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L’IMPATTO DELLA PANDEMIA DA COVID-19 SULLE DONNE: CONSIDERAZIONI SUL POLICY BRIEF DEL SEGRETARIO GENERALE DELL’ONU DEL 9 APRILE 2020

Fulvia Staiano, Università Giustino Fortunato e Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-IRISS)

1. Il 9 aprile 2020, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha presentato un policy brief relativo all’impatto del COVID-19 sulle donne. Nel documento sono individuati cinque diversi ambiti in cui la pandemia produrrà un impatto specifico sulle donne, aggravando disuguaglianze di genere preesistenti e generando nuovi problemi. La premessa alla base di questa analisi è che gli effetti della pandemia in corso saranno particolarmente gravi per le donne «simply by virtue of their sex» (v. p. 2 del policy brief). In particolare, l’impatto del COVID-19 sulle donne viene commentato con riferimento all’ambito economico, alla salute, al lavoro di cura non retribuito, alla violenza di genere e a particolari contesti di fragilità, conflitto o altre emergenze.

Nel documento in esame, il Segretario Generale solleva questioni senz’altro meritevoli di attenzione. La qualificazione di situazioni di disagio, esclusione sociale, mancato godimento di diritti fondamentali e discriminazione per ragioni di genere, non come frutto di una temporanea situazione di emergenza bensì come problemi strutturali a livello globale, appare del tutto condivisibile. È infatti evidente che l’impatto del COVID-19 sul godimento di diritti economici e sociali sarà particolarmente grave e pronunciato per tutte le categorie di soggetti che prima di tale emergenza già sperimentavano – per i più svariati motivi – situazioni di vulnerabilità. Questo breve commento si soffermerà in particolare su due aspetti del policy brief, analizzando il suo approccio essenzialista a questioni di disuguaglianza di genere e le osservazioni del Segretario Generale in materia di violenza di genere.

2. Alcuni profili del policy brief offrono spunti di riflessione critica. Tra gli altri, il policy brief sembra adottare una prospettiva di genere monodimensionale già rilevata nella prassi di altri organi delle Nazioni Unite (come il Consiglio di Sicurezza, su cui v. ad esempio Heathcote e Ní Aoláin). L’impatto del COVID-19 sulle donne viene commentato in senso generalizzato, senza prendere in considerazione i diversi effetti che questa pandemia produrrà su diverse categorie di donne. In particolare, fattori come il reddito, la nazionalità, lo status di migrante o l’origine etnica sono trascurati nell’analisi. Soltanto in alcuni punti specifici del brief il Segretario Generale opera rapidi riferimenti a particolari categorie, come nel caso dell’accesso a servizi sanitari da parte di donne in comunità rurali e marginalizzate (v. p. 10 del policy brief) o nel caso dell’accesso a informazioni legate alla prevenzione in materia di COVID-19 da parte di donne in situazioni di conflitto, donne in gravidanza e donne disabili (ivi, p. 11). Un riconoscimento più ampio dell’impatto differenziato che il COVID-19 produrrà su diversi gruppi, tuttavia, sarebbe stato opportuno non soltanto in relazione all’analisi dello stato attuale ma anche e soprattutto in relazione alle soluzioni proposte. Questa limitazione appare con particolare evidenza nelle sezioni dedicate agli effetti del COVID-19 dal punto di vista economico e del lavoro di cura. I problemi analizzati e le soluzioni prospettate in queste sezioni, infatti, trascurano del tutto il particolare impatto che il COVID-19 produrrà su alcune categorie di donne. Ad esempio, una pur breve analisi della diseguale distribuzione del lavoro di cura all’interno della famiglia e delle difficoltà di bilanciamento tra lavoro retribuito e carichi familiari – e di come il COVID-19 potrebbe aggravare questa disuguaglianza – non può non tenere conto del ruolo cruciale giocato dalle lavoratrici domestiche in questo contesto, nonché della significativa concentrazione di donne straniere in questo settore. Se dunque nel policy brief si osserva che il COVID-19 ha «intensificato in modo esponenziale» (intensified exponentially) la domanda di lavoro di cura (ivi, p. 13), l’analisi che ne consegue sembra riguardare esclusivamente gli effetti di questo fenomeno sul lavoro di cura non retribuito prestato dalle donne per i propri familiari, e non anche sull’attività e la condizione delle lavoratici domestiche. Per questa categoria, l’emergenza legata alla diffusione del COVID-19 potrebbe portare a un aggravamento di preesistenti situazioni di isolamento, vulnerabilità o precarietà lavorativa, nonché ad un aumento del rischio di sfruttamento sul lavoro.

