diritto internazionale pubblico

Un passo avanti della giustizia penale internazionale contro l’ «istituzionalizzazione della tortura»: la CPI autorizza in appello l’indagine sui possibili crimini internazionali commessi in Afghanistan (e in Europa) durante la war on terror

Luigi Daniele, Nottingham Law School

1. Dopo un iter procedimentale complesso e assai dibattuto, il 5 marzo 2020 l’Appeals Chamber (AC) della Corte Penale Internazionale (CPI o Corte) ha autorizzato (Autorizzazione) la Procura diretta da Fatou Bensouda all’apertura di una indagine relativa alla situazione in Afghanistan e ai potenziali crimini di guerra e contro l’umanità commessi nell’ambito del conflitto armato che, nel paese stesso, e con implicazioni in diversi altri Stati, dal 2001 ha segnato l’inizio del decennio della war on terror.

Per la prima volta dalla nascita della Corte, un’autorizzazione all’apertura di un’indagine – provvedimento che nella disciplina processuale di questa organizzazione segna il passaggio dalla fase pre-investigativa (preliminary examination) al primo stadio del procedimento penale (investigation) – viene concessa in appello. La decisione apre in particolare all’ipotesi, prospettata dall’Office of the Prosecutor (OTP) nella rispettiva richiesta di autorizzazione all’indagine ex art. 15 dello Statuto di Roma (Richiesta), di un’azione penale internazionale a carico di alti funzionari dell’esercito e dell’intelligence USA del tempo, oltre che di Talebani e di personale delle forze militari afghane, per crimini di guerra commessi nell’ambito del conflitto.

Le dichiarazioni di ostilità da parte dell’amministrazione statunitense non hanno tardato a manifestarsi ed hanno preso di mira non solo la situazione in esame, ma la CPI tout court. Il 5 marzo stesso, il Segretario di Stato Pompeo ha definito la «cosiddetta Corte» come una «irresponsabile istituzione politica mascherata da organo giuridico, … rinnegata ed illegale» (traduzione di chi scrive). Lo stesso Pompeo è giunto a minacciare l’adozione di misure restrittive ad hoc nei confronti di singoli funzionari dell’OTP identificati nominalmente di fronte alla stampa (‘rei’ di aver esercitato le proprie funzioni nell’identificazione di possibili crimini internazionali commessi dalle forze USA), suscitando l’allarme di diverse organizzazioni non governative.

2. Per comprendere le ragioni di questa esacerbata conflittualità, è utile osservare alcune delle ipotesi di reità formulate dall’OTP. Nelle centottanta – dense e ben argomentate – pagine della Richiesta si fa riferimento, a proposito delle pratiche di detenzione e interrogatorio seguite da settori delle forze armate USA e della CIA, ai potenziali crimini di guerra di tortura (art. 8(2)(c)(i) dello Statuto di Roma), oltraggi alla dignità personale, in particolare trattamenti umilianti e degradanti (art. 8(2)(c)(ii)), stupro ed altre forme di violenza sessuale (art. 8(2)(e)(vi)). Le informazioni raccolte dalla Procura, se, da un lato, indicano vicende già note (v. il Rapporto Schlesinger del 2004 e il Rapporto della Commissione d’inchiesta del Senato USA del 2014), risultano, dall’altro, particolarmente inquietanti.

Le informazioni elencate dall’OTP descrivono, piuttosto dettagliatamente, varie pratiche (OTP, Richiesta, par. 193 ss.) mirate ad indurre crolli psicologici per estorcere informazioni, tra cui: prolungati periodi di isolamento fisico e sensoriale, forzando i detenuti in posizioni di stress, con dispositivi tali da impedire vista e udito, uniti a lunghi periodi di privazione del sonno e sovra-stimolazione forzata (musica e suoni assordanti, luci accecanti intermittenti); esposizione dei detenuti denudati a freddo e caldo estremi; utilizzo di fobie culturali, religiose e sessuali, incluso il denudamento forzato e varie forme di umiliazione, tra cui il cd. diapering (costringere i detenuti a lunghi periodi di trattenimento dei bisogni fisiologici, inducendone il rilascio su se stessi durante gli interrogatori); violenza fisica e pestaggi, sia di sorpresa, durante le ore di riposo, sia durante gli interrogatori; soffocamento tramite liquidi, o waterboarding, potenzialmente letale anche eccedendo di pochi secondi i limiti fisici del torturato; violenze sessuali di varia natura, incluso il ‘nutrimento forzato’ anale praticato violentemente, pratica che ha causato in alcuni detenuti gravi traumi e patologie rettali (OTP, Richiesta, par. 210).

