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PANDEMIA, IMPRESE E DIRITTI UMANI. L’APPLICAZIONE DEI PRINCIPI GUIDA ONU SU IMPRESA E DIRITTI UMANI AL TEMPO DEL COVID-19

Marco Fasciglione, Consiglio nazionale delle ricerche e Co-direttore della Summer School “Business and Human Rights”

  1. Premessa

Sino ad oggi il dibattito sull’impatto del COVID-19 sui diritti umani ha concentrato l’attenzione sul ruolo degli Stati e sulla legittimità delle misure di deroga o di limitazione delle libertà individuali adottate per contenere la diffusione della pandemia, in combinazione con quelle di tipo economico e sociale tese ad offrire una rete di sicurezza sia agli individui che alle imprese. Minore attenzione, invece, è stata riposta sul ruolo, non meno importante, del settore privato. I Principi Guida ONU su impresa e diritti umani del 2011 (UNGPs) ci ricordano in effetti, che se da un lato spetta agli Stati l’obbligo (positivo) di regolare le attività delle imprese in modo che queste ultime non violino i diritti umani (v. Fasciglione, pp. 37-47), dall’altro lato la responsabilità delle imprese di rispettare (CRtoR), disciplinata dal secondo Pilastro dei UNGPs, impone alle imprese di rispettare i diritti umani nel corso delle loro operazioni e dell’intera value chain (v. Bonfanti e Bordignon, in part. p. 501) e di adottare le misure necessarie per evitare che le proprie attività abbiano un impatto negativo sui diritti umani e nel caso in cui lo si sia cagionato, per prevenirlo, mitigarlo e rimediarlo (circa la nozione di ‘impatto’ nei UNGPs, più ampia di quella di ‘violazione’, v. la convincente analisi di Birchall). Ciò vale anche in relazione ai rischi sui diritti umani collegati all’emergenza del COVID-19. Obiettivo di queste sintetiche note è proprio analizzare, alla luce dei Principi guida, come si declina la CRtoR dinanzi all’emergenza da Coronavirus.

  1. Emergenza da COVID-19, diritti umani e shareholder primacy

Come evidenziato recentemente da Van Ho il modello prevalente di impresa (fondato sulla shareholder primacy) utilizza due modalità di reazione alla crisi del COVID-19: a) l’impiego, di ingenti riserve di liquidità per effettuare riacquisti di azioni (una strategia semplice e veloce per aumentare il valore delle azioni – e per incrementare le stock options dei managers); b) il contenimento dei costi e delle perdite derivanti dalla quarantena, sfruttando la possibilità concesse dalla produzione lungo le supply chain globali, di disporre il rinvio di pagamenti contrattuali, la cancellazione di ordinativi, o, peggio ancora, il rifiuto di accettare la consegna di merci già prodotte. Si tratta di modalità che mettono a rischio i diritti dei lavoratori che prestano la loro attività lungo tali catene di fornitura, spesso con ridotte, o del tutto assenti, garanzie sul lavoro.

D’altronde, anche la ‘continuazione’ delle attività produttive presenta dei rischi per i lavoratori. Si pensi ai lavoratori migranti o a quelli che operano nelle economie ‘informali’, normalmente privi di coperture sanitarie da attivare in caso di malattia da contagio. Si pensi soprattutto alle misure emergenziali adottate dagli Stati per impedire la diffusione del virus che pur interrompendo le attività lavorative in settori produttivi considerati ‘non essenziali’ (ad esempio turismo e ospitalità), consentono che alcune categorie continuino a prestare la loro attività in settori che, come i trasporti o la sanità, sono considerati ‘chiave’ perché necessari per assicurare i servizi di cura ai malati, quelli di trasporto pubblico per altri lavoratori ‘chiave’ o quelli di trasporto delle merci per rifornire la popolazione di generi di prima necessità (cibo, medicinali, ecc.). Per questi ‘lavoratori necessari’, misure per la ‘minimizzazione’ dei rischi collegati al diritto alla salute, sono richieste tanto agli Stati quanto alle imprese (v. da ultimo, lo Statement su coronavirus e diritti economici, sociali e culturali del CESCR, par. 16). Ebbene i modi con cui tali situazioni ‘toccano’ la CRtoR sono molteplici.

