di persone passibili di un provvedimento di rimpatrio verso un nutrito gruppo di paesi specifici (GNPL, Bollettino 15, 31 marzo 2020).

Sia in Italia che in altri paesi la questione della detenzione amministrativa di migranti in tempi di coronavirus è oggetto di sviluppi giudiziari. Il Tribunale di Roma non ha convalidato  il trattenimento di un migrante ospite nel CPR di Ponte Galeria, argomentando sulla base della necessità di operare un bilanciamento tra “le norme contro l’immigrazione clandestina e limitative della libertà personale”, da una parte, e “il diritto alla salute costituzionalmente e convenzionalmente garantito ad ogni persona comunque presente sul territorio”, dall’altro, aggiungendo che “le disposizioni limitative degli spostamenti dal territorio nazionale, impedirebbero, comunque, il rimpatrio del richiedente e l’esecuzione del provvedimento di espulsione” (Tribunale di Roma, Decreto N. RG. 15892/2020 del 18 marzo 2020; si veda anche Tribunale di Roma, Decreto N. RG. 16573/2020 del 27 marzo 2020, in cui si fa ampio riferimento all’invito a limitare la detenzione di migranti del Commissario per i diritti umani del Consiglio di Europa). In Francia, invece, della questione è stato investito il Consiglio di Stato che ha tuttavia respinto, con motivazioni discutibili, un’azione legale finalizzata alla chiusura dei centri. Il giudice amministrativo francese ha rigettato l’argomento fondato sulla tutela della salute sulla base della considerazione che le persone presenti nei centri erano poche, che era stato distribuito materiale per l’igiene, e che attenzione adeguata sarebbe stata posta alla questione dei nuovi ingressi. Quanto al venire meno del presupposto di legittimità, l’argomento è stato liquidato sulla base di notizie, comunicate dalle autorità competenti, dell’avvenuta effettuazione di alcune operazioni di rimpatrio anche in tempi recenti (Conseil d’Etat, Gisti et autres, Ordinanza n. 439720 del 27 marzo 2020).

Le voci che chiedono alle autorità statali di introdurre, oltre a misure di ordinaria profilassi, misure di esclusione o di limitazione significativa della detenzione amministrativa dei migranti si sono, nel frattempo, moltiplicate. L’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, ha esortato i governi “to work quickly to reduce the number of people in detention …”. La sua omologa in seno al Consiglio di Europa, Dunja Mijatović, è stata ancora più esplicita: “I call on all Council of Europe member states to review the situation of rejected asylum seekers and irregular migrants in immigration detention, and to release them to the maximum extent possible. … The authorities of member states should also refrain from issuing new detention orders to persons who are unlikely to be removed in the near future” (qui). In Italia, il GNPL ha sollecitato “un immediato cambio di passo con l’assunzione di scelte lungimiranti, anche inedite ma pienamente legittime e doverose …” (GNPL, Bollettino 7, 19 marzo 2020). La richiesta al Governo italiano di fermare i nuovi ingressi nei centri e di rimettere in libertà le persone la cui detenzione presumibilmente scadrà prima del ripristino dei normali collegamenti aerei è arrivata anche, tra l’altro, da Amnesty International e dalle organizzazioni riunite nel Tavolo Asilo.

Questi inviti, oltre a essere ragionevoli, sono giuridicamente fondati. La detenzione costituisce un’eccezione a un diritto internazionalmente riconosciuto, quello alla libertà personale e nell’ipotesi che stiamo considerando, estranea all’ambito penale, è da considerarsi, se possibile, una misura ancora più eccezionale. In quanto tale, può essere “disposta e mantenuta solo se necessaria e proporzionata allo scopo legittimo per cui è stata adottata” (GNPL, Standard per la privazione della libertà delle persone migranti).

Nel contesto odierno, una valutazione di proporzionalità comporta che sul piatto della bilancia vengano messi non solo il diritto alla libertà personale, da una parte, e la contrapposta esigenza di allontanare chi non ha diritto di restare sul territorio, dall’altra. Vanno considerati, altresì, l’interesse collettivo a contenere il contagio e i diritti individuali della persona, a cominciare dal diritto alla salute e da quello a non subire trattamenti inumani o degradanti, che non subiscono attenuazioni di sorta per coloro che sono privati della libertà.

Nel suo Statement of Principles relating to the treatment of persons deprived of their liberty in the context of the coronavirus disease, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CEPT) ha invitato a “evitare per quanto possibile la detenzione di migranti” motivando l’invito sulla base all’imperativo della tutela della salute (qui). Il GNPL, da parte sua, ha richiamato “il principio che una misura, pur legalmente disposta, può comportare problemi di compatibilità riguardo alle modalità della sua esecuzione rispetto all’articolo  3  della  Convenzione europea per i diritti umani …” (GNPL, Bollettino 7, 19 marzo 2020). Non è escluso, in altre parole, che il mantenimento della misura di privazione della libertà in presenza di un rischio sanitario possa costituire un trattamento inumano e degradante (che è nozione variabile, da valutare in concreto).

Il principio di proporzionalità va peraltro inteso anche in senso funzionale. Come ha chiarito l’Alto Commissario del Consiglio di Europa, “[u]nder human rights law, immigration detention for the purpose of such returns can only be lawful as long as it is feasible that return can indeed take place” (aggiungendo che “[t]his prospect is clearly not in sight in many cases at the moment”) (qui). E secondo gli “Standard per la privazione della libertà delle persone migranti”, adottatati di recente dal GNPL italiano, “[i]n assenza di una prospettiva ragionevole di raggiungimento di uno scopo legittimo, la detenzione deve considerarsi arbitraria” (GNPL, Standard per la privazione della libertà delle persone migranti). A chiudere poi il discorso è la Direttiva n. 115 del 2008, che disciplina i rimpatri dagli Stati membri dell’Unione europea, il cui art. 15, comma 4, stabilisce,  in termini inequivocabili, che “[q]uando risulta che non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento …, il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata”.

In breve, se è il rispetto del principio di proporzionalità a rendere legittima, in deroga a un diritto internazionalmente riconosciuto, la privazione della libertà personale, nella situazione attuale, con riferimento alla condizione delle persone straniere detenute nei CPR, la proporzionalità è venuta meno. I rischi per la salute (e per la vita) dei detenuti e l’irrealizzabilità del fine in vista del quale sono privati della libertà fanno pendere il piatto della bilancia nel senso del rilascio, se non di tutti, perlomeno di una parte significativa delle persone trattenute. C’è dunque che da augurarsi che le numerose e autorevoli richieste in tal senso vengano accolte. La circostanza che, in questo caso, una situazione eccezionale imponga l’ampliamento di un diritto, limitando la portata delle eccezioni – anziché permettere, come più spesso avviene, di estendere le eccezioni, restringendo la portata del diritto –, non può che rafforzare questo convincimento.

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