La Richiesta indica la sussistenza di ragionevoli motivi per ritenere che almeno 54 potenziali vittime di tali crimini siano state catturate e detenute dalle forze militari USA in strutture situate in Afghanistan e di almeno 24 soggette, invece, a tali pratiche in strutture segrete gestite dalla CIA in Polonia, Romania e Lituania (Stati parte dello Statuto di Roma).

3. La circostanza appena menzionata segna uno dei profili di diritto sostanziale di grande rilievo della vicenda in esame, destinato ad avere impatto sui futuri orientamenti della CPI in relazione alla propria competenza territoriale per crimini di guerra commessi nell’ambito di conflitti armati di carattere non interstatale, come segue.

In generale, affinché possa parlarsi di crimini di guerra in diritto internazionale, sono necessari alcuni presupposti generali di contesto: l’esistenza – dal punto di vista giuridico – di un conflitto armato; la conseguente applicabilità del diritto dei conflitti armati consuetudinario e pattizio; ed un nesso tra il conflitto e la condotta incriminata, che nel quadro normativo della CPI viene descritto (in particolare negli Elementi dei Crimini) come necessità che la «condotta abbia avuto luogo nel contesto del o in connessione al conflitto armato» in questione (c.d. war nexus, che distingue tali crimini da eventuali condotte illecite commesse durante un conflitto, ma indipendentemente da esso).

Nel caso in esame, dunque, nessun problema sostanziale sorge circa la configurabilità dei potenziali crimini di guerra commessi in territorio afghano, immediato teatro delle ostilità che contestualizzano le condotte descritte. Per le condotte realizzate nelle strutture gestite dalla CIA in altri Stati (si rammenta, in Polonia, Romania e Lituania), invece, si pone l’annosa questione dell’applicabilità extra-territoriale, ovvero al di fuori del paese teatro principale degli scontri, del diritto dei conflitti armati e delle garanzie da esso discendenti. La questione si intreccia col denso dibattito scientifico sul rapporto tra ‘geografie’ del diritto dei conflitti armati, tipologie di conflitti, guerra al terrorismo e cd. global battlefield. In particolare, nel caso di un conflitto armato tra uno o più Stati e un gruppo armato che, ad esempio, controlli porzioni di un territorio nazionale, può accadere che vi siano ‘sconfinamenti’ (in senso letterale, c.d. cross-border non-international armed conflicts) delle ostilità al di fuori del paese teatro principale degli scontri. Se, infatti, unità militari del gruppo armato battono in ritirata ‘oltre confine’, ma riprendono le ostilità dagli Stati limitrofi, la domanda è: da quale regime giuridico sono governate tali ostilità? È applicabile ad esse il diritto dei conflitti armati? E se in Stati limitrofi, o in Stati terzi in cui non si verificano scontri, membri del gruppo, o civili sospettati di farne parte sono catturati, quale sarà il relativo status giuridico? A quali norme dovrà conformarsi il loro trattamento?

L’OTP, conscio di tali implicazioni, aveva prospettato che il war nexus delle condotte menzionate potesse ritenersi integrato dalla circostanza che i soggetti catturati, anche al di fuori del territorio afghano, appartenessero ai network dei Talebani e di Al Qaeda, e dal fatto che gli interrogatori attuati tramite le c.d. enhanced techniques descritte fossero mirati ad ottenere informazioni funzionali alle operazioni militari USA in Afghanistan. Di conseguenza, considerando il carattere ‘globale’ del programma di interrogatori della CIA, la Procura sosteneva (OTP, Richiesta, par. 251) che nessuna limitazione territoriale potesse essere di ostacolo all’applicabilità dell’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 (che regola i conflitti armati di carattere non interstatale e l’applicabilità della relativa disciplina), e – di conseguenza – all’art. 8 dello Statuto di Roma, relativo ai crimini di guerra.