L’impatto sulle lavoratrici domestiche straniere di misure restrittive della libertà di movimento allo scopo di contrastare la diffusione del COVID-19, con particolare riferimento al Medio Oriente, è stato già oggetto di commento nel contesto di notizie riportate da organizzazioni non governative come Human Rights Watch e Amnesty International. La scarsa considerazione delle lavoratrici domestiche nel policy brief in esame (al di là di un rapido riferimento alla necessità di includere questa categoria tra i beneficiari di misure sostitutive del reddito in caso di lavoro sommerso) appare poi ancora più sorprendente alla luce delle tre priorità trasversali da esso identificate. Una di queste priorità riguarda infatti la realizzazione di un cambiamento radicale e del raggiungimento della parità nella cosiddetta care economy che includa, come già osservato, sia il lavoro di cura retribuito che quello non retribuito.

Da un punto di vista più strettamente giuridico, gli obblighi internazionali assunti dagli Stati in relazione alla tutela dei diritti fondamentali delle lavoratrici domestiche migranti continuano a vincolarli anche nel corso della pandemia da COVID-19. In materia, l’unico strumento di tutela specificamente dedicato alle lavoratrici domestiche migranti e a carattere vincolante è la Convenzione sul lavoro domestico adottata dall’Organizzazione internazionale del lavoro nel 2011. Tuttavia, la Convenzione in parola ha ricevuto un numero molto limitato di ratifiche, per lo più da parte di Stati di emigrazione (tra gli Stati di immigrazione che ne hanno effettuato la ratifica è possibile annoverare l’Italia). Per gli Stati Parte, la Convenzione sul lavoro domestico sancisce obblighi positivi in relazione non solo al riconoscimento di una serie di diritti socio-economici (come il diritto alla parità di trattamento con gli altri lavoratori in materia di orario di lavoro, riposo giornaliero e ferie ex art. 10) ma anche alla garanzia di un’effettiva protezione di tali diritti nei rapporti tra lavoratori domestici e datori di lavoro (come nel caso dell’art. 9, il quale prevede un obbligo per gli Stati parte di adottare misure volte ad assicurare che i lavoratori e le lavoratrici domestiche siano liberi di concordare con il proprio datore di lavoro l’eventuale permanenza nell’abitazione dove svolgono la loro attività e che siano liberi e libere di lasciare tale abitazione durante il riposo giornaliero, settimanale e annuale). Ai fini di questo breve commento, e dunque con specifico riferimento alla tutela delle lavoratrici domestiche in generale e di quelle straniere in particolare, è utile segnalare l’obbligo per gli Stati parte di adottare misure per garantire la sicurezza sul lavoro e la salute dei lavoratori domestici e delle lavoratrici domestiche ex art. 13, di garantire l’accesso a misure di sicurezza sociale – anche in materia di tutela della maternità – in condizioni di parità di trattamento con gli altri lavoratori ex art. 14, nonché l’obbligo di assicurare una effettiva protezione contro ogni forma di abuso e violenza ex art. 5. Inoltre, l’art. 8, par. 3, prevede un obbligo di cooperazione per gli Stati parte al fine di assicurare l’effettiva applicazione delle previsioni della Convenzione in esame ai lavoratori e alle lavoratrici migranti. Gli obblighi gravanti sugli Stati Parte della Convenzione sembrano preservare la loro piena applicabilità anche durante l’attuale emergenza legata alla diffusione del COVID-19. Se da un lato alcune delle norme richiamate (in particolare gli art. 13 e 14) prevedono che le misure richieste potranno essere applicate progressivamente e in ogni caso che tali misure debbano essere adottate in conformità con le leggi e le prassi nazionali, dall’altro la Convenzione tace sulla facoltà per gli Stati parte di derogare a queste disposizioni o di sospendere temporaneamente la Convenzione stessa in caso di emergenza. In assenza di specifiche clausole sul punto nella Convenzione, il diritto consuetudinario come codificato negli artt. 57 e 58 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ammetterebbe una sospensione degli obblighi gravanti sugli Stati parte solo in presenza del consenso di tutte le parti o (a determinate condizioni) solo nei rapporti tra alcune delle parti (v. Giegerich, p. 1061 ss.).