  1. L’ambito ratione materiae della CRtoR dinanzi all’emergenza da COVID-19

In via generale, ai sensi del Principio 11, le imprese devono «rispettare i diritti umani»: ciò comporta che esse «dovrebbero evitare di violare i diritti umani di terzi e intervenire sugli impatti negativi sui diritti umani in cui esse siano coinvolte». In secondo luogo, il Principio 12 nel definire la portata della CRtoR, chiarisce che essa si estende potenzialmente a tutti i diritti umani emersi a livello internazionale. Questo perché le imprese con le loro operazioni economiche possono avere un impatto, diretto o indiretto, praticamente sull’intero spettro di questi diritti. A tal fine il Principio 12 rinvia come contenuto minimo ai diritti espressi nella International Bill of Rights e nei principi concernenti i diritti fondamentali enunciati nella Dichiarazione sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro dell’ILO del 1998. Inoltre, e di particolare rilevanza ai nostri fini, il Commentario al Principio 12 evidenzia come in presenza di particolari contesti (sic!) «alcuni diritti umani possono essere maggiormente a rischio di altri» e che quindi in tali ipotesi, piuttosto che concedere delle deroghe, alle imprese è richiesto un maggiore livello di attenzione relativamente al loro rispetto.

Ebbene, proprio il caso dei lavoratori che prestano attività nei ‘settori chiave’ esprime in modo paradigmatico questa maggiore ‘soglia di attenzione’ che è richiesta alle imprese nel peculiare contesto della pandemia da COVID-19. Per tali categorie di lavoratori, infatti, il rischio di violazione del diritto alla vita (art. 6 PDCP, art 2 CEDU – che, si noti, almeno con riguardo all’ambito regionale europeo è un diritto che non può essere derogato, sospeso o limitato nemmeno in situazioni di emergenza), del diritto al raggiungimento dei più alti standard di salute mentale e fisica (art. 12 PDESC), o di quello a condizioni di lavoro sicure ed salubri (art. 7, lett. b), PDESC), è enormemente superiore rispetto a quello delle altre categorie di lavoratori (non essenziali) i quali possono, in ottemperanza ai provvedimenti di quarantena, restare a casa. Si tratta insomma di lavoratori che si trovano in situazione di particolare vulnerabilità in quanto essi, a causa dell’esposizione al contagio, corrono un maggiore rischio di subire delle violazioni dei summenzionati diritti. L’attuazione delle misure destinate ad assicurare nei confronti di questi ultimi la sicurezza e salute sul lavoro, allora, è un obbligo che incombe anche sulle imprese (cfr. Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali, General Comment No. 23 (2016) on the Right to Just and Favorable Conditions of Work (article 7), paragrafi 74 e 75), cui gli standard internazionali richiedono di «take adequate steps to ensure occupational health and safety in their operations» (v. OCSE, Linee guida sulle imprese multinazionali. Employment and Industrial Relations, par. 4, lett. c)). Il naturale pendant di tali obblighi è rappresentato dal diritto dei lavoratori ad essere rimossi dalle attività che presentino rischi seri ed imminenti per la salute o per la sicurezza (v. l’art. 13 della Convenzione ILO n.155). È proprio tale diritto, ad esempio, ad essere stato invocato dai dipendenti delle imprese dell’e-commerce in relazione alla mancata attuazione da parte dei propri datori di lavoro di misure volte a realizzare il distanziamento sociale e a garantire un ambiente di lavoro sicuro e salubre nei rispettivi magazzini e nei centri smistamento (si veda ad esempio la vicenda di Amazon, che ha poi adottato una specifica policy in materia).

  1. Il contenuto della CRtoR e l’emergenza da COVID-19

Nello specifico, poi, la CRtoR si sostanzia nel dovere dell’impresa di a) evitare di causare direttamente attraverso le sue attività (nozione con cui si fa riferimento sia alle condotte positive che a quelle omissive) violazioni dei diritti umani, o b) evitare di contribuire tramite le proprie attività a violazioni che risultano da attività di enti terzi (Principio 13a), e c) cercare di prevenire o mitigare l’impatto negativo sui diritti umani direttamente collegato alle loro operazioni, ai loro prodotti o ai loro servizi in virtù di un determinato rapporto commerciale (Principio 13b). Tornando all’esempio della tutela del diritto alla salute dei lavoratori ‘chiave’, la mancata adozione, da parte dei loro datori di lavoro delle misure necessarie per assicurare la protezione dall’aumento del rischio di infezione da COVID-19 (ad esempio mancata messa a disposizione dei dispositivi di protezione personale, mancata attuazione delle politiche di distanziamento sociale, ecc.) è contraria al dovere sub a).