Nell’aprile del 2017 la seconda Pre-Trial Chamber (PTC) della Corte aveva esaminato la richiesta del Procuratore. Con una criticatissima decisione ex art. 15 dello Statuto (Decisione), per i motivi che si vedranno, la PTC aveva negato l’autorizzazione all’indagine. Per quanto qui ora interessa, nella Decisione i giudici preliminari avevano sostenuto perentoriamente che lo spirito e il dettato dell’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 fosse «inequivocabile» nel circoscrivere l’applicabilità del diritto dei conflitti armati non interstatali all’interno dei confini dello Stato in cui sono in corso le ostilità (PTC, Decisione, par. 53). Le implicazioni di tale orientamento appaiono preoccupanti.

Per affermare che esista – giuridicamente – un conflitto armato non interstatale in un paese, infatti, è richiesto il superamento di sostanziali soglie di sistematicità e intensità degli scontri, che ‘innescano’ l’applicabilità dello speciale regime giuridico in questione. Tali soglie, quindi, non potrebbero dirsi superate nel caso di cross-border hostilities in Stati limitrofi al teatro principale, poiché scontri episodici non sarebbero sufficienti a considerare tali Stati in conflitto. Escludendo tout court che il diritto dei conflitti armati possa applicarsi al di fuori dei confini dei paesi fulcro delle ostilità, dunque, non si elide solo la cogenza delle norme che limitano mezzi e metodi di combattimento (inclusa l’immunità dei civili da ogni attacco diretto), ma si esclude anche la vigenza delle garanzie fondamentali consuetudinarie che proteggono qualsiasi persona che abbia cessato di partecipare – per qualsiasi motivo – alle ostilità e che si trovi nelle mani di uno degli attori del conflitto. Senza un conflitto armato, infatti, anche le norme consuetudinarie in questione resterebbero inapplicabili.

In senso contrario ai rilievi della PTC, va notato che l’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra fa in effetti esplicito riferimento all’esistenza di un conflitto armato «sul territorio di una delle Alte Parti contraenti», e lega a questa premessa l’applicabilità del regime di limitazioni e protezioni discendente dalle Convenzioni stesse. Tuttavia, l’interpretazione prevalente di questa espressione (v. Commentario del Comitato Internazionale della Croce Rossa del 2016, par. 465-482) intende il riferimento al «territorio» di uno Stato parte delle Convenzioni non come limite geografico all’applicabilità delle stesse, ma, al contrario, come funzionale semplicemente ad escludere che il regime giuridico in questione possa applicarsi a conflitti che insorgano sul territorio di uno Stato che non abbia ratificato le Convenzioni. In questo senso, l’AC della Corte, prendendo un’importante posizione destinata a influenzare il dibattito e la futura giurisprudenza in tema, nell’Autorizzazione in esame ha sconfessato l’orientamento dei giudici preliminari, sostenendo che la lettura corretta del concetto di «territorio di una parte contraente» nell’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra indica appunto la mera necessità che lo Stato in questione abbia ratificato questi trattati (requisito di fatto automaticamente superato, data la ratifica universale delle Convenzioni stesse). Secondo l’AC, inoltre, tale interpretazione è supportata dal fatto che il primo comma dell’art. 3 afferma esplicitamente che «tortura» e «oltraggi alla dignità personale» rimangono «vietati, in ogni tempo e in ogni luogo» (AC, autorizzazione, par. 73 e 74).

Il nesso soggettivo-funzionale con il conflitto in questione, dunque, a giudizio dell’AC, rende procedibili (o almeno, a questo stadio, indagabili) condotte potenzialmente integranti le fattispecie di crimini di guerra di cui all’art. 8(2)(c) ed (e) dello Statuto di Roma, anche nel caso in cui esse siano state compiute interamente al di fuori dello Stato teatro delle ostilità.

4. Gli aspetti più dibattuti delle divergenze emerse tra gli organi della CPI sulla situazione in Afghanistan, tuttavia, riguardano, ancor più di quello menzionato, alcuni profili procedurali.