Su un piano più generale, i principali sistemi universali e regionali di tutela dei diritti economici e sociali ammettono limitazioni a tali diritti (si veda ad esempio l’Art. 4 del  Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali) ma non deroghe o sospensioni da parte degli Stati in situazioni di emergenza (v. Scheinin). Se dunque il problema di garantire la tutela dei diritti civili e politici durante la pandemia da COVID-19 si sta imponendo all’attenzione della dottrina alla luce di deroghe unilaterali da parte di alcuni Stati ad obblighi sanciti da convenzioni internazionali come il Patto internazionale sui diritti civili e politici, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo o la Convenzione americana sui diritti umani (v. su questo blog Benvenuti, De Sena, Sommario, Saccucci e Tammone), è utile sottolineare che gli obblighi precedentemente assunti dagli Stati in materia di tutela dei diritti economici e sociali continuano a vincolarli anche durante la pandemia in corso. Come è ovvio, ciò riguarda anche tutte le previsioni di diritto internazionale pattizio applicabili alle lavoratrici domestiche straniere, incluse le disposizioni del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e il divieto di discriminazioni nel riconoscimento di tali diritti in ragione del genere o dell’origine etnica sancito dalla Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW) e dalla Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. Numerosi human rights treaty bodies delle Nazioni Unite hanno offerto importanti chiarimenti circa l’applicabilità di queste norme anche alle lavoratrici domestiche migranti (sul punto, v. Mullally), adottando l’approccio multidimensionale e intersezionale alla questione delle disuguaglianze di genere che è invece mancato nel policy brief.  Il Comitato sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie ha dedicato il suo primo General Comment proprio al lavoro domestico, identificando le lavoratrici domestiche migranti come particolarmente a rischio di subire forme di sfruttamento e abuso nonché violenza di genere.  Nel suo General Comment n. 26 sulle lavoratrici migranti il Comitato per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne ha esortato gli Stati Parte della CEDAW ad adottare specifiche misure anche a tutela delle lavoratrici domestiche migranti contro ogni forma di discriminazione (ad esempio in materia di orario di lavoro, salario, sicurezza sul lavoro e ferie). Più recentemente, il Comitato sui diritti economici, sociali e culturali ha riconosciuto la prevalenza di donne e di minoranze etniche o di migranti nel settore del lavoro domestico e ha sottolineato l’importanza del riconoscimento del diritto a condizioni di lavoro eque per questa categoria.

3. Un aspetto positivo del policy brief riguarda l’analisi condotta dal Segretario Generale nell’ambito della violenza di genere, che risulta efficace e di assoluta rilevanza nel contesto attuale. I dati forniti nel documento comunicano con chiarezza che il COVID-19 ha generato un aumento significativo dei casi di violenza contro le donne, anche in conseguenza dell’adozione da parte di molti Stati di misure di limitazione degli spostamenti e della libertà di movimento. La pandemia in corso ha non solo aggravato preesistenti situazioni di rischio, ma anche diminuito le possibilità di reazione a situazioni di violenza, riducendo la capacità di risposta da parte delle autorità e dei servizi competenti. Proprio perché la violenza di genere colpisce le donne in quanto tali, i problemi rilevati dal Segretario Generale (e confermati dall’OMS, dalla Relatrice speciale sulla violenza contro le donne e, nel contesto europeo, dalla Segretaria generale del Consiglio d’Europa) non riguardano singole categorie di soggetti o singoli Stati ma costituiscono un problema realmente trasversale e globale. Sebbene la capacità di reazione individuale a situazioni di violenza di genere possa variare in presenza di condizioni di svantaggio sociale ed economico e possa certamente diminuire in presenza di una pandemia come quella in atto, il policy brief del Segretario Generale mostra come gli Stati possono realisticamente porre in essere soluzioni adeguate anche in situazioni di emergenza. In particolare, la sezione dedicata alla violenza contro le donne sottolinea la necessità di includere nel contesto di piani nazionali di risposta alla diffusione del COVID-19 misure che qualifichino le case rifugio come servizi essenziali, l’aumento degli spazi a disposizione per l’accoglienza delle vittime di violenza, nonché il potenziamento dei servizi già disponibili (inclusa la possibilità di segnalare situazioni di violenza online o in luoghi sicuri e accessibili, come le farmacie o i supermercati).