Nel caso in cui l’impresa si trovi coinvolta in una delle tre summenzionate modalità di impatto negativo sui diritti umani dovrà adottare le misure indicate nei Principi 19 e 22: esse sono funzionalmente collegate al tipo di ‘coinvolgimento’ dell’impresa nell’impatto negativo. Nell’ipotesi in cui l’impresa abbia causato l’impatto negativo o vi abbia contribuito, essa dovrà terminarli e predisporre dei rimedi (che possono includere anche misure di risarcimento). Nell’ipotesi sub c) in cui l’impresa è solo ‘collegata’ all’impatto negativo cagionato da altri enti, l’intervento correttivo varia a seconda del grado d’influenza che l’impresa mantiene nei confronti di tale entità, dell’importanza del rapporto commerciale per l’impresa stessa e della gravità dell’impatto negativo (sul punto le riflessioni di Grado, in part. pp. 849-850).

In effetti, in virtù di tale ‘collegamento’ le imprese che si trovano in cima alle catene di fornitura, grazie al loro potere di fissazione dei prezzi e delle quantità di merci richieste, influenzano le attività delle imprese a valle: tale capacità di influenzare (che i Principi guida definiscono ‘leverage’) si traduce in una connessa ‘responsabilità’ di adottare misure necessarie per evitare che i lavoratori delle imprese subappaltatrici e dei fornitori lungo le catene di fornitura, subiscano in conseguenza della crisi da COVID-19 un impatto negativo sul loro diritto alla salute o sul loro diritto alla sicurezza sul lavoro.

Siffatta responsabilità da … ‘collegamento’ interessa molto da vicino il rapporto tra misure di contrasto alla pandemia e attività delle imprese. In effetti come visto poco più sopra è soprattutto sui lavoratori delle supply chain che si ‘scaricano’ gli effetti negativi delle misure adottate dalle imprese in conseguenza della diffusione pandemica. Emblematico è l’esempio fornito dal recente caso riguardante la produzione di guanti per gli operatori sanitari. La crisi ha originato l’impennata della domanda mondiale di tali presidi sanitari, l’aumento della pressione sugli stabilimenti di produzione (ad esempio in Malesia, il primo fornitore mondiale di guanti per scopi sanitari), che hanno iniziato a sottoporre i dipendenti a turni di lavoro straordinari, il tutto con il rischio di violare la norma consuetudinaria che vieta il ricorso allo sfruttamento della manodopera o al lavoro forzato (sulla conferma della diretta applicabilità di tale norma di jus cogens alle imprese, v. recentemente la Corte suprema canadese nel caso Nevsun Resources Ltd. v. Araya, par. 114).

  1. La due diligence di impresa sui diritti umani e l’emergenza da COVID-19

Tra gli strumenti che gli UNGPs individuano per attuare la CRtoR, un’importanza fondamentale è rivestita dalla due diligence d’impresa sui diritti umani (HRDD). Si tratta di un processo che le imprese devono avviare allo scopo di identificare, prevenire e mitigare i propri impatti negativi e per rendere conto del modo in cui tali impatti vengono affrontati. Il Principio 17 richiede alle imprese di valutare in maniera continuativa gli impatti e i rischi potenziali che può causare o contribuire a causare attraverso le proprie attività o che possono essere direttamente collegati alle sue operazioni, ai suoi prodotti o servizi attraverso le proprie relazioni commerciali. Il processo deve essere adattato alle specifiche caratteristiche dell’impresa e delle sue attività di business e, nei limiti del possibile, deve coprire l’intera filiera di produzione. È evidente che tale processo di valutazione dei rischi ha un ruolo da giocare in situazioni, come l’emergenza da COVID-19, in cui ad esempio le imprese, chiamate a non interrompere le proprie attività, devono dimostrare di aver adottato le misure atte a garantire i massimi livelli possibili di sicurezza e salute sul lavoro in favore dei propri dipendenti. I Principi Guida applicano quest’onere di diligenza anche nei confronti dei lavoratori delle supply chain e richiedono alle imprese di valutare i rischi per i diritti alla vita, alla salute e a un ambiente di lavoro sicuro e sano per tali lavoratori, per il loro diritto alla protezione sociale (art. 9 del PDESC) e per quello alla libertà di associazione e alla contrattazione collettiva.