Al fine di comprendere tali divergenze, va premesso che il passaggio da preliminary examination ad investigation rappresenta uno snodo procedurale importante nell’azione della Corte, poiché determina la devoluzione dei poteri di indagine veri e propri all’OTP e l’attivazione degli obblighi di cooperazione degli Stati parte. Tuttavia, questo passaggio si basa sulla valutazione complessiva delle informazioni relative ad una situazioneraccolte e fornite dalla Procura, non essendovi ancora casi specifici. In altre parole, in questo stadio l’OTP, da un lato, identifica potenziali crimini, ma, dall’altro, non indica ancora dei soggetti sospettati di averli commessi.

Questo passaggio procedurale è regolato dall’art. 15(3) dello Statuto di Roma. Tale articolo prescrive che il Procuratore, in caso di preliminary examination cominciata di propria iniziativa (proprio motu), dovrà richiedere alla PTC competente un’autorizzazione all’indagine, sulla base delle informazioni raccolte, qualora ritenga che esistano ragionevoli presupposti (reasonable basis) per procedere all’indagine.

Quanto all’identificazione dei criteri di tale valutazione, l’art. 48 delle Regole di procedura e prova (RPE) della Corte rinvia integralmente all’art. 53(1) dello Statuto. Esso stabilisce che il Procuratore procederà (shall initiate) all’indagine dopo aver valutato tre aspetti, e cioè se:

a) le informazioni disponibili indicano ragionevoli presupposti per ritenere che un crimine di competenza della Corte è stato commesso;

b) il caso risultante potrà superare il vaglio di ammissibilità imposto dall’art. 17 dello Statuto (ammissibilità che, in estrema sintesi, viene esclusa se esistono già procedimenti penali nazionali aventi ad oggetto sostanzialmente le medesime condotte, o se la gravità del caso non è tale da giustificare ulteriore azione della Corte);

c) vi sono tuttavia fondati motivi (substantial grounds) di ritenere che un’indagine non servirebbe gli interessi della giustizia (si traduce qui il più letteralmente possibile la formula – approssimativa e indeterminata – dello Statuto, cioè «interests of justice»).

Dal tenore letterale dell’articolo, quindi, emerge che il Procuratore, nel formare il proprio convincimento di procedere all’indagine, debba effettuare sui primi due elementi una valutazione di segno positivo, vagliandone la sussistenza, mentre, quanto al terzo, cioè gli «interests of justice», ella/egli possa attestarsi su una mera valutazione di segno negativo, ovvero escludere che vi siano fondati motivi che li neghino. Emerge, inoltre, la differente connotazione dei fatti da cui il Procuratore può dedurre l’assenza degli «interests of justice». Non bastano, infatti, «ragionevoli presupposti», ma sono necessari «fondati» o «sostanziali» motivi tali da escluderne la sussistenza.

Questo articolo è risultato centrale nella dialettica tra OTP e giudici preliminari sull’Afghanistan.

La seconda PTC che nell’aprile dello scorso anno aveva esaminato le informazioni e le ricostruzioni fornite dell’OTP, infatti, aveva concordato con la Procura sulla sussistenza dei ragionevoli presupposti per ritenere fondate le ipotesi di reità avanzate. Alla luce degli elementi di valutazione stabiliti dall’art. 51(1)(a) e (b), dunque, i giudici preliminari si erano espressi in senso positivo sia a proposito della verosimile commissione di crimini internazionali, sia circa la sussistenza della competenza della Corte (PTC, Decisione, par. 45-48), sia a proposito della potenziale ammissibilità dei relativi casi, sulla base della gravità dei crimini stessi e dell’assenza di procedimenti nazionali aventi ad oggetto sostanzialmente le medesime condotte (PTC, Decisione, par. 70-86).

Il fulcro del diniego a procedere della PTC si era invece attestato, curiosamente e con argomentazioni discutibili, sulla mancanza degli «interests of justice».