È appena il caso di osservare che molte delle misure in questione richiamano precisi obblighi degli Stati parte della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (v., ad esempio, Niemi et al.). Tra questi, particolarmente importanti ai fini di questo commento risultano le disposizioni del Capitolo IV della Convenzione, che includono obblighi positivi per gli Stati parte di fornire servizi di supporto generali (art. 20) e specializzati (art. 22), di creare un numero sufficiente di alloggi sicuri per le vittime (art. 23) e di istituire linee telefoniche di sostegno operanti 24 ore su 24 (art. 24). Proprio in relazione alla diffusione del COVID-19, la Presidente del GREVIO (Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica) ha ricordato che la Convenzione di Istanbul deve continuare ad essere applicata sia in situazioni di conflitto che durante una pandemia come quella in corso e ha invitato gli Stati Parte a provvedere affinché le donne a rischio di violenza possano continuare a ricevere supporto e protezione.

Al di là dell’ambito europeo, il Comitato per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne ha sottolineato che l’obbligo di esercitare la dovuta diligenza nel prevenire e reprimere forme di violenza di genere grava sugli Stati Parte della CEDAW anche durante l’attuale emergenza sanitaria. Ad avviso del Comitato, i piani nazionali di risposta alla diffusione del COVID-19 dovrebbero rendere prioritario l’accesso a servizi di assistenza, supporto e accoglienza per le donne vittime di violenza nonché assicurare l’accesso alla giustizia. Questi chiarimenti risultano particolarmente importanti in considerazione dell’ampissima partecipazione degli Stati alla CEDAW (vincolante per ben 189 Stati Parte), e del fatto che il divieto di discriminazione sancito da questa Convenzione è stato interpretato dal Comitato come inclusivo di un divieto di violenza di genere (a suo avviso ormai assurto a norma di diritto internazionale consuetudinario, come affermato al par. 2 della General Recommendation in parola; sul punto, v. De Vido).

4. Dopo la pubblicazione del policy brief, l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha pubblicato un documento relativo alla tutela dei diritti umani delle donne durante l’emergenza da COVID-19 in cui, da un lato, sono stati approfonditi alcuni aspetti già trattati dal Segretario Generale e, dall’altro, sono state evidenziate buone pratiche degli Stati in materia. Tra i molti profili di rilievo, ai fini di questo breve commento è utile sottolineare che l’Alto Commissariato ha evidenziato il particolare rischio di infezione a cui alcune categorie di donne (tra cui le lavoratrici domestiche migranti) sono esposte e l’impatto sproporzionato che il COVID-19 può produrre sulle opportunità lavorative e la protezione sociale delle donne migranti. In materia di violenza di genere, l’Alto Commissariato riproduce essenzialmente l’approccio del policy brief, identificando gli Stati che hanno già provveduto ad adottare misure per garantire una effettiva protezione delle donne. In questo contesto, le misure italiane volte alla riconversione di strutture preesistenti in spazi di accoglienza per le vittime di violenza sono state identificate come esempio di «promising practice» (v. p. 1 del documento). Tali misure appaiono utili a garantire il rispetto degli obblighi positivi gravanti sull’Italia alla luce della Convenzione di Istanbul (v. in particolare l’art. 23 della Convenzione). In ogni caso, i temi affrontati dal policy brief del Segretario Generale delle Nazioni Unite relativo all’impatto del COVID-19 sulle donne suggeriscono che il problema essenziale in materia non è costituito dalla pandemia in sé, ma dalla sua capacità di amplificare (come qualsiasi altro evento dirompente ed imprevisto) gli effetti di situazioni di strutturale vulnerabilità e disuguaglianza a livello globale. Al di là delle singole criticità e dei punti di forza brevemente analizzati in questo commento, il merito principale del policy brief sembra essere quello di aver evidenziato che, oltre alla gestione dell’emergenza attuale, è necessario rimediare a problemi endemici per aumentare la capacità di resistenza e di reazione delle donne ad eventi che minacciano la loro salute, il loro benessere socio-economico e i loro diritti fondamentali. L’adozione di politiche e normative nazionali in questo ambito, peraltro, corrisponde ad obblighi positivi per gli Stati parte in materia di eliminazione delle discriminazioni e disuguaglianze di genere. Sia la CEDAW (art. 5) che la Convenzione di Istanbul (art. 12), ad esempio, impongono agli Stati parte l’adozione di misure necessarie a promuovere il superamento di modelli stereotipati dei ruoli di uomini e donne sia all’interno della famiglia che nella società civile. Dunque, non solo in contesti di gestione dell’emergenza sanitaria attuale ma anche nella futura fase di ripresa delle attività lavorative e produttive, si impone un’attenta riflessione da parte degli Stati sulla necessità di rispettare questi obblighi (ad esempio, evitando che il lavoro di cura non retribuito gravi in modo sproporzionato sulle donne).

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Fulvia Staiano

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