Sebbene, la CRtoR e la HRDD non costituiscano un obbligo per le imprese, ciò non esclude che esse possano diventare il contenuto obbligatorio di legislazioni nazionali adottate dagli Stati. Ciò è quanto è avvenuto ad esempio in Francia e nel Regno Unito, con l’adozione di legislazioni che prevedono con differenti modalità l’obbligo di HRDD a carico delle imprese nazionali. Logica non dissimile è contenuta nella normativa italiana sulla c.d. ‘responsabilità amministrativa delle persone giuridiche’ introdotta con il D.Lgs. 231/2001 che prevede come causa di esclusione dalla responsabilità dell’ente la predisposizione dei modelli organizzativi idonei per prevenire l’illecito. Meritevole di rilievo, in questa sede, il fatto che nel 2007 è stato aggiunto tra i c.d. reati presupposto l’art. 25-septies, che ha esteso la responsabilità amministrativa anche agli illeciti collegati alla tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Medesimo approccio è rinvenibile nell’ordinamento dell’UE in cui alcune normative di settore ed in particolar modo la direttiva 2014/95 /UE sulla comunicazione delle informazioni di carattere non finanziario, recepita in Italia con il D.Lgs. 254/2016, con l’obbligo per le imprese europee con oltre 500 dipendenti di pubblicare annualmente i risultati dell’analisi del loro impatto ambientale e sociale.

  1. Conclusioni: attori, ‘responsabilità’ e diritti nella società Post-pandemia

La pandemia è destinata a mutare tanto l’assetto della società contemporanea quanto le categorie concettuali che le scienze sociali hanno utilizzato sino ad oggi per spiegarla ed interpretarla. Essa evidenzia l’insostenibilità ambientale e sociale del sistema attuale di produzione e distribuzione e l’incapacità di molte imprese di assicurare il rispetto dei diritti umani, i limiti degli standard volontari, nonché gli accountability gaps del modello delle supply chain. In particolare, l’emergenza da COVID-19 evidenzia, semmai fosse ancora necessario, l’inadeguatezza di alcune delle categorie concettuali utilizzate per ‘com-prendere’ le dinamiche che si dipanano all’interno della comunità internazionale e la necessità, anche in relazione al sistema internazionale di protezione dei diritti umani, di una loro ‘palingenesi’.

In effetti, l’intrinseca ‘dinamicità’ dei destinatari passivi delle norme sui diritti umani» (v. Fasciglione, in corso di stampa) spinge a considerare che le violazioni dei diritti umani oggigiorno avvengono in un quadro caratterizzato da azioni congiunte e coordinate tra le diverse categorie di attori che ‘partecipano’ (circa la nozione di ‘partecipanti’ v. Higgins, p. 39 ss.) ai relativi processi di responsabilizzazione. Siffatti ‘processi’ originano responsabilità ‘complementari’ e ‘condivise’ (sulle implicazioni teoriche e pratiche delle shared responsibilities di imprese e di Stati, v. l’analisi di Nollkaemper e Jacobs e le riflessioni specifiche di Karavias) o addirittura «circolari» in quanto non più ancorate esclusivamente al «‘vertical’ study of the responsibilities and accountability of certain categories of actors (e.g. states or corporations)» (v. Macchi, 2020).

Se dunque è evidente che nella società Post-pandemia sarà necessario ‘sistematizzare’ questi processi, è altrettanto evidente allora che «il tema del durante è la questione del dopo». Ciò nel senso che la sfida che ci attende è riflettere oggi su come ‘rimodulare’ nozioni quali quelle di soggetti, responsabilità, produzione normativa, ecc. con cui dovremo decodificare la realtà fenomenica del futuro. Da questo punto di vista il COVID-19 come ogni ‘crisi’ costituisce, per l’ordinamento internazionale, un ‘pericolo’, certo, ma anche una ‘opportunità’ … da cogliere per restituire centralità al valore della dignità umana e realizzare un «world order producing and distributing those values» (Reisman, et al., p. 582).

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