Questo profilo della decisione dei giudici preliminari aveva sollevato critiche tanto numerose ed aspre (v. Ambos, Guilfoyle, Heller, Jakobs, Vasiliev, solo per citarne alcune), da avere pochi termini di paragone nel dibattito internazional-penalistico di questi anni. A parere dei giudici Mindue, Akane e dell’italiano Aitala, infatti, i «cambiamenti nello scenario politico in Afghanistan ed in altri Stati chiave (sia parte dello Statuto, che non), associati all’estrema complessità e volatilità del clima politico intorno allo scenario afghano» rendevano «estremamente difficile valutare le prospettive [della Corte] di assicurarsi significativa cooperazione [sull’indagine] da parte delle rilevanti autorità in futuro» (PTC, Decisione, par. 94, traduzione di chi scrive), tanto da indurre i giudici stessi a parlare di indagini «non fattibili ed inevitabilmente condannate al fallimento» (PTC, Decisione, par. 90, traduzione di chi scrive).  Inoltre, a detta degli stessi giudici, «procedere alle indagini [avrebbe richiesto] un ingente ammontare di risorse», per cui, «nella prevedibile assenza di risorse aggiuntive per i fondi della Corte negli anni a venire» autorizzare le indagini avrebbe costretto a una riallocazione di risorse umane e finanziare da parte della Procura che avrebbe svantaggiato o peggio compromesso altre indagini ed altri casi «caratterizzati da prospettive più realistiche di condurre ad un processo» (PTC, Decisione, par. 95, traduzione di chi scrive).

In sostanza, tramite gli argomenti citati, i giudici preliminari basavano il provvedimento di diniego a procedere in parte su considerazioni di amministrazione giudiziaria, legate all’allocazione interna delle risorse della Corte (competenza, in realtà, del Registro della Corte), in parte su previsioni degli esiti delle indagini basate non sugli elementi forniti dalla Procura (ritenuti al contrario soddisfacenti), ma sulla annunciata mancanza di cooperazione da parte degli Stati. Circa una settimana prima della pubblicazione della Decisione, invero, gli Stati Uniti avevano addirittura revocato il visto di accesso al paese alla Procuratrice Bensouda. Considerate le argomentazioni descritte, quindi, era apparso inevitabile (v. Labuda, Kersten e Varaki) riscontrare nel diniego dei giudici preliminari un successo dell’offensiva politica statunitense. Quest’aspetto aveva destato particolare preoccupazione. Come intuibile, infatti, il consolidarsi di un indirizzo interpretativo che neghi autorizzazioni all’indagine in considerazione della contrarietà degli ‘indagati’, si sarebbe risolto in una paradossale esortazione generale agli Stati a rifiutarsi di cooperare, o addirittura a intraprendere campagne di delegittimazione della Corte, al fine di elidere la sussistenza degli «interests of justice» ed assicurare così impunità ai propri cittadini sospettati di crimini internazionali.

Confermando le critiche degli studiosi (v., tra gli altri, Mariniello e Rossetti) ma con un iter argomentativo imprevisto, la recente autorizzazione dell’AC ha capovolto gli orientamenti dei giudici preliminari.

Anzitutto, l’AC esamina il rapporto tra art. 15 (rubricato «Prosecutor» e recante i poteri di questi collegati ad indagini proprio motu)ed art. 53 (rubricato «initiation of an investigation») dello Statuto di Roma. I giudici d’appello considerano i due articoli, 15 e 53 dello Statuto, come non sovrapponibili e riferiti a due procedure diverse. In sostanza, l’AC indica un doppio binario procedurale necessario a ricostruire gli ambiti dei poteri e dei criteri di valutazione, rispettivamente, del Procuratore e dei giudici preliminari: referral di uno Stato o del Consiglio di Sicurezza, da un lato, e iniziativa proprio motu del Procuratore, dall’altro.

I giudici d’appello segnalano quindi che l’art. 53 dello Statuto, che regola tali poteri e ambiti, si applica esclusivamente nel caso in cui il Procuratore abbia agito sulla base di un referral. In questo caso, lo scrutinio giurisdizionale della PTC è consentito limitatamente all’ipotesi in cui il Procuratore intenda archiviare (AC, Autorizzazione, par. 28 e 29). Specificamente, la determinazione del Procuratore di archiviare, se basata esclusivamente (solely) sulla non sussistenza degli «interests of justice», sarà effettiva solo se convalidata da parte della PTC (art. 53(3) dello Statuto).

Quanto al secondo tipo di procedimento, cioè di azione proprio motu del Procuratore, i giudici d’appello sottolineano che esso è regolato dal solo art. 15 dello Statuto, e non anche dall’art. 53, per cui – per la prima volta nella giurisprudenza della Corte – essi precisano che anche le valutazioni dei giudici preliminari dovranno attenersi esclusivamente alle indicazioni dell’art. 15 – che non fa menzione degli «interests of justice».

Di conseguenza, il Procuratore, nel formare il proprio convincimento, dovrà (art. 48 RPE) effettivamente seguire due criteri: 1) verificare che vi siano ragionevoli presupposti di ritenere che i crimini siano stati commessi e che sussistano i requisiti relativi alla competenza della Corte e ammissibilità e 2) accertarsi che non siano da escludersi, per fondati motivi, gli «interests of justice» (AC, Autorizzazione, par. 30 e 31). Tuttavia, secondo i giudici d’appello, la PTC non dovrà esaminare gli elementi forniti del Procuratore sulla scorta di quegli stessi criteri (ex art. 53(1)), ma attenendosi al più tenue potere di esame ex art. 15(4) dello Statuto (AC, Autorizzazione, par. 33-34). La PTC, dunque, dovrà limitarsi a valutare in generale l’esistenza di ragionevoli presupposti per procedere alle indagini, con esclusione sia di possibili rilievi sugli «interests of justice», sia di considerazioni di ammissibilità dei futuri casi, ex art. 17 dello Statuto.

Da questo punto di vista, dunque, se un tale orientamento si affermasse, il potere di judicial review delle PTC in caso di azioni di propria iniziativa del Procuratore risulterebbe significativamente ridimensionato rispetto al passato. Mentre in sede di lavori preparatori dello Statuto i redattori degli articoli discussi (v. Triffterer, pp. 733 ss. e 1368 ss.) apparivano preoccupati soprattutto di restringere i poteri discrezionali di indagine del Procuratore, la situazione afghana sembra aver momentaneamente capovolto il quadro, nel senso di una necessità – complice la menzionata decisione della seconda PTC – piuttosto, di limitare forme di judicial activism che rischiano di far soccombere la Corte alle pressioni politiche degli Stati più aggressivi ed influenti (col paradosso che anche tale limitazione viene perseguita tramite un’interpretazione originale e innovativa da parte dei giudici della AC).

Ciò che più rileva per il caso in esame, in conclusione, è che a seguito dei ragionamenti descritti i giudici d’appello affermano perentoriamente che è da escludersi ogni possibilità delle camere preliminari di esaminare d’ufficio gli «interests of justice» in caso di azione proprio motu del Procuratore.

A giudizio della AC, dunque, la seconda PTC ha errato nell’avocare a sé ex officio e de novo la facoltà di valutare la sussistenza degli «interests of justice».La concreta valutazione degli stessi da parte dei giudici preliminari, inoltre, viene giudicata frettolosa, ipotetica («cursory, speculative») e sprovvista di informazioni in grado di supportarne le conclusioni (AC, Autorizzazione, par. 46 e 49).

Cassando questo aspetto, quindi, e considerando i profili non impugnati della decisione della PTC, cioè la sussistenza degli elementi per procedere, l’AC ha ritenuto di non dover rinviare la questione all’esame della PTC ed ha direttamente autorizzato, dopo un esame preliminare della Procura di ben dodici anni, a procedere all’indagine sui crimini potenzialmente commessi in Afghanistan.

5. Resta da vedere quali saranno gli ulteriori sviluppi della vicenda. Dopo anni di promesse non mantenute e sistematiche ritrazioni della Corte di fronte ai crimini internazionali dei ‘potenti’, essa sembra cominciare a muovere alcuni, timidi passi di maggiore coraggio. Di sicuro, quanto alla capacità della CPI di orientare la propria azione in coerenza con i propri obiettivi, ulteriori prove attendono questa istituzione, tra tutte la prossima decisione sulle competenza territoriale della Corte sulla situazione in Palestina (v. qui e qui).

Intanto, però, l’autorizzazione alle indagini sul conflitto in Afghanistan dell’AC apre almeno qualche spiraglio affinché si possa pensare di perseguire a livello internazionale, senza discriminazioni basate sulla cittadinanza (v. Damaška, p. 361), i maggiori responsabili di quella che Cherif Bassiouni definì efficacemente l’istituzionalizzazione della tortura negli anni della war on terror. Le efferatezze di quella fase ci ricordano – con una certa attualità – quanto sia facile e veloce nelle emergenze il passaggio dall’identificazione di ‘nemici’, all’abolizione di diritti umani fondamentali